Credo che il dramma di Israele lo dovremmo sentire molto di più come un dramma nostro e lo dovremmo pensare al futuro: che ne sarà tra cinquant’anni? Certo che c’è il problema immediato della sua sicurezza, insidiata da tutti quelli, intorno, che ne vogliono cancellare l’esistenza, come appare sempre più chiaro dalla sequenza coordinata degli ultimi attacchi venuti da Hamas e dall’Hezbollah. C’è quello stato di necessità che porta a una reazione sproporzionata, quale appunto era voluta dagli attaccanti. Forse davvero lo Stato di Israele non può agire diversamente. Ma noi europei – oltre a dirci solidali – dovremmo interrogarci, in mezzo allo sconcerto di oggi, sul dramma di domani e dovremmo chiederci, anche per conto dei fratelli ebrei, quale potrà essere il futuro di quella nazione a noi spiritualmente gemella, incastonata in mezzo al mondo arabo. Preso nell’ansia della sopravvivenza quotidiana, l’Israele politico raramente pensa in termini di futuro. L’Europa forse può aiutarlo a questo, ovviamente facendosi carico del suo presente. Dovremmo anche noi porci – ogni volta – la domanda su quale potrebbe essere l’armamento dei nemici di Israele tra mezzo secolo, sulla sproporzione tra arabi ed ebrei che si potrebbe verificare all’interno delle sue frontiere e su quale potrebbe essere il sentimento dei vicini che non gli sono nemici. La sopravvivenza a lungo termine vuol dire pace con il mondo arabo. Ma non vi sarà pace se non cresce un sentimento di convivenza con e nelle popolazioni arabe che l’attorniano: sentimento che ogni atto di guerra allontana nel futuro. E che mai si affermerà se non si rimedia alla sofferenza in cui è posto il popolo palestinese. Non possiamo lasciare soli i due popoli. Dobbiamo trovare il modo di costruire le condizioni per l’avvicinamento. Dovremmo occuparci molto di più di ciò che accade laggiù.
Che sarà di Israele tra cinquant’anni?
2 Comments
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Mah, penso che purtroppo quando si avvolge l’odio nella carta stagnola di Dio si finisce sempre per avere lotte eterne. Da una parte Israele e il suo diritto a vivere dopo un genocidio di sei milioni di morti (e non importa che sia accaduto sessant’anni fa, importa che sia accaduto perché possiamo trarne monito). Dall’altra un gruppo di personaggi nella povertà più incredibile che vota un pugno di terroristi decisi a sterminare Israele in nome di un’interpretazione distorta del Corano. Anche questo è un tentativo di genocidio.
Ma allora, con chi stare? Io stare volentieri per due Paesi in pace, dove le condizioni di vita sono dignitose per tutti: e questo già evita l’insorgere del terrorismo; dove l’istruzione è possibile in scuole statali in cui anziché la Sharia si insegni il rispetto del prossimo; e anche questo distruggerebbe il terrorismo. Ma per farlo ci vuole tempo. E magari l’aiuto di tutto il mondo.
Sarebbe opportuno che l’Onu imponesse la Tobin Tax e vigilasse sui soldi: vuoi i soldi del mondo? Dimostrami a fine anno che hai fatto per la democrazia, i diritti umani, l’economia. Li hai spesi per le armi? E io ti affamo. Vediamo se le cose cominciano a cambiare.
Forse in Iran le autorità spirituali dovrebbero predicare l’amore per il prossimo, non l’atomica per annientare Israele.
Anche perché, aggiungo, il solo fatto di dire “Dio lo vuole” per un attentato, uno stupro, un genocidio, il lancio di una bomba, è il modo più rutilante, osceno e barocco per bestemmiarLo davvero. O no?