Può capitare che la morte di un uomo racchiuda più di una verità: oggi il modo di morire di papa Wojtyla è stato citato da Benedetto XVI come esempio di rifiuto dell’eutanasia e dall’arcivescovo Ravasi — ministro vaticano della Cultura — come rifiuto dell’accanimento terapeutico. E’ ancora negli occhi di tutti la tenacia del papa polacco che scelse di continuare la sua «missione» benchè ormai incapace di camminare e di parlare. E sappiamo che quando arrivò la crisi finale rifiutò il ricovero chiedendo: «Se mi portate al Gemelli avete modo di guarirmi?» (vedi post del 18, 24, 25, 27 settembre). Quelli i fatti. Ed ecco le parole con cui sono stati richiamati dal papa e dal suo ministro. «In più occasioni — ha detto Benedetto XVI — il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, che specialmente durante la malattia ha offerto un’esemplare testimonianza di fede e di coraggio, ha esortato gli scienziati e i medici a impegnarsi nella ricerca per prevenire e curare le malattie legate all’invecchiamento, senza mai cedere alla tentazione di ricorrere a pratiche di abbreviamento della vita anziana e ammalata, pratiche che risulterebbero essere di fatto forme di eutanasia». Ed ecco il richiamo alla morte del papa polacco fatto dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi in un’intervista pubblicata ieri dal «Corriere della Sera»: «Quando un malato si sta avviando alla fine della vita vanno evitati gli esami eccessivi e le cure troppo invasive. Ricordiamoci della scelta fatta da Giovanni Paolo II».
Quando Wojtyla rifiuta il ricovero
11 Comments
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Uno stesso fatto raccoglie certamente più di una verità. Che poi in quel fatto si vogliano cogliere solo gli aspetti che più confermano i propri postulati e la propria sensibilità è una regola meno universale della prima, ma che possiamo far giacere sotto la categoria del “piuttosto ricorrente”.
Almeno così mi sembra.
Woitila,
mi ricordo che sugli ultimi atti della sua vita, c’erano da parte di alcune persone a lui vicine, la necessità di far sapere una verità apposita per le masse ma che non fosse necessariamente quella vissuta dal povero buon vecchio Woitila.
Cio’ che fu detto, allora ed in seguito non mi ha MAI convinto, visto le condizioni di salute a cui era arrivato il buon Woitila.
Si aggiunga che il documento che ho letto su il Regno 17, ultimamente, pagine 527-529 – L’alimentazione e l’idratazione artificiali (risposte della CDF) con NOta di commento, che ho rilettop continuamente parola per parola, mi ha lasicato sempre molto molto perplesso.
Ma sul Regno18, il Dr. Massimo Romeo scrive:
“(…) Viviamo in un mondo in cui metà della popolazione sopravvive, come puo’, con meno di due dollari al giorno e un miliardo e duecento milioni sono alla fame con meno di un dollaro al giorno.
Per non parlare della mancanza di cure mediche che portano la speranza di vita alla nascita intorno ai 50 anni per molte nazioni del terzo mondo.
Chi in questa situazione mondiale si puo’ permettere di ricoverare in costosi ospedali, pubblici o privati che siano, fornire l’assistenza medica e infermieristica e nutrire artificialmente i pazienti in stato vegetativo?
Certamente solo i privilegiati del primo mondo.
Ma come può suonare alle orecchie di chi ha fame un simile pronunciamento?
Solo scherno e irrisione.
Se tutti avesero cibo e cure mediche a sufficienza, si potrebbe capire una tale preoccupazione della Chiesa Gerarchica.(..)””
Ecco, ora mi mancava Padre Ravasi alla collezione.
Permettetemi di essere molto, molto perplesso.
Oddio, l’estratto del Regno – così come è riprodotto qui, non so se mancano delle parti – mi pare semplicemente aberrante.
Mentre sulle due verità evidenziate da Luigi, visto che ci capita di ascoltarle praticamente lo stesso giorno, mi e vi chiedo: su quale – in questo momento della riflessione pubblica, e anche della riflessione teologica – è bene mettere l’accento?
Francesco io mi limito a leggere e al limite a proporre, a te i commenti del caso, dinanzi alle umanità
Saluto pdbmaster per il suo primo commento e gli chiedo scusa avendo trascurato di farlo subito, come d’abitudine con ogni nuovo arrivato. La fecondità della riflessione sulla morte di papa Wojtyla consiste a mio parere nel fatto che quel modo di affrontare la morte non si lascia ricondurre nè a categorie eutanasiche nè alle vie dell’accanimento. Segue cioè la via stretta che quel papa aveva indicato nel suo magistero: nè affrettare volontariamente la morte nè resistergli oltre le possibilità dell’umano, per una scommessa di tecnologia medica. A Francesco e a Matteo suggerisco di sviluppare la riflessione su questa via stretta che mi appare come l’unica pienamente umana e che forse richiede una costante compresenza dei due temi, mentre la polemica contingente – e anche la paura che incutono queste materie estreme a chi si avvenura in esse – induce a fare forza di volta in volta sull’una o sull’altra sponda, perdendo di vista il fatto che su quella via stretta siamo costantemente in bilico e non disponiamo di vere sponde ma solo di un’indicazione di principio e del fioco lume della coscienza per applicarlo. In quelle condizioni “fare forza” vuol dire precipitare dall’una o dall’altra parte. Dovremmo dunque cessare di “fare forza” per ragioni di dibattito pubblico e procedere con timore e tremore nel proporre il proprio comnvincimento, rispettando sempre le scelte di coscienza. Un vantaggio io credo ci sarebbe se nel parlarne si desse la precedenza a chi – per quella via stretta – ci è passato e non è precipitato. Luigi
Copio e incollo nell’archivio delle cose preziose l’intervento di Luigi qui sopra, sulla via stretta.
Lo considero una pagina di teologia, dove la teologia parla della vita, dove cioè è coerente con la sua missione più vera.
Grazie.
Condivido le osservazioni di Luigi sulla necessità di evitare “ideologizzazioni” in questa materia (tale risulta invece il discorso di Matteo, a mio avviso inaccettabile).
Ciao,
mio zio buonanima, morto a 87 anni una decina di anni fa e sempre vissuto in campagna, mi raccontava che i cani molto vecchi o malandati, cioe’ quelli molto prossimi alla fine, ad un certo punto sparivano senza lasciare nessuna traccia. Non so se questa storia abbia una qualche valenza scentifica. Se fosse vera’ e solo su questo aspetto, mi piacerebbe molto essere un cane.
Bruno, benvenuto nel blog! Sono nato in campagna e in campagna vivono sei miei fratelli. Ho chiesto a quello che ha maggiore pratica dei cani – si chiama Serigio – e mi ha detto che quella storia non è vera: più è malandato più il cane si affeziona. Se non è vera è però bella come leggenda. Luigi
Non è forse vero per i cani ma è verissimo per i gatti!
Al padrone di casa.
Dio la benedica per la sua dedizione a quei durissimi ultimi giorni dell’indimenticabile papa JP II.