Che ci diranno i carcerati dell’indifferenza che scarta i deboli e della guerra che tutti scarta? L’appartenenza alla giuria del Premio Castelli per detenuti mi ha fornito l’occasione di una presa diretta sulla dolente protesta degli scartati e sul loro sguardo ferito dai notiziari della guerra. Non sono parole di poco conto: chi davvero soffre, spesso davvero parla. – E’ l’attacco di un mio testo pubblicato dalla rivista Il Regno e che riproduco per intero nei commenti.
Voci dal carcere sui deboli scartati e sulla guerra che tutti scarta
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Nessun uomo è uno scarto. Il Premio Castelli è un concorso «letterario» che ha dietro la Società di San Vincenzo de’ Paoli: Carlo Castelli (1924-1998), vincenziano operoso, è stato un pioniere del volontariato carcerario. La giornata conclusiva del concorso – con la consegna dei premi e un convegno collegato – avviene in ottobre e si svolge ogni anno in un carcere diverso. Ed è così che a oggi abbiamo conosciuto più di una dozzina di carceri: da Palermo a Poggioreale, Cagliari, Reggio Calabria, Forlì, Mantova, Bari, Bollate, Augusta, Padova, Nisida, Matera, Bergamo (cf. Regno-att. 18, 2021,611s). Quest’anno siamo stati a La Spezia.
Nel formulare il tema di quest’anno – «No all’indifferenza: nessun uomo è uno scarto» – noi della giuria ci siamo lasciati guidare dalla predicazione di papa Francesco, nella quale è frequente il monito sull’indifferenza che genera lo scarto. Ma la sua – anche in questo caso, come in quello della guerra – è voce che grida nel deserto. Persino la viva novità linguistica delle parole scarto e scartare fatica a entrare nel linguaggio comune, dove è stata recepita finora solo la bergogliana «cultura dello scarto», ma nel senso della preoccupazione ecologica per l’usa e getta.
Sale del linguaggio papale. È stata quindi – per noi della giuria – una felice scoperta quella di vedere che i detenuti partecipanti a questa edizione del Premio avevano colto benissimo il sale del linguaggio papale in merito all’indifferenza e allo scarto.
L’autore del lavoro che ha avuto il primo premio usa la parola «scarto» per indicare sé stesso in quanto detenuto, e lo fa senza enfasi o commiserazione, come se fosse la parola giusta a norma di dizionario: «Il nemico – cioè il brigadiere caposcorta incaricato di comandare un trasferimento – non rischia di far scendere uno scarto sulla corsia d’emergenza di un’autostrada per fargli sentire l’odore del mare rischiando il posto di lavoro».
Eppure quel brigadiere l’ha fatto e così spiega il suo gesto al detenuto stupefatto: «Sappi che non l’ho fatto per il detenuto ma per l’uomo». Dunque il lessico è chiaro: il detenuto è uno scarto e tale si sente, ma l’uomo è altro e di più, perché – appunto – «nessuno è uno scarto».
L’autore del lavoro che ha avuto il terzo premio usa la parola «rifiuto» come sinonimo di «scarto» e anch’egli l’applica a sé stesso sia per indicare la caduta sia il riscatto: «Così sono finito nel posto adatto a me: tra i rifiuti indifferenziati»; ma infine, proprio dall’esperienza del carcere parte un cammino di recupero che lo porta a concludere: «ho deciso di essere un rifiuto riciclabile».
Conquista dell’invisibilità. “Quello scarto sono io” ha per autrice una donna con disagio mentale che conduce uno spietato monitoraggio della propria condizione di «scoria della società» partendo dal versetto biblico: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118,22); versetto che nei Vangeli di Marco e di Luca Gesù applica a sé stesso. «Io sono quello scarto – scrive la nostra autrice – ma non diventerò mai testata d’angolo». E ancora: «Io sono scarto in questo oceano di umanità distratta che non riconosce la ricchezza della diversità e la bellezza anche delle debolezze umane».
«Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo visti»: così l’autore del lavoro Lo sguardo che vede racconta di un incontro in carcere che ha segnato due vite. Perché c’è differenza tra guardare e vedere. Il detenuto partecipante al nostro concorso quella differenza l’argomenta come può, ma essa una volta fu illuminata – per me – da una riga folgorante di Pier Paolo Pasolini che narrava in L’odore dell’India (Garzanti 1962) il suo incontro con Madre Teresa a Calcutta, quando la futura santa era ancora sconosciuta al mondo: «Dove guarda, vede». Il nostro detenuto afferma che «in carcere si impara l’indifferenza, che vuol dire esattamente questo: non interessarsi, non conoscere e tanto meno apprezzare le differenze. Gli altri sono tutti uguali, una massa di esseri indifferenziati». Ed eccoci di nuovo alla raccolta indifferenziata.
La diversità fa paura. A questa impresa dello sguardo fa riferimento anche il testo Invisibile, che così narra l’acquisto dell’invisibilità: «Se si è fuori dai canoni di vita comunemente accettati, ecco che scatta l’indifferenza e lo scarto». Perché «la diversità fa paura». E ancora: «In carcere abbiamo capito che è così che si diventa invisibili. Forse perché siamo migranti, poveri, affamati, malati, diversamente abili, con differenti colori di pelle, brutti, selvaggi, con libere scelte sessuali, folli, artisti e inventori ogni giorno della vita».
Se l’indifferenza produce scarti, potrà anche essere che il superamento dell’indifferenza aiuti lo scartato a riscattarsi: è la parabola proposta dal testo Lo scarto recuperato. L’autore afferma d’essersi sentito a lungo «uno scarto isolato tra l’indifferenza del dissesto generale», tanto da «non sapere neanche più di esistere»; e d’aver preso a risalire da quella «notte» incontrando volontari del carcere che l’aiutarono, passo dopo passo, a scoprire che «ogni uomo è un’infinita possibilità» e a «non essere più indifferente alle sofferenze altrui».
Vincere l’indifferenza al dolore altrui forse non basta, almeno nel caso di abitatori delle carceri che hanno compiuto «scelte malsane», arrivando a «togliere a qualcuno qualcosa che non possono più restituire indietro», cioè la vita; e in tale caso occorre che lo «scartato» impari a capire la sofferenza inflitta ad altri: così argomenta l’autore del testo Non voglio più essere indifferente al dolore che ho provocato.
Quell’urgenza comunicativa che ti porta fuori tema. “Pregiudicato e pregiudizi” racconta di un apprendimento arduo, realizzato proprio in carcere, dove l’autore ha «imparato a fare parte della giungla dell’umanità», superando l’orgoglio che in precedenza l’aveva indotto – lui, ospite delle sezioni di massima sicurezza – a spregiare le sezioni di media sicurezza: «Il mio avvocato vuole chiedere la mia declassificazione perché non sono più pericoloso, ma gli ho detto che non ho nessuna intenzione di andare in quella giungla dei comuni».
Curioso dei sentimenti e delle parole, ma soprattutto interessato a intendere l’umanità delle carceri, ho cercato anche di porre un’attenzione appuntita, nella lettura dei lavori in concorso, a che cosa dicessero sulla guerra ucraina. A rigore non avrebbero dovuto parlarne, perché il tema proposto dalla giuria non la nominava, essendo stato deciso in gennaio, quando i carri armati russi ancora non si erano mossi. Ma negli anni di questo volontariato ho ben compreso che il detenuto partecipa ai concorsi per un’urgenza comunicativa che travalica il tema assegnato.
Ed ecco il lavoro che ha ottenuto il primo premio – e che ho già citato – mettere la guerra tra le ragioni della solidarietà che può fare abitabile il mondo: «Della solidarietà non bisogna parlarne, ma praticarla! Specie in questo periodo che si sta consumando una guerra infame e senza senso, che ha già cambiato il mondo, ma che potrà cambiare in meglio la vita di chiunque avrà l’onere e l’onore di occuparsi anche di uno solo di questi poveri profughi sfortunati».
Fuori c’è la guerra. L’autrice del secondo premio vede il conflitto ucraino come uno degli spaventi che l’aspettano nel mondo, quando finalmente uscirà dal carcere che – dice – le ha «salvato la vita»: «Fuori c’è la guerra e tante altre problematiche da affrontare».
C’è un altro concorrente che vede la guerra come macro immagine delle sue paure ad affrontare l’ostilità del mondo: «E non vi nascondo che ho un po’ di timore a ritornare in mezzo alla società, perché vedo i notiziari della guerra e capisco che il mondo ancora non è pronto per il rispetto del prossimo».
«Questa guerra suscita in me un’angustia indecifrabile, mettendomi davanti all’uomo che spara a un altro uomo», scrive sullo stesso tono un concorrente abbagliato dai telegiornali.
Si può partecipare al concorso anche con testi poetici ed eccone uno che mette in versi le immagini televisive della guerra e da esse trae una morale che contraddice la smania troppo umana di salire in alto: «Quando cade la bomba / colpisce prima il palazzo / allora conviene stare in basso / a che serve trovarsi in alto».
La terra è una casa gigante. Un altro poeta detenuto guarda alla follia della guerra con l’occhio disincantato che un giorno fu di Erasmo da Rotterdam, quando commentò l’adagio che «la guerra è dolce a chi non ne ha fatto esperienza» [Dulce bellum inexpertis]: «Qualcuno a febbraio mi ha chiamata in Ucraina: / io sono la guerra! / Sono tornata / e sebbene tutti cercano di dimenticarmi / io sono dentro di te».
Sul tono di questa personificazione della guerra si muove un altro testo, stavolta in prosa, che dà la parola al destino: «Mi presento: sono il Destino e il mio avviso è questo: ritornate umani, squarciate con le mani quei confini che avete inventato, la terra è una casa gigante della quale voi siete tutti coinquilini».
Termino questa rapsodia della guerra vista dalle sbarre con lo sguardo di una giovane donna lesbica, che sceglie tra le immagini della TV quelle più doloranti per l’occhio femminile – «madri che scappano con i figli avendo con sé appena una borsa» – e loda quanti «dall’Italia sono partiti per l’Ucraina per portare in salvo tante persone».
https://gpcentofanti.altervista.org/monitoraggio-liberta-dintervento/
https://gpcentofanti.altervista.org/ecco-un-social-rivoluzionario-non-ancora-creato/