Una traduzione alternativa: “Dio mio in vista di che cosa mi hai abbandonato?”
“Cristo di San Giovanni della Croce” di Salvador Dalì, 1951, per introdurre la registrazione audio della serata di Pizza e Vangelo che facemmo lunedì 17 marzo, leggendo l’ultimo grido di Gesù dalla Croce com’è riportato dal Vangelo di Marco al capitolo 15: “Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?”. Uno dei partecipanti alla conversazione via zoom, Giorgio Cattaneo, ha evocato una diversa interpretazione di quelle parole proposta dall’esegeta gesuita francese Albert Vanhoye, fatto cardinale da Benedetto XVI nel 2006: un’interpretazione che ho riassunto nel titolo del post. Qui sotto trovi il link alla registrazione, nel primo commento parte del testo dell’esegeta Vanhove, che fu anche direttore dell’Istituto Biblico di Roma
2 Comments
Luigi Accattoli
Vanhoye: fare attenzione al testo greco. “La domanda del Getsemani” è il titolo di un’intervista della rivista Terra Santa (marzo-aprile 2012) al cardinale Albert Vanhoye, già rettore del Pontificio istituto biblico di Roma. Eccone alcuni passaggi.
Per il cristiano i momenti di difficoltà, di angoscia, che sono i più penosi dell’esistenza umana, sono momenti di grazia perché Gesù vi ha messo la sua grazia. Con la preghiera, nell’intimità col Padre, Gesù è stato in grado di affrontare la passione e infatti, dopo l’agonia, non ha manifestato segni di debolezza o cedimento. Però sulla croce ha gridato «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». In verità, per essere fedeli al testo greco, Gesù ha gridato «Dio mio, Dio mio, vista di che cosa mi hai abbandonato?» È così che andrebbe tradotto il testo del versetto d’apertura del Salmo 22 come è riportato dal Vangelo di Marco. È molto importante: dalle labbra di Gesù non si leva la domanda spontanea che pronunceremmo noi, che quando siamo nella difficoltà domandiamo «perché», ossia che cosa nel nostro passato ha provocato la sofferenza attuale e l’abbandono di Dio. Con “perché” noi cerchiamo il motivo pensando a noi stessi, non lo troviamo e concludiamo che la prova è totalmente assurda. La domanda di Gesù, nei due Vangeli che la riferiscono, Marco e Matteo, è chiaramente «in vista di che
cosa mi hai abbandonato?» e ciò cambia radicalmente la prospettiva: noi guardiamo a noi stessi e al passato, Gesù al Padre e al futuro, cercando la finalità della prova. La risposta all’interrogativo che Gesù leva al cielo è anticipata nell’Antico Testamento: il Salmo 22, da cui è tratta la domanda, termina infatti prefigurando una fecondità straordinaria. Si legge: «Tu mi hai risposto! Annuncerò il tuo nome ai tuoi fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. (…) I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli». La prova è feconda di vita. […] Che cosa ci insegna questa più precisa traduzione della domanda di Gesù? Quando siamo nella prova dobbiamo pensare alla grazia che il Signore ci vuole dare, perché la prova è sempre l’anticipo di una grazia. […] Occorre cercare quale grazia Dio vuole darci, perché la grazia non è evidente, la prima impressione è che la prova sia totalmente priva di senso, oltre che penosa. Si può dunque affermare che Gesù stava cercando questa grazia? Quanto a noi: come possiamo trovarla? Sì, certo, Gesù la stava cercando. Noi la possiamo trovare attraverso la preghiera e la meditazione dei Vangeli e della passione di Cristo in particolare. Occorre stare attenti a non cadere nel dolorismo… È doveroso guardarsi dal dolorismo, che non corrisponde al Vangelo, nel quale invece si insiste sulla guarigione dell’uomo e sulle realtà positive. Il dolore, di per sé, è una cosa negativa. Quando sopraggiunge la sofferenza la reazione cristiana pare debba essere duplice: da una parte occorre fare tutto il possibile per porvi rimedio, proprio come ha fatto Gesù che ha guarito moltissime persone, perché voleva e vuole che ogni uomo viva bene, in salute e pienezza, ma d’altra parte, allo stesso tempo, dobbiamo unire la nostra sofferenza, mentre c’è, a quella di Gesù: così facendo la sofferenza perde la sua assurdità perché unita alla Sua non potrà che essere feconda. Perciò, rammentiamoci: quando sopraggiunge una prova, rivolgiamo il nostro sguardo al futuro e chiediamo al Signore: «In vista di che cosa?» La grazia non mancherà.
20 Marzo, 2025 - 22:07
Luigi Accattoli
Maggioni: angoscia e fiducia possono coesistere. Facendo sua l’invocazione iniziale del Salmo 22, Gesù si inserisce profondamente nella spiritualità del suo popolo. Gesù prega come prega un uomo, e muore come muore un uomo. Ciò è suggerito dal duplice grido, quello della do-manda (15,34) e quello della morte (15,37). La frase di Marco è decisa, perentoria, quasi una reduplicazione: “Gridò con voce forte”. Una preghiera “gridata” non può che nascere dall’angoscia. Ma nell’esperienza di fede anche l’angoscia più profonda può coesistere con la fiducia. Così la preghiera del Salmo 22, nella quale l’angoscia dell’abbandono si accompagna alla fiducia nella fedeltà del Signore. Così la preghiera di Gesù sulla Croce: anche nell’abbandono («perché mi hai abbandonato?»), Egli rimane aggrappato al suo Dio («Dio mio, Dio mio»). Dunque, sulla Croce come già in tutta la sua esistenza, la fiducia nel Padre è una costante di Gesù: una fiducia così forte, così totale, da rimanere intatta, nel profondo, anche là dove tutto parla di abbandono. Forse a chi vive all’esterno della fede può sembrare che l’angoscia e la fiducia si contraddicano, immaginando la fede – la fede vera, incrollabile – come immobile tranquillità. Ma il credente sa bene che non è così: nella fede profonda – anzi, quanto più è profonda – l’angoscia e la fiducia possono coesistere.
Bruno Maggioni, Il racconto di Marco, Cittadella Editrice 2008, p. 285
Vanhoye: fare attenzione al testo greco. “La domanda del Getsemani” è il titolo di un’intervista della rivista Terra Santa (marzo-aprile 2012) al cardinale Albert Vanhoye, già rettore del Pontificio istituto biblico di Roma. Eccone alcuni passaggi.
Per il cristiano i momenti di difficoltà, di angoscia, che sono i più penosi dell’esistenza umana, sono momenti di grazia perché Gesù vi ha messo la sua grazia. Con la preghiera, nell’intimità col Padre, Gesù è stato in grado di affrontare la passione e infatti, dopo l’agonia, non ha manifestato segni di debolezza o cedimento.
Però sulla croce ha gridato «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
In verità, per essere fedeli al testo greco, Gesù ha gridato «Dio mio, Dio mio, vista di che cosa mi hai abbandonato?» È così che andrebbe tradotto il testo del versetto d’apertura del Salmo 22 come è riportato dal Vangelo di Marco. È molto importante: dalle labbra di Gesù non si leva la domanda spontanea che pronunceremmo noi, che quando siamo nella difficoltà domandiamo «perché», ossia che cosa nel nostro passato ha provocato la sofferenza attuale e l’abbandono di Dio. Con “perché” noi cerchiamo il motivo pensando a noi stessi, non lo troviamo e concludiamo che la prova è totalmente assurda. La domanda di Gesù, nei due Vangeli che la riferiscono, Marco e Matteo, è chiaramente «in vista di che
cosa mi hai abbandonato?» e ciò cambia radicalmente la prospettiva: noi guardiamo a noi stessi e al passato, Gesù al Padre e al futuro, cercando la finalità della prova. La risposta all’interrogativo che Gesù leva al cielo è anticipata nell’Antico Testamento: il Salmo 22, da cui è tratta la domanda, termina infatti prefigurando una fecondità straordinaria. Si legge: «Tu mi hai risposto! Annuncerò il tuo nome ai tuoi fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. (…) I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli». La prova è feconda di vita. […]
Che cosa ci insegna questa più precisa traduzione della domanda di Gesù?
Quando siamo nella prova dobbiamo pensare alla grazia che il Signore ci vuole dare, perché la prova è sempre l’anticipo di una grazia. […] Occorre cercare quale grazia Dio vuole darci, perché la grazia non è evidente, la prima impressione è che la prova sia totalmente priva di senso, oltre che penosa.
Si può dunque affermare che Gesù stava cercando questa grazia? Quanto a noi: come possiamo trovarla?
Sì, certo, Gesù la stava cercando. Noi la possiamo trovare attraverso la preghiera e la meditazione dei Vangeli e della passione di Cristo in particolare.
Occorre stare attenti a non cadere nel dolorismo…
È doveroso guardarsi dal dolorismo, che non corrisponde al Vangelo, nel quale invece si insiste sulla guarigione dell’uomo e sulle realtà positive. Il dolore, di per sé, è una cosa negativa. Quando sopraggiunge la sofferenza la reazione cristiana pare debba essere duplice: da una parte occorre fare tutto il possibile per porvi rimedio, proprio come ha fatto Gesù che ha guarito moltissime persone, perché voleva e vuole che ogni uomo viva bene, in salute e pienezza, ma d’altra parte, allo stesso tempo, dobbiamo unire la nostra sofferenza, mentre c’è, a quella di Gesù: così facendo la sofferenza perde la sua assurdità perché unita alla Sua non potrà che essere feconda. Perciò, rammentiamoci: quando sopraggiunge una prova, rivolgiamo il nostro sguardo al futuro e chiediamo al Signore: «In vista di che cosa?» La grazia non mancherà.
Maggioni: angoscia e fiducia possono coesistere. Facendo sua l’invocazione iniziale del Salmo 22, Gesù si inserisce profondamente nella spiritualità del suo popolo. Gesù prega come prega un uomo, e muore come muore un uomo. Ciò è suggerito dal duplice grido, quello della do-manda (15,34) e quello della morte (15,37). La frase di Marco è decisa, perentoria, quasi una reduplicazione: “Gridò con voce forte”. Una preghiera “gridata” non può che nascere dall’angoscia. Ma nell’esperienza di fede anche l’angoscia più profonda può coesistere con la fiducia. Così la preghiera del Salmo 22, nella quale l’angoscia dell’abbandono si accompagna alla fiducia nella fedeltà del Signore. Così la preghiera di Gesù sulla Croce: anche nell’abbandono («perché mi hai abbandonato?»), Egli rimane aggrappato al suo Dio («Dio mio, Dio mio»). Dunque, sulla Croce come già in tutta la sua esistenza, la fiducia nel Padre è una costante di Gesù: una fiducia così forte, così totale, da rimanere intatta, nel profondo, anche là dove tutto parla di abbandono. Forse a chi vive all’esterno della fede può sembrare che l’angoscia e la fiducia si contraddicano, immaginando la fede – la fede vera, incrollabile – come immobile tranquillità. Ma il credente sa bene che non è così: nella fede profonda – anzi, quanto più è profonda – l’angoscia e la fiducia possono coesistere.
Bruno Maggioni, Il racconto di Marco, Cittadella Editrice 2008, p. 285