Sono a Padova per ricordare il vescovo Riboldi a cent’anni dalla nascita
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Luigi Accattoli
Sono stato due volte nel Belice e a Santa Ninfa – nel febbraio del 1976 e nel marzo 1978 – per narrare ai lettori di “Repubblica” le imprese di don Riboldi e la sua ordinazione a vescovo. Mi colpì questo lombardo dalla figura sobria e dalla vita comunicativa che aveva avuto la capacità di farsi siciliano e terremotato, come poi saprà farsi campano – come vescovo di Acerra – e come infine seppe farsi tutto a tutti con il vivace sito internet (www.vescovoriboldi.it) con il quale continuò, da vescovo emerito (lo divenne nel 1999), la sua predicazione evangelica.
Nel primo caso ero stato spedito a Santa Ninfa da Eugenio Scalfari per avere una presa diretta sulle iniziative di quel parroco anticonformista alla vigilia della venuta a Roma con i bambini baraccati del Belice, in visita alle autorità della Repubblica e al Papa per chiedere una casa. Passai due giorni in piena immersione nella sua pastorale di “promozione umana” come allora si diceva (il 1976 è l’anno del Convegno di Roma “Evangelizzazione e promozione umana”): nella visita alle famiglie, negli incontri con i ragazzi del catechismo, alla povera tavola che condivideva con i cinque collaboratori. Don Antonio mi vedeva per la prima volta e mi parlava – con la confidenza di chi ti conosce da sempre – della mafia e della politica che avevano mangiato i soldi della ricostruzione.
Ma più forte fu lo spettacolo che vidi due anni più tardi, in occasione della sua ordinazione a vescovo. La scena era tra le più strane che un giornalista possa avere occasione di descrivere: venti vescovi e un cardinale celebravano quella solenne liturgia su un palco improvvisato, ai margini di uno spiazzo irregolare delimitato dalle baracche. Assistevano cinquemila persone, cioè tutti gli abitanti di Santa Ninfa. Presiedeva la celebrazione il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, concelebravano tutti i vescovi dell’isola più il rosminiano e ausiliare di Roma Clemente Riva e il presidente di Pax Christi Luigi Bettazzi (coetaneo di Riboldi: compirà cent’anni il novembre prossimo). Immaginai che fosse la prima volta dopo tanti anni, forse da secoli, che la consacrazione di un vescovo richiamava tutto un popolo.
10 Dicembre, 2022 - 18:34
Luigi Accattoli
Nel deserto aprirò una strada. Quella partecipazione corale era il ringraziamento della popolazione al prete che dal 1968 era vissuto in baracca come i suoi parrocchiani, svolgendo una specie di scuola permanente mirata a fornire a ognuno le parole necessarie a invocare Dio e a rivendicare i diritti che gli spettavano come essere umano.
Da allora ho fatto decine di interviste al vescovo Riboldi. L’ho incontrato almeno due volte all’anno alla Cei e di più in tavole rotonde e in trasmissioni televisive. Gli ho fatto visita nella casa di Acerra dove si era ritirato da quando aveva lasciato la guida della diocesi. Ebbene, debbo dire che sia il suo aspetto, sia la sua parola sono restati nei decenni gli stessi che conobbi in quel primo incontro, quand’era semplicemente il parroco di Santa Ninfa. Una figura alta e asciutta, la sua, solo appena incurvata dalla passione per l’interlocutore. Una parola schietta, rivolta a tutti e a tutti comprensibile.
Don Antonio Riboldi non aveva moderato le parole neanche quando aveva portato i suoi ragazzi davanti al Papa, né l’addolcì la nomina a vescovo. Al termine della consacrazione episcopale improvvisò un saluto in cui ricordò il “lungo e impietoso deserto” che il popolo del Belice era stato costretto ad attraversare e parlò – come forse facevano i vescovi antichi davanti al Barbarossa o durante le pestilenze – da portavoce di tutto il popolo: “In questi anni sono passate davanti ai nostri occhi tutte le prove che un uomo può sopportare: povertà, emigrazione, umiliazioni per avere un pezzo di pane, disprezzo, emarginazione da ogni tentativo di lecito benessere, la vita inumana nelle baracche, l’esasperante attesa di una casa”. Quel richiamo al “deserto” attraversato dal popolo del Belice dava un drammatico contenuto al motto che aveva scelto per lo stemma episcopale: “Nel deserto aprirò una strada”.
10 Dicembre, 2022 - 18:35
Luigi Accattoli
Uscire tra la gente. Con le denunce, le testimonianze davanti ai magistrati e alle commissioni d’inchiesta, i libri e le mostre, le conferenze e le interviste, la partecipazione ai dibattiti televisivi e alle dirette delle celebrazioni papali don Riboldi è diventato, negli anni, il simbolo della via cristiana al riscatto del Belice e di Acerra, cioè delle popolazioni più derelitte in lotta per i propri diritti. Questo ruolo gliel’hanno riconosciuto tutti.
Un ruolo che è stato sempre quello di un uomo tra uomini, sia da prete sia da vescovo. Mi disse a cena – nella casa di Santa Ninfa – la sera prima dell’ordinazione: “Ad Acerra ci sono stato dopo la mia nomina a vescovo. Credo che la situazione sia peggiore di qui. Continuerò là il mio lavoro”. Gli chiesi che cosa avrebbe voluto suggerire agli altri vescovi: “Di scendere tra la gente”, rispose, “di togliere filtri e burocrazie, di farsi servi di tutti come dice il Vangelo: non c’è altra scelta oggi”. Il vescovo prospettato da Riboldi è il pastore con l’odore delle pecore oggi invocato da Francesco.
Sempre in quella cena, così rievocò il suo arrivo in Sicilia nel 1958, come parroco di Santa Ninfa, nella Valle del Belice, diocesi di Mazara del Vallo: “Non ci fu accoglienza festosa… anzi. Santa Ninfa, allora, sembrava dominata dalla mafia rurale che aveva nelle mani tutto il paese e non permetteva alcuno spazio di libertà, di pensiero e di azione. Si doveva solo piegare la testa e accettarne le leggi! Ciò che fin dall’inizio non accettai, considerandola una grave offesa alla mia dignità”.
In quella ribellione insieme umana e cristiana io trovo il segreto della figura di Antonio Riboldi come si è imposta sulla nostra scena pubblica: una persona schietta, amicale, comunicativa che la sorte ha posto costantemente in contatto con gente per lo più reticente, guardinga, scoraggiata; e che mai ha perso il suo slancio e lentamente ha contagiato quei contesti trasmettendo germi di libertà e dignità.
10 Dicembre, 2022 - 18:35
Luigi Accattoli
Nota sul convegno padovano. L’Associazione Editoriale Promozione Cattolica ha organizzato il convegno di oggi per presentare, nel trentesimo anno dalla pubblicazione, la ri-edizione del libro “Tempo di coraggio – Oggi come ieri”, che raccoglie testi del vescovo di Acerra (1978-1999). L’incontro si è svolto nella Sala Teatro Convento Cappuccini. Il libro è stato presentato da Luciano Lincetto, direttore dell’Associazione Editoriale Promozione Cattolica di Padova. Tra i relatori: don Alvaro Grammatica della “Koinonia Giovanni Battista”, don Vito Nardin che fu collaboratore di Riboldi a Santa Ninfa, Ernesto Olivero, Antonio Mazzei, Gian Carlo Caselli, Paolo Galeano. Ha condotto i lavori Romina Gobbo. La mia relazione aveva il titolo: Don Antonio Riboldi voce dei cittadini del Belice.
Sono stato due volte nel Belice e a Santa Ninfa – nel febbraio del 1976 e nel marzo 1978 – per narrare ai lettori di “Repubblica” le imprese di don Riboldi e la sua ordinazione a vescovo. Mi colpì questo lombardo dalla figura sobria e dalla vita comunicativa che aveva avuto la capacità di farsi siciliano e terremotato, come poi saprà farsi campano – come vescovo di Acerra – e come infine seppe farsi tutto a tutti con il vivace sito internet (www.vescovoriboldi.it) con il quale continuò, da vescovo emerito (lo divenne nel 1999), la sua predicazione evangelica.
Nel primo caso ero stato spedito a Santa Ninfa da Eugenio Scalfari per avere una presa diretta sulle iniziative di quel parroco anticonformista alla vigilia della venuta a Roma con i bambini baraccati del Belice, in visita alle autorità della Repubblica e al Papa per chiedere una casa. Passai due giorni in piena immersione nella sua pastorale di “promozione umana” come allora si diceva (il 1976 è l’anno del Convegno di Roma “Evangelizzazione e promozione umana”): nella visita alle famiglie, negli incontri con i ragazzi del catechismo, alla povera tavola che condivideva con i cinque collaboratori. Don Antonio mi vedeva per la prima volta e mi parlava – con la confidenza di chi ti conosce da sempre – della mafia e della politica che avevano mangiato i soldi della ricostruzione.
Ma più forte fu lo spettacolo che vidi due anni più tardi, in occasione della sua ordinazione a vescovo. La scena era tra le più strane che un giornalista possa avere occasione di descrivere: venti vescovi e un cardinale celebravano quella solenne liturgia su un palco improvvisato, ai margini di uno spiazzo irregolare delimitato dalle baracche. Assistevano cinquemila persone, cioè tutti gli abitanti di Santa Ninfa. Presiedeva la celebrazione il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, concelebravano tutti i vescovi dell’isola più il rosminiano e ausiliare di Roma Clemente Riva e il presidente di Pax Christi Luigi Bettazzi (coetaneo di Riboldi: compirà cent’anni il novembre prossimo). Immaginai che fosse la prima volta dopo tanti anni, forse da secoli, che la consacrazione di un vescovo richiamava tutto un popolo.
Nel deserto aprirò una strada. Quella partecipazione corale era il ringraziamento della popolazione al prete che dal 1968 era vissuto in baracca come i suoi parrocchiani, svolgendo una specie di scuola permanente mirata a fornire a ognuno le parole necessarie a invocare Dio e a rivendicare i diritti che gli spettavano come essere umano.
Da allora ho fatto decine di interviste al vescovo Riboldi. L’ho incontrato almeno due volte all’anno alla Cei e di più in tavole rotonde e in trasmissioni televisive. Gli ho fatto visita nella casa di Acerra dove si era ritirato da quando aveva lasciato la guida della diocesi. Ebbene, debbo dire che sia il suo aspetto, sia la sua parola sono restati nei decenni gli stessi che conobbi in quel primo incontro, quand’era semplicemente il parroco di Santa Ninfa. Una figura alta e asciutta, la sua, solo appena incurvata dalla passione per l’interlocutore. Una parola schietta, rivolta a tutti e a tutti comprensibile.
Don Antonio Riboldi non aveva moderato le parole neanche quando aveva portato i suoi ragazzi davanti al Papa, né l’addolcì la nomina a vescovo. Al termine della consacrazione episcopale improvvisò un saluto in cui ricordò il “lungo e impietoso deserto” che il popolo del Belice era stato costretto ad attraversare e parlò – come forse facevano i vescovi antichi davanti al Barbarossa o durante le pestilenze – da portavoce di tutto il popolo: “In questi anni sono passate davanti ai nostri occhi tutte le prove che un uomo può sopportare: povertà, emigrazione, umiliazioni per avere un pezzo di pane, disprezzo, emarginazione da ogni tentativo di lecito benessere, la vita inumana nelle baracche, l’esasperante attesa di una casa”. Quel richiamo al “deserto” attraversato dal popolo del Belice dava un drammatico contenuto al motto che aveva scelto per lo stemma episcopale: “Nel deserto aprirò una strada”.
Uscire tra la gente. Con le denunce, le testimonianze davanti ai magistrati e alle commissioni d’inchiesta, i libri e le mostre, le conferenze e le interviste, la partecipazione ai dibattiti televisivi e alle dirette delle celebrazioni papali don Riboldi è diventato, negli anni, il simbolo della via cristiana al riscatto del Belice e di Acerra, cioè delle popolazioni più derelitte in lotta per i propri diritti. Questo ruolo gliel’hanno riconosciuto tutti.
Un ruolo che è stato sempre quello di un uomo tra uomini, sia da prete sia da vescovo. Mi disse a cena – nella casa di Santa Ninfa – la sera prima dell’ordinazione: “Ad Acerra ci sono stato dopo la mia nomina a vescovo. Credo che la situazione sia peggiore di qui. Continuerò là il mio lavoro”. Gli chiesi che cosa avrebbe voluto suggerire agli altri vescovi: “Di scendere tra la gente”, rispose, “di togliere filtri e burocrazie, di farsi servi di tutti come dice il Vangelo: non c’è altra scelta oggi”. Il vescovo prospettato da Riboldi è il pastore con l’odore delle pecore oggi invocato da Francesco.
Sempre in quella cena, così rievocò il suo arrivo in Sicilia nel 1958, come parroco di Santa Ninfa, nella Valle del Belice, diocesi di Mazara del Vallo: “Non ci fu accoglienza festosa… anzi. Santa Ninfa, allora, sembrava dominata dalla mafia rurale che aveva nelle mani tutto il paese e non permetteva alcuno spazio di libertà, di pensiero e di azione. Si doveva solo piegare la testa e accettarne le leggi! Ciò che fin dall’inizio non accettai, considerandola una grave offesa alla mia dignità”.
In quella ribellione insieme umana e cristiana io trovo il segreto della figura di Antonio Riboldi come si è imposta sulla nostra scena pubblica: una persona schietta, amicale, comunicativa che la sorte ha posto costantemente in contatto con gente per lo più reticente, guardinga, scoraggiata; e che mai ha perso il suo slancio e lentamente ha contagiato quei contesti trasmettendo germi di libertà e dignità.
Nota sul convegno padovano. L’Associazione Editoriale Promozione Cattolica ha organizzato il convegno di oggi per presentare, nel trentesimo anno dalla pubblicazione, la ri-edizione del libro “Tempo di coraggio – Oggi come ieri”, che raccoglie testi del vescovo di Acerra (1978-1999). L’incontro si è svolto nella Sala Teatro Convento Cappuccini. Il libro è stato presentato da Luciano Lincetto, direttore dell’Associazione Editoriale Promozione Cattolica di Padova. Tra i relatori: don Alvaro Grammatica della “Koinonia Giovanni Battista”, don Vito Nardin che fu collaboratore di Riboldi a Santa Ninfa, Ernesto Olivero, Antonio Mazzei, Gian Carlo Caselli, Paolo Galeano. Ha condotto i lavori Romina Gobbo. La mia relazione aveva il titolo: Don Antonio Riboldi voce dei cittadini del Belice.
Davvero decisivo cercare le vie di un’autentica partecipazione, non teleguidata dal potere
https://gpcentofanti.altervista.org/ecco-un-social-rivoluzionario-non-ancora-creato/