“Dal notaio abbiamo scoperto di essere ebrei”

– Quello stesso giorno siamo andati dal notaio per aprire il testamento della bisnonna americana.
– Che cosa avete ereditato? 
– Niente! E non solo non ci abbiamo guadagnato, ma abbiamo pure scoperto che siamo ebrei!
– Non lo sapevate proprio?
– Non se ne sapeva nulla. Non proprio ebrei ebrei, ma ebrei per un sesto, vai a capire. Il notaio ha detto che vale solo per le donne.
– Forse ha detto che è attraverso le donne che si trasmette l’appartenenza alla comunità ebraica…
– Sì, ha detto così, ma io capivo poco perchè parlava lento lento e veloce veloce.
– Sei contenta di essere per un sesto ebrea?
– Ci devo pensare. E’ a tutta la storia che devo ancora pensare. Non capisco come faceva la nonna a essere ebrea e a non saperlo.
– La mamma che dice?
– Non l’ha presa bene. La prendevamo sempre in giro dicendole che era una “mamma ebrea”, da quando avevamo visto Moni Ovadia in televisione e a lei non importava. Ma ora che sa di essere ebrea quella battuta non le piace per niente.
(Conversazione ascoltata in treno tra una ragazzina di terza media e un accompagnatore)

10 Comments

  1. don vito

    se fossi stato in quello scompartimento … forse mi sarei inserito … per dire che è bello scoprire che l’umanità ha un dna generazionale e non solo individuale, ha una logica familiare e non solo personale, ha il dono della vita come eredità e non solo ognuno vive il suo tempo, forse quella ragazza ha avuto aperta dal notaio la finestra della vita come dono ereditato e come dono da trasmettere. Dio ha tanto amato l’umanità da consegnarle il dono della trasmissione della vita per amore e non solo per biologia naturale.

    5 Dicembre, 2006 - 20:38
  2. Quando mio padre arrivò in Canada, nel 1965, i primi datori di lavoro furono una famiglia di ebrei. Lo accolsero come un figlio. Aveva anche un dentista molto bravo, si chiamava Gubermann ed aveva tatuato sul braccio l’infame numero di matricola di Auschwitz. Non parlava mai di tutto quello che aveva visto.
    Poi il padrone morì. “Papà, ma tu ci sei andato al funerale?” “Certo che sì”. “E hai pregato?” “Certamente. Loro pregavano da ebrei, e io pregavo da cattolico”. Un abbraccio ai figli di Israele.

    6 Dicembre, 2006 - 14:32
  3. Luisa

    Mi intrometto in questi commenti per segnalare a chi è interessato un post di oggi nella vicenda Telepace : figura nella discussione : ” Schiavazzi scrive a Don Guido “. Luisa

    6 Dicembre, 2006 - 17:41
  4. Leonardo

    Caro Luigi, mi permetta di chiamarla così perché scopro che abbiamo l’identica passione di ascoltare i discorsi altrui negli scompartimenti dei treni. Non siamo angeli, però ad ascoltare, da sconosciuti, le conversazioni degli uomini, ci si sente un po’ come gli angeli del Cielo sopra Berlino. C’è in tutto questo della curiositas (che per i Padri è un peccato), ma cerco di riscattarla con la pietas. Mi piace molto, quando il treno passa attraverso una città e rallenta, sbirciare anche gli interni delle case, e immaginare le vite che vi si conducono.
    Però ho una curiosità (appunto): davvero la sua ragazzina e l’interlocutore parlavano così forbito?

    7 Dicembre, 2006 - 12:06
  5. Luigi Accattoli

    Davvero! Mi viene il sospetto che lei non abbia figli: a 13 anni parlano come avvocati.
    La città che offre la migliore veduta degli interni, quando l’attraversi in treno, è Genova.
    Sul modo di esercitare la curiositas dal treno, guardando nelle abitazioni, c’è una sorprendente pagina di Emilio Cecchi in “Et in Arcadia ego” (viaggio in Grecia, 1936), nella quale arriva a ipotizzare che la “televisione” un giorno permetterà di vedere dentro le case: una tale proiezione buttata là a metà degli anni ’30 non è male.
    Quanto al monito dei Padri, mi ingegno a disinnescarlo accampando che per un giornalista la curiositas è pane quotidiano. Nel senso che da essa trae il pane.

    7 Dicembre, 2006 - 14:39
  6. Già, la curiosità dei treni… quella che ancora qualcuno cerca di coltivare in mezzo a tecnosfigati che in pubblico cercano di stare da soli mettendosi l’I-pod a palla nelle cuffie. E stai seduto in mezzo a babbei tremolanti al ritmo tunzettaro che al limite brontolano fesserie di tutti i generi.
    Il treno è un mezzo sociale, quando ci stai incontra i tuoi simili anche ascoltando quello che dicono. Altrimenti se vuoi stare solo stattene a casa. E’ orrendo vedere come qualcuno cerchi di isolarsi in pubblico.

    7 Dicembre, 2006 - 16:50
  7. fabrizio

    Non ci vedo niente di male nell’ascoltare o osservare gli altri in pubblico, ma nemmeno nell’isolarsi un po’. Dipende dalle situazioni e dal carattere.

    A volte, paradossalmente, i mezzi di trasporto sono l’unica occasione di ritagliarsi del tempo per se stessi tra la famiglia e il lavoro, per cui ognuno la sfrutta come ritiene più proficuo, anche leggendo un libro o ascoltando qualche MP3. Non è poi così orrendo, a volte è quasi una necessità.

    7 Dicembre, 2006 - 19:58
  8. Ma vedi Frank, io per necessità devo prendere il treno tutti i giorni. E t’assicuro che, letto il giornale (quasi sempre Avvenire per motivi d’ufficio, lunedì il Corriere della Sera), per il resto mi guardo attorno e resto desolato.
    E mi dispiace: trent’anni fa sui treni la gente parlava, socializzava, discuteva anche in maniera accanita di politica, di cose serie. Oggi o trovi i tecnosfigati o trovi quelli che parlano di compunte banalità come il Grande Fratello. Scusami, ma io ho rispetto dell’intelligenza di ognuno.

    7 Dicembre, 2006 - 20:29
  9. Luigi Accattoli

    Io mi delizio a guardare le persone e ad ascoltare i discorsi, che un poco ci sono sempre. Mi attirano soprattutto le parlate dei piccoli.

    7 Dicembre, 2006 - 21:36
  10. Leonardo

    Grazie per il suggerimento: leggerò il libro di Cecchi, che non conosco, ma il cui titolo mi è sempre sembrato bellissimo.

    8 Dicembre, 2006 - 0:50

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