Addio, padre Panciroli! Non era facile trattare con te fino a quando sei stato direttore della Sala Stampa vaticana (1977-1984), forse perché avevi paura dei giornalisti. Ma dietro la timidezza eri un uomo buono e quel rapporto così spinoso è migliorato quando lasciasti l’incarico. Come nunzio in Liberia, Gambia, Sierra Leone, Guinea e poi in Iran era più facile telefonarti e avere da te qualche notizia. Una volta ti ho persino convinto a fare un’intervista sull’Iran di Khatami, nel marzo del 1999. Negli ultimi tempi – da quando eri un nunzio a disposizione della Segreteria di Stato – ti eri fatto più affabile, come si addice a un nonno e finivi comunque a parlare dei tuoi amici africani, o di Paolo VI che hai sempre ammirato. Indimenticabile l’ultima conversazione che avemmo al ristorante i Quattro Mori, alla vigilia del Conclave, meno di un anno fa. Io ti facevo domande, ma tu più che parlare di ciò che stava avvenendo nelle Congregazioni generali avresti voluto che ti raccontassi di me e dei figli – “che donna è la tua moglie?”, mi chiedevi – e avresti voluto confidare quello che avevi imparato in tanti anni, ma più sulla vita che sulla Chiesa. Come darti torto? Sulla figura di Ratzinger non sapevi deciderti: “meriterebbe il papato” dicevi, “ma non so come lo prenderanno le giovani Chiese”. Tu in fondo eri sempre restato un missionario comboniano e avevi il cuore laggiù. “Ieri mattina – raccontavi – ho accompagnato per via della Conciliazione e in Basilica il cardinale di Addis Abeba, vedessi come era commosso! Non finiva di guardare quella folla che faceva la coda per vedere il papa. Vorrei che ci fossero qui i miei fedeli, diceva. Io penso che questi uomini che vengono da lontano anche quando saranno nella Sistina avranno gli occhi pieni di quella folla e si lasceranno guidare dal cuore”.