Nel 2014 aprivi il tuo libro su papa Bergoglio affermando che «Francesco è un papa nuovo che comanda ai suoi di cessare dal lamento e dal conflitto ideologico che li blocca da decenni e di riprendere la missione alle genti per porre tra loro segni comprensibili della novità cristiana invocata dal mutamento dei tempi». A distanza di qualche anno, quali esiti ti sembra abbia prodotto quell’appello?
“Esiti non grandi e non tutti buoni, almeno qui da noi. Nella parte più tradizionale del Popolo di Dio, specie in quella colta e identitaria, il lamento e il conflitto sono addirittura aumentati. Ma è aumentata anche la percezione dell’urgenza di uscire dal sonno e di riprendere la missione, una percezione stimolata dalle parole del Papa ma anche proprio dal conflitto che si è scatenato. Chi segue davvero Francesco non dovrebbe temere il conflitto”.
A pochi mesi dall’elezione di Bergoglio, che aveva assunto il nome di Francesco, Leonardo Boff scrisse: «Sicuramente la Chiesa cattolica romana non sarà più la stessa». A cinque anni di distanza, come reagisci leggendo tali parole? Cosa è già cambiato, cosa sta cambiando, cosa fatica a cambiare?
“E’ cambiata la figura papale. Sta cambiando, cioè va crescendo la percezione dell’indebolimento della testimonianza cristiana nel Nord del mondo. Stenta a cambiare l’inerzia abitudinaria della maggioranza dei praticanti. Credo ovunque, ma certamente in Europa. Francesco predica l’uscita missionaria, che è una necessità segnalata dalla fragilità delle famiglie, dall’abbandono dei giovani, dal calo delle vocazioni. Ma è una necessità non ancora pienamente avvertita. Questo Pontificato è una provocazione all’avvertenza e una prova di risposta, non gli attribuirei altri ruoli. I cambiamenti che sollecita non sono realizzabili in tempi brevi. Quando ci sarà avvertenza, l’uscita sarà tentata. Qui vedo anche la ragione provvidenziale della scelta di un Papa non europeo: la vedo nell’esperienza tutta missionaria delle Chiese del Sud del mondo, meno costituite, meno organizzate, meno colte; ma più pronte a reagire, più agili, più dinamiche”.
Sulle orme del santo di Assisi, papa Francesco ci ha abituati a gesti controcorrente, a segnali di discontinuità forti, a cominciare da un’attenzione particolare ai poveri. Guardando alla realtà ecclesiale italiana, avverti che stia cambiando qualcosa su questo fronte?
“L’attenzione ai poveri era già forte: la risorsa migliore della nostra Chiesa e anche la più diffusa. Di scuro ora si fa qualcosa di più ma non quanto si aspettava il Papa: per esempio il suo appello alle parrocchie d’Europa perché tutte si attivassero in prima persona nell’accoglienza ai rifugiati ha avuto una risposta minima: a partire dalla stesa Roma, appena un dieci per cento hanno fatto qualcosa che prima non facevano. La scossa papale è grande, la risposta è piccola. La discontinuità scuote ma l’attivazione missionaria è appena germinale”.
Non v’è dubbio che uno dei messaggi più forti che ha toccato anche il mondo laico è l’appello a una seria e radicale conversione ecologica. Ti sembra che stia maturando una nuova sensibilità su questi temi in casa cattolica o siamo ancora alla proclamazione di meri principi?
“E’ il campo nel quale Francesco ha trovato la migliore risposta nei giovani. Solo loro prendono sul serio il suo appello. L’assenso dell’apparato e degli operatori pastorali è di maniera. Il rigetto da parte della maggioranza silente è massiccio: “Perché un Papa deve occuparsi dell’ambiente e del pianeta?” si obietta, esattamente come a lungo furono respinte lungo gli ultimi 120 anni tutte le conversioni morali suggerite dai papi in risposta alle nuove responsabilità storiche. Perché la Chiesa deve entrare nella questione operaia, in quella della pace, in quella della decolonizzazione? Così erano stati rimproverati i papi Pecci, Roncalli, Montini a ogni tappa di ampliamento di quella conversione.
Il primato del Vangelo sulla dottrina è un leit-motiv di papa Francesco. A qualcuno, però, pare che ciò si traduca in una sorta di “allentamento” del depositum fidei. Tu come rispondi?
“Non è un allentamento: Bergoglio sul Credo è e sull’impianto cattolico è tradizionale. Ne fa fede l’insistenza sul peccato, sulla confessione, su Satana; il continuo affidamento a Maria, l’enfasi sul ruolo dei sacerdoti. Ma l’affermazione del primato del Vangelo, che io considero provvidenziale, comporta uno spostamento nelle priorità. Nella sua predicazione e nel suo governo il primo posto non tocca più alla preoccupazione di evitare errori dottrinali, ma all’impegno di promuovere una fattiva risposta al comando evangelico dell’amore di Dio e del prossimo”.
L’avvio di pontificato di Francesco è stato salutato da una serie di copertine entusiaste di testate insospettabili (da Rolling Stone a Vanity Fair…). Non v’è dubbio che con la sua semplicità e spontaneità papa Francesco abbia fatto breccia in ambienti tradizionalmente indifferenti o persino ostili alla Chiesa. Ma nel Vangelo non leggiamo che i discepoli di Cristo devono temere il giorno in cui otterranno il successo terreno?
“Da giornalista di molte primavere non do importanza alle copertine entusiaste o ad altre forme di plauso mondano, specie se viene da gente ostile alla Chiesa o interessata a un uso strumentale – e per lo più politico – delle parole del Papa. Un tale plauso strumentale non è nuovo negli annali ecclesiastici: quello che fa Scalfari con Francesco lo faceva Ferrara con Benedetto. Maggiore interesse merita la rispondenza spontanea delle persone semplici, specie quella che viene dai più bisognosi e dai tribolati, ma anche quella che possiamo qualificare come popolare e parrocchiale, dei viaggi papali o delle udienze in piazza San Pietro. Il favore dei potenti andrebbe invece certamente temuto, ma non mi pare che Francesco ne raccolga più degli altri Papi. Prendiamo il suo continuo richiamo all’accoglienza degli immigrati: non gli battono le mani né il presidente degli Usa, né gli organismi centrali dell’Unione Europea, né i governanti di Cina e Russia, né la cattolicissima Polonia. E potrei continuare l’elenco dei contrari”.
Dal tuo punto di vista, in quali aspetti i primi cinque anni di pontificato hanno incarnato di più il messaggio di san Francesco, cui papa Bergoglio ha scelto di ispirarsi?
“Il Vangelo sine glossa, cioè preso alla lettera e – in esso – la scelta dei poveri, anch’essa letterale. Per Francesco d’Assisi era lo sposalizio con Madonna Povertà, per Papa Francesco è la priorità da dare alla promozione di una Chiesa povera e per i poveri. Nella scelta di campo a favore dei poveri, poi, il segno peculiare di questo gesuita che si è fatto francescano è la preferenza per i più poveri tra i poveri che per lui sono i rifugiati e gli immigrati come per Francesco d’Assisi erano i lebbrosi. Il Vangelo alla lettera fa scandalo: era scandaloso il “dimorare presso di lebbrosi” da parte del figlio di Bernardone, e tutti temevano il contagio che avrebbe potuto venirne all’intera città; è scandalosa oggi la premura del Papa per rifugiati e immigrati, e tanti l’accusano di moltiplicarne l’arrivo”.
Il santo di Assisi è passato alla storia anche per aver osato incontrare il Sultano. Quali i passi più significativi che, secondo te, papa Francesco ha compiuto nei confronti dell’islam?
“La sua tenace, forse esagerata insistenza sul carattere pacifico del vero Islam, dell’Islam che prega. Con annessa sottovalutazione – nel senso della minore menzione – del fondamentalismo islamista. E’ un passo chiave nel contesto dell’imperante islamofobia mondiale. Tanto precario e folle, e quasi impresentabile, come lo fu l’andata di Francesco dal Sultano. E’ ragionevole immaginare che i responsabili della crociata l’avvertissero dei rischi che stava correndo, come stanno facendo oggi buona parte dei cattolici verso Papa Francesco. Per il resto (contatti ufficiali, dialogo interreligioso, visite a moschee) mi pare che i suoi passi siano sulla linea dei predecessori”.
Quale fu la tua primissima reazione, cinque anni addietro, all’udire la scelta del nome Francesco?
“Non ho avuto il minimo dubbio che si trattasse di Francesco d’Assisi e non di Francesco Saverio, come sosteneva qualcuno intorno a me. Ed è stato un brivido, anzi una vertigine”.
Brivido va bene, ma perché vertigine?
“Uso questa parola per dire l’avvertenza di un rischio, una mezza paura di perdere l’equilibrio. Un vaticanista lavora sui precedenti e ha riflessi condizionati. Il nome Francesco voleva dire l’uscita dalla serie bimillenaria dei vescovi di Roma: nessun Papa del secondo millennio ha mai preso un nome che non ci fosse stato nel primo millennio. Restare in quella rosa era come un incardinamento nella successione pontificale. E fu così anche nei soli due casi di Papi del secondo millennio che conservarono da Papi il nome di battesimo: Adriano VI (Adriaan Florensz di Utrecht eletto nel 1522) e Marcello II (Marcello Cervini eletto nel 1555). A questa regola si sono attenuti tutti compreso Giovanni Paolo I che crea – è vero – un nome nuovo, ma unendone due già presenti. Con Papa Francesco davvero cambia il millennio”.