A quattro giorni dall’apertura delle urne Berlusconi dice: “Io non penso che un credente possa dare il suo voto a chi manifesta certe intenzioni contro la religione cattolica e la Chiesa”. La messa all’asta dei sentimenti religiosi non c’è stata, in questa campagna elettorale, ma il cavaliere l’ha sfiorata (vedi 16 marzo). Va osservato che Berlusconi fino a oggi non aveva mai usato quell’argomento e forse le sue parole tradiscono una più forte preoccupazione per quello che gli dicono i sondaggi segreti di cui certo dispone. Non l’aveva fatto nel 1994, nel 1996, nel 2001. Ma se quell’uscita resta isolata, continuerò a ritenere ben riuscita la transizione italiana, almeno dal punto di vista del non coinvolgimento del nome cristiano da parte dei contendenti.
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Fausto Bertinotti commenta il Vangelo di Pasqua per l’agenzia ADISTA, nella rubrica Omelie fuori dal tempio: vedi il mio articolo Bertinotti e l’omelia da laico in questo sito nella sezione “Dal Corriere della Sera“. E’ una lettura culturale e politica della figura di Gesù e non mi basta, ovviamente. Ma apprezzo l’attenzione al Vangelo che essa dimostra. Nella tradizionale separatezza nostrana tra laici e cattolici era scontato che i laici appena incontravano la figura di Gesù guardassero appassionatamente da un’altra parte. Oggi per fortuna iniziano a non distogliere lo sguardo. Sono lieto per il rispetto che personalità laicissime come Bertinotti e Fassino, Amato e Pannella, Adornato e Pera, Ferrara e Scalfari e la Fallaci mostrano per i Vangeli. Tra essi Bertinotti è forse quello che presta più attenzione al testo.
Vedo in televisione Benigni che interpreta Dante e dice che – per lui – il più bel verso d’amore della Commedia è questo: “la bocca mi baciò tutto tremante” (Inferno V, 136). Contropropongo quest’altro del Paradiso (XI, 77): “amore e maraviglia e dolce sguardo”.
Finalmente hanno spiegato – dal Consiglio per l’unione dei cristiani – le ragioni per cui è stato lasciato cadere, nell’Annuario pontificio 2006, il titolo Patriarca dell’Occidente: “La rinuncia a detto titolo vuole esprimere un realismo storico e teologico e, allo stesso tempo, essere la rinuncia ad una pretesa, rinuncia che potrebbe essere di giovamento al dialogo ecumenico”. Va ricordato che il padre Yves Congar – già massima autorità in materia di “Titoli dati al papa” (così è intitolato un suo articolo pubblicato da Concilium più di trent’anni fa, 8/1975) aveva invece sostenuto che quel titolo era ricco di pregi ecumenici e il suo uso andava riscoperto (Vedi Guy Bedouelle, Padre Congar e la Chiesa romana, nel fascicolo dedicato a Congar dalla rivista Communio 142/1995, in particolare p. 53). Per un ragguaglio sull’evoluzione del pensiero di Ratzinger in materia, si può vedere Il Nuovo popolo di Dio, a p. 155s dell’edizione Queriniana 1971, dove accenna alla possibilità che venga data “alla Chiesa d’Asia e d’Africa, così come a quelle d’Oriente, una loro forma propria come patriarcati o grandi Chiese autonome” (questa pagina è stata riportata da Paolo Prodi a conclusione della seconda edizione del suo volume Il sovrano pontefice, Il Mulino 2006, p. 438s). Una successiva presa di distanza dall’idea della creazione di nuovi patriarcati all’interno della Chiesa latina è a p. 351 del volume intervista con Peter Seewald, Dio e il mondo (San Paolo 2001): “Sono sempre più in dubbio che questa possa essere la forma organizzativa adeguata a raggruppare grosse unità continentali – prima pensavo anch’io che questa potesse essere la soluzione”. Sembrerebbe di capire che una volta Ratzinger ritenesse poco opportuno il titolo papale di Patriarca dell’Occidente perché convinto dell’opportunità di creare nuovi patriarcati e che ora – avendo abbandonato quell’idea – ritenga che comunque quel titolo non abbia attualità e funzionalità alludendo a un patriarcato virtuale, abbracciante l’intera Chiesa latina! Un papa teologo costringe i suoi interpreti a una continua ginnastica mentale. Vedi sul Corriere della Sera il mio articolo Il papa non è più “Patriarca dell’Occidente”.
Addio, padre Panciroli! Non era facile trattare con te fino a quando sei stato direttore della Sala Stampa vaticana (1977-1984), forse perché avevi paura dei giornalisti. Ma dietro la timidezza eri un uomo buono e quel rapporto così spinoso è migliorato quando lasciasti l’incarico. Come nunzio in Liberia, Gambia, Sierra Leone, Guinea e poi in Iran era più facile telefonarti e avere da te qualche notizia. Una volta ti ho persino convinto a fare un’intervista sull’Iran di Khatami, nel marzo del 1999. Negli ultimi tempi – da quando eri un nunzio a disposizione della Segreteria di Stato – ti eri fatto più affabile, come si addice a un nonno e finivi comunque a parlare dei tuoi amici africani, o di Paolo VI che hai sempre ammirato. Indimenticabile l’ultima conversazione che avemmo al ristorante i Quattro Mori, alla vigilia del Conclave, meno di un anno fa. Io ti facevo domande, ma tu più che parlare di ciò che stava avvenendo nelle Congregazioni generali avresti voluto che ti raccontassi di me e dei figli – “che donna è la tua moglie?”, mi chiedevi – e avresti voluto confidare quello che avevi imparato in tanti anni, ma più sulla vita che sulla Chiesa. Come darti torto? Sulla figura di Ratzinger non sapevi deciderti: “meriterebbe il papato” dicevi, “ma non so come lo prenderanno le giovani Chiese”. Tu in fondo eri sempre restato un missionario comboniano e avevi il cuore laggiù. “Ieri mattina – raccontavi – ho accompagnato per via della Conciliazione e in Basilica il cardinale di Addis Abeba, vedessi come era commosso! Non finiva di guardare quella folla che faceva la coda per vedere il papa. Vorrei che ci fossero qui i miei fedeli, diceva. Io penso che questi uomini che vengono da lontano anche quando saranno nella Sistina avranno gli occhi pieni di quella folla e si lasceranno guidare dal cuore”.
Mi arriva Panorama dove leggo una pagina di tale Angelo Custode, che tratta della successione al cardinale Ruini alla presidenza della Cei. Il collega che scrive non solo non si firma con il proprio nome, ma procede per enigmi, mettendo in scena personaggi che non nomina e che il lettore dovrebbe indovinare sommando la propria malizia a quella dell’autore. Gli articoli che aveva scritto fino a oggi – a partire dal primo, che apparve se ricordo bene a fine dicembre – uno li leggeva con un certo disagio, sempre pensando all’intenzione nascosta che viene spontaneo attribuire a chi si nasconde. Ma ora siamo al colmo, io credo: un innominato che non nomina quelli di cui parla. Sarà questo gioco di specchi a distrarmi, ma pur facendo il vaticanista a tempo pieno non capisco la maggior parte delle allusioni. Che capirà un lettore casuale? Chi è – per esempio – il “vescovo importante” che ha “tre valletti permanentemente addetti alla sua casa e alla sua mensa”? Come fa Angelo Custode a sapere che “un cardinale del Nord”, anch’egli innominato, si è autocandidato a successore di Ruini inviando al papa una lettera che è arrivata insieme a una denuncia delle sue assenze dalla diocesi firmata da suoi preti? Ma Angelo Custode non si limita a dir male degli innominati, ne ha anche per tre che nomina senza esporsi, come fa il cecchino che spara restando al riparo di un muro. Il mestiere del giornalista è così folle – come un cammello che colpisce a tradimento gli uomini, direbbe Borges – che sua regola di base è che le affermazioni vengano firmate, specie quando muovono critiche, o accuse. Si riducono i rischi se uno si assume le sue responsabilità. Ma il nostro autore lancia il sasso e nasconde la mano: chi dunque custodirà il Custode?
Dopo il primo duello Berlusconi-Prodi Avvenire lamenta l’assenza, dal dibattito, delle questioni che stanno a cuore ai cattolici: e pensare che io mi ero congratulato per quella discrezione. Avevo trovato buono il confronto e abili i duellanti, ma soprattutto li lodavo per non aver tirato in mezzo la fede cristiana. Non che io non voglia il dibattito su vita e famiglia, giustizia e pace, ma temo che in Italia non ci sia ancora la condizione culturale per condurlo senza che esso degeneri nella messa all’asta dei sentimenti religiosi, specie se si confrontano due cattolici. I mercanti nel tempio oggi non sono i bancarellari di San Giovanni Rotondo, ma i venditori di “vicinanza” alla Chiesa in campagna elettorale.
Che bella intervista ha dato Emma Bonino al settimanale Grazia, dove racconta la consolazione che trova nel pianto: “Piango moltissimo, da sola, su questo divano. Mi appallottolo qui e piango”. Sono quasi trent’anni che ascolto Emma a Radio Radicale e sempre mi propongo di pensarla con affetto. Forse ora ci riuscirò. Considero un bene avere in me, almeno un poco, i sentimenti di ognuno che conosco.
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