Il blog di Luigi Accattoli Posts

Incontro un vescovo intelligente che mi sorprende con questo ragionamento riguardo alla sottovalutazione – da parte dei media – degli appelli del papa per il Medio Oriente: “Se fosse rientrato a Roma dalla Valle d’Aosta, il giorno in cui ha invitato a una giornata di preghiera e di penitenza, l’attenzione sarebbe stata diversa. Egli certamente non ha bisogno di lasciare la montagna per pregare e fare penitenza, ma quel gesto avrebbe aiutato il mondo a udire il richiamo”.

“Donaci la pace – Signore – non domani o dopodomani, ma oggi!” Così ha pregato papa Benedetto ieri pomeriggio in visita alla chiesa parrocchiale di Rheme Saint George, pochi chilometri sopra Introd (Aosta). Quell’invocazione a Dio esprimeva la stessa ansia con la quale sei ore prima si era rivolto alle parti in conflitto: “Cessino subito il fuoco”. Abbiamo già imparato ad apprezzare la forza delle sue parole (vedi post del 13 luglio) quando parla a noi, ma io credo che le sorprese maggiori le avremo ascoltandolo parlare a Dio.

A proposito dell’origine campagnola (vedi post del 22 luglio): uno può pensare di non avere più nulla, dentro, di quel mondo, dal momento che vive a Roma da quarant’anni, fa il giornalista e tiene un blog, ma ecco due smentite legate al grano che mi vengono agli occhi e all’anima in questi giorni del luglio vacanziero. La veduta dei campi mietuti, innanzitutto: quell’oro delle stoppie che più lo guardo e più lo godo. E la scoperta quasi commossa dell’importanza che il grano ha sempre avuto per l’umanità mediterranea: termino oggi di leggere La guerra del Peloponneso di Tucidide (vedi post del 3 luglio) e come dirò la sofferenza che ho provato, per ogni primavera di quella interminabile guerra, all’incipit ritornante: “quando il grano era in fiore, i peloponnesi invasero l’Attica e devastarono i campi”. Oppure: “essendo ormai maturo il grano, sbarcarono e diedero fuoco ai campi”. Quelle parole mi colpivano come se le devastazioni non risalissero a duemila e quattrocento anni addietro, ma le sentissi annunciare dal telegiornale della sera. Il soprassalto che mi provocavano mi diceva che dentro sono restato sempre un contadino.

Penso ai ragazzi campagnoli della Cina da quando ho letto sui giornali che nelle scuole di Wuhan sta prendendo piede l’idea di formare classi separate di “figli di contadini” e “figli di cittadini”, per facilitare l’inserimento dei secondi che “quando arrivano in città presentano molte lacune nella loro preparazione”. Mi sento in causa, essendo stato, a 11 anni, in una classe “preparatoria” alla “prima media”, composta di campagnoli come me che non avevano dato l’esame di ammissione – non conoscendone neanche l’esistenza – e di cittadini che non l’avevano superato. In Italia non abbiamo più contadini, ma ora abbiamo gli stranieri. Per essi e per ogni svantaggiato, a partire dai “diversamente dotati”, credo si faccia bene a non cedere alla tentazione della separazione e vedo nel loro inserimento – pur faticoso – uno dei pregi maggiori delle nostre scuole. Dico così la mia veduta: le classi separate intrecciano più nodi – umiliazione degli uni e pregiudizio di superiorità negli altri – di quanti non ne sciolgano, e cioè il più efficace adeguamento degli uni al livello degli altri. Ma anche questo nodo ha la sua rilevanza e spesso nelle nostre indiscutibili classi uniche non solo non viene sciolto, ma neanche allentato.

– Perché stai così zitto?
– Sono triste.
– Ma sei vivo, come fai a essere triste?
– Sono triste triste triste…
– Fai tu! Io sarò triste da morto, ma non da vivo.
(Dialogo tra due barboni ascoltato sul bus 75, a Roma)

Credo che il dramma di Israele lo dovremmo sentire molto di più come un dramma nostro e lo dovremmo pensare al futuro: che ne sarà tra cinquant’anni? Certo che c’è il problema immediato della sua sicurezza, insidiata da tutti quelli, intorno, che ne vogliono cancellare l’esistenza, come appare sempre più chiaro dalla sequenza coordinata degli ultimi attacchi venuti da Hamas e dall’Hezbollah. C’è quello stato di necessità che porta a una reazione sproporzionata, quale appunto era voluta dagli attaccanti. Forse davvero lo Stato di Israele non può agire diversamente. Ma noi europei – oltre a dirci solidali – dovremmo interrogarci, in mezzo allo sconcerto di oggi, sul dramma di domani e dovremmo chiederci, anche per conto dei fratelli ebrei, quale potrà essere il futuro di quella nazione a noi spiritualmente gemella, incastonata in mezzo al mondo arabo. Preso nell’ansia della sopravvivenza quotidiana, l’Israele politico raramente pensa in termini di futuro. L’Europa forse può aiutarlo a questo, ovviamente facendosi carico del suo presente. Dovremmo anche noi porci – ogni volta – la domanda su quale potrebbe essere l’armamento dei nemici di Israele tra mezzo secolo, sulla sproporzione tra arabi ed ebrei che si potrebbe verificare all’interno delle sue frontiere e su quale potrebbe essere il sentimento dei vicini che non gli sono nemici. La sopravvivenza a lungo termine vuol dire pace con il mondo arabo. Ma non vi sarà pace se non cresce un sentimento di convivenza con e nelle popolazioni arabe che l’attorniano: sentimento che ogni atto di guerra allontana nel futuro. E che mai si affermerà se non si rimedia alla sofferenza in cui è posto il popolo palestinese. Non possiamo lasciare soli i due popoli. Dobbiamo trovare il modo di costruire le condizioni per l’avvicinamento. Dovremmo occuparci molto di più di ciò che accade laggiù.

“Mi trovo pienamente nel comunicato del G8, mi sembra che quello indichi la strada. Non ho altro da aggiungere, se non richiamare l’importanza della preghiera perché Dio ci aiuti e ci doni la pace”: così il papa ieri ai giornalisti che gli chiedevano una battuta sull’eruzione mediorientale. Impressiona l’umiltà delle parole di papa Benedetto. In effetti il suo appello di domenica e la deliberazione di San Pietroburgo – venuta poche ore dopo – si toccavano a ogni riga, ma egli poteva riformularli nel proprio linguaggio, aggiungere un grido del cuore. Si è limitato a parlare come avrebbe potuto fare un cristiano comune, spogliandosi dei toni alti dei moniti papali. Al punto di equilibrio formulato dagli uomini di buona volontà, assistiti dai migliori esperti, ha aggiunto il richiamo alla preghiera. Ammiro questa semplicità. Essa comporta più novità di quante al momento siamo in grado di comprendere. Ma qualcuna ne possiamo intuire. La via più feconda credo sia quella di ascoltarlo come uno che parla a nome di tutti (vedi post del 13 luglio). 

Mi ferisce il passo veloce di una mamma che va avanti e indietro con il passeggino cercando di addormentare il bambino. E’ vero che al mare siamo tutti un po’ nervosi, ma avevo già notato a Roma, in chiesa, lo stesso spettacolo: una donna giovanissima muoveva il passeggino con la destra, quasi a scatto, accanto al banco dov’era seduta. Immagino che le mamme d’oggi, costrette a imparare la velocità quando sono alla guida di un’automobile, o quando lavorano al computer, debbano fare un esercizio mentale, più che fisico, per riscoprire la lentezza sorella della tenerezza. Una volta si diceva che era lei che la insegnava a lui, quando arrivava il bambino: lei che già sapeva da nove mesi i ritmi della nuova vita. Arrivo infine alla spiaggia e trovo – sotto l’ombrellone accanto – una mamma più giovane delle altre che ride lentissima al pupo di pochi mesi, mentre lo imbocca. Mi conforto a quella vista e dico a me stesso: lodata sia la maternità, che insegna a due e a tre creature alla volta l’arte di vivere e quella di amare (vedi post del 13 luglio).

Uno dei figli – Beniamino – mi parla del disagio che prova a camminare per le vie del centro, a Roma, piene di mendicanti, che paiono essere aumentati con l’estate. Lo scrittore Giorgio Montefoschi raccontava poco fa sul Corriere della Sera d’essere tornato dopo anni in India e d’aver chiesto a suor Nirmala, che ha preso il posto di Madre Teresa, se finirà la povertà a Calcutta e nel mondo: “No – fu la risposta – non finirà mai, perché non finirà mai l’egoismo dell’uomo”. Prendo queste parole come una spiegazione – aggiornata ai tempi – del detto di Gesù: “I poveri li avrete sempre con voi”. E dico a Benimino che a mia memoria i mendicanti sono venuti aumentando per le vie di Roma, a misura che aumentava il benessere generale: quando ci arrivai, quarant’anni addietro, ne vedevo uno qua e là, oggi cammino tra mani tese.

Libano: “Mamma che vuol dire bombardare?” Gli israeliani bombardano Beirut e una mamma libanese, Joumana Haddad, racconta sul Corriere della Sera di non aver saputo rispondere alla domanda del figlio di sei anni Ounsi: “Mamma, che vuol dire bombardare?”. Lei vuole che il bambino cresca spensierato e dice: “E’ uno stupido gioco cui a  volte giocano i grandi”. – Ho cinque figli e ho rivissuto con ognuno la scoperta del mondo attraverso la magia delle parole. Sono arrivato alla convinzione che quello che non possiamo dire ai bambini fa male a noi.