Il blog di Luigi Accattoli Posts

“Mi trovo pienamente nel comunicato del G8, mi sembra che quello indichi la strada. Non ho altro da aggiungere, se non richiamare l’importanza della preghiera perché Dio ci aiuti e ci doni la pace”: così il papa ieri ai giornalisti che gli chiedevano una battuta sull’eruzione mediorientale. Impressiona l’umiltà delle parole di papa Benedetto. In effetti il suo appello di domenica e la deliberazione di San Pietroburgo – venuta poche ore dopo – si toccavano a ogni riga, ma egli poteva riformularli nel proprio linguaggio, aggiungere un grido del cuore. Si è limitato a parlare come avrebbe potuto fare un cristiano comune, spogliandosi dei toni alti dei moniti papali. Al punto di equilibrio formulato dagli uomini di buona volontà, assistiti dai migliori esperti, ha aggiunto il richiamo alla preghiera. Ammiro questa semplicità. Essa comporta più novità di quante al momento siamo in grado di comprendere. Ma qualcuna ne possiamo intuire. La via più feconda credo sia quella di ascoltarlo come uno che parla a nome di tutti (vedi post del 13 luglio). 

Mi ferisce il passo veloce di una mamma che va avanti e indietro con il passeggino cercando di addormentare il bambino. E’ vero che al mare siamo tutti un po’ nervosi, ma avevo già notato a Roma, in chiesa, lo stesso spettacolo: una donna giovanissima muoveva il passeggino con la destra, quasi a scatto, accanto al banco dov’era seduta. Immagino che le mamme d’oggi, costrette a imparare la velocità quando sono alla guida di un’automobile, o quando lavorano al computer, debbano fare un esercizio mentale, più che fisico, per riscoprire la lentezza sorella della tenerezza. Una volta si diceva che era lei che la insegnava a lui, quando arrivava il bambino: lei che già sapeva da nove mesi i ritmi della nuova vita. Arrivo infine alla spiaggia e trovo – sotto l’ombrellone accanto – una mamma più giovane delle altre che ride lentissima al pupo di pochi mesi, mentre lo imbocca. Mi conforto a quella vista e dico a me stesso: lodata sia la maternità, che insegna a due e a tre creature alla volta l’arte di vivere e quella di amare (vedi post del 13 luglio).

Uno dei figli – Beniamino – mi parla del disagio che prova a camminare per le vie del centro, a Roma, piene di mendicanti, che paiono essere aumentati con l’estate. Lo scrittore Giorgio Montefoschi raccontava poco fa sul Corriere della Sera d’essere tornato dopo anni in India e d’aver chiesto a suor Nirmala, che ha preso il posto di Madre Teresa, se finirà la povertà a Calcutta e nel mondo: “No – fu la risposta – non finirà mai, perché non finirà mai l’egoismo dell’uomo”. Prendo queste parole come una spiegazione – aggiornata ai tempi – del detto di Gesù: “I poveri li avrete sempre con voi”. E dico a Benimino che a mia memoria i mendicanti sono venuti aumentando per le vie di Roma, a misura che aumentava il benessere generale: quando ci arrivai, quarant’anni addietro, ne vedevo uno qua e là, oggi cammino tra mani tese.

Libano: “Mamma che vuol dire bombardare?” Gli israeliani bombardano Beirut e una mamma libanese, Joumana Haddad, racconta sul Corriere della Sera di non aver saputo rispondere alla domanda del figlio di sei anni Ounsi: “Mamma, che vuol dire bombardare?”. Lei vuole che il bambino cresca spensierato e dice: “E’ uno stupido gioco cui a  volte giocano i grandi”. – Ho cinque figli e ho rivissuto con ognuno la scoperta del mondo attraverso la magia delle parole. Sono arrivato alla convinzione che quello che non possiamo dire ai bambini fa male a noi.

Ho pensato molto a Sergio d’Elia (vedi post precedente) in queste settimane di aggressione nei suoi confronti e sono lieto che la canea inscenata da quanti lo volevano far dimettere sia fallita. Dovremmo interessarci molto di più a chi è in carcere e alle sue possibilità di recupero. Ed esultare ogni volta che uno si riscatta. Anche il gesto di clemenza per i carcerati dovremmo pensarlo come finalizzato soprattutto alla funzione correttiva della pena. Ma più in generale bisognerebbe che sentissimo il mondo carcerario, con i suoi enormi drammi, come parte della società e quegli uomini come fratelli. Si impone sempre più, invece, la tendenza ad allontanare le carceri, anche fisicamente, dalle città. Ho parlato ultimamente con uno che è stato in diversi carceri e che dice: “Il peggiore era quello nuovo poco fuori Ancona, in campagna. Lì non arriva nessun rumore. A San Vittore si sente il tram, all’Ucciardone puoi ascoltare i ragazzi che gridano fuori???. Occorre opporsi al trasferimento delle carceri in campagna. Viene meno il senso della reciproca appartenenza. 

“Non intendo rimanere ostaggio della memoria, del mio passato, per quello che ho fatto e per quello che non ho fatto. Non intendo subire la maledizione del mito di Sodoma, che condanna a volgere lo sguardo all’indietro, marchiato a fuoco sulla pelle con una frase indelebile: tu non cambierai mai”. Così Sergio d’Elia (vedi post del 3 giugno: “Solidale con Sergio ex terrorista e deputato”). Credo che il “mito di Sodoma” (o forse della “moglie di Lot”, che guardando indietro diviene di sale) sia il frutto di un equivoco tra intervistato e intervistatore, ma in queste parole, riportate ieri dal “Corriere della Sera”, trovo un sentimento della vita che i cristiani dovrebbero avvertire come simile al loro: che cioè nessuno – sia pure un terrorista, come fu d’Elia – è condannato a non cambiare, come se non possa vincere l’istinto a volgersi indietro e quella vista lo tramuti ogni volta in una statua di sale. Gesù considera sempre aperto in avanti il destino d’ognuno, mai bloccato all’indietro.

“Il lieto amore con il quale i nostri genitori ci accolsero e accompagnarono nei primi passi in questo mondo è come un segno e prolungamento sacramentale dell’amore benevolo di Dio dal quale veniamo”: era questa la seconda citazione che volevo fare dai discorsi spagnoli di Benedetto XVI, a segnalazione (vedi post dell’11 luglio) di ciò che intendo quando penso al papa che parla a nome di tutti i cristiani. L’impegno inventivo che Benedetto mette nel proporre gli elementi forti della vocazione evangelica è forse il suo dono migliore. Egli ha la voce per farlo, egli lo fa a nome di tutti. Ecco un’altra citazione dall’omelia di Valencia, indicativa di quella capacità di comunicazione dell’attrattiva d’amore del messaggio evangelico: “Maria è l’immagine esemplare di tutte le madri, della loro grande missione come custodi della vita, della loro missione di insegnare l’arte di vivere, l’arte di amare.”

“Voglio dire che anche oggi, nel contesto della cultura moderna, con tutti i problemi che abiamo, anche oggi è possibile credere in Gesù Cristo, la luce che ci orienta anche nelle circostanze attuali”: sono parole dette ai giornalisti da Benedetto XVI durante il volo Roma-Valencia, sabato scorso. Le propongo come l’esempio più semplice di ciò che intendo quando affermo che il papa teologo si pone continuamente di fronte alla difficoltà a credere che ha l’umanità di oggi e cerca come di viverla dentro di sè, per poter in qualche modo venire in suo aiuto. Sono parole simili ad altre che ognuno di noi si trova a pronunciare quando vuole rispondere alle domande dei figli, o dei genitori, o degli amici che chiedono se davvero crediamo – poniamo – alla resurrezione della carne. Mi propongo di tornare sull’argomento e di proporre domani un altro esempio, preso sempre dal viaggio a Valencia, di ciò che intendo quando indico il papa come un cristiano che parla a nome di tutti.

Se ne va Joaquin Navarro-Valls, uomo vivo e portavoce di due papi per quasi 22 anni e prende il suo posto il padre Federico Lombardi, vivissimo cristiano tenuto fino a oggi in faticosi ruoli amministrativi, alla Radio Vaticana e al Centro televisivo vaticano. Ho avuto una consuetudine quasi quotidiana con Joaquin da prima che diventasse portavoce, quand’era lui – corrispondente del quotidiano spagnolo ABC – a venire da me per sapere le cose e conosco Federico dalla metà degli anni ’70, quand’era il vice di Sorge alla Civiltà cattolica e mi chiamava a parlare ai gruppi scout dei quali era animatore. Ambedue hanno partecipato da fratelli alle mie vicende familiari, tragiche e liete. Dedico a loro questo pensiero: se la sfida epocale per ogni papa, oggi, è quella di essere un cristiano chiamato a parlare a nome di tutti (vedi post del 7 luglio), allora l’uomo che egli sceglie come sua voce dovrà aiutarlo a parlare a tutti. Ho maturato questa idea vedendo all’opera Navarro-Valls e ascoltando le radiocronache e le telecronache del padre Lombardi.

Mezza giornata di turismo nell’incanto di Valencia, in coda alla visita del papa. Ne approfitto per mandare agli amici del blog due cartoline. La prima rappresenta una pietra d’angolo dietro il Miguelete, la torre che domina la facciata della cattedrale. Ho girato a lungo intorno al fascinoso edificio in cerca di un’erma, una stele o una pietra delle fondamenta che possa essere stata tempio di Diana, chiesa visigota, moschea, chiesa del Cid Campeador e di donna Jimena, di nuovo moschea e di nuovo chiesa (vedi post dell’8 luglio) e mi figuro d’averla trovata per l’appunto dietro il Miguelete, dov’esso si raccorda con un angolo rientrante all’edificio. La dedico ai cultori del meticciato di civiltà, ai quali forse potrei apparentarmi. E in primis al patriarca Angelo Scola, che ha proposto quel motto d’epoca. – La seconda cartolina ritrae le due catene del porto di Marsiglia, che vedi appesi alla parete di destra e a quella di fondo della “Cappella del santo Caliz”: furono tagliate e asportate dagli aragonesi con un atto di pirateria nel 1423 e qui appese come reti da pesca ad asciugare e come… ex voto! Beato quel tempo in cui ci si assaliva tra cristiani e si lodava Dio per la buona riuscita dell’assalto, che voleva dire – ovviamente – rapina e fraterno scannamento. Questa cartolina la dedico a quelli che sanno vedere gli aspetti negativi della modernità, senza dimenticare quelli positivi.