Il blog di Luigi Accattoli Posts

Contento dell’indulto. Ma avrei preferito una riduzione di pena per tutti gli abitanti delle carceri. I più lontani dal mio sentimento, dunque, sono stati An e la Lega che non l’avrebbero voluta per nessuno. Ma anche l’animoso Di Pietro che abitualmente apprezzo, ma che in questa occasione si è battuto perchè la riduzione non fosse applicata ai reati finanziari e simili. Non nego la prudenza che è necessaria in materia di morale pubblica e di sicurezza, ma in me prevale la vocazione a “fare l’avvocato degli sfigati”, come mi dicono i figli. “Così escono anche i tangentisti, i corruttori, gli specupatori, i votoscambisti” mi griderebbe dietro Di Pietro. E’ vero, è gente “senza dignità”, rispetto al ladruncolo per necessità. Ma il gesto di clemenza mira appunto a raggiungere le persone, oltre ogni sentenza e anche questi “indegni” sono persone e hanno bisogno – magari più di altri – d’essere raggiunti da qualcosa che non sia un giudizio. Aggiungo in coda che papa Wojtyla nel duemila aveva chiesto una riduzione della pena “a vantaggio di tutti i detenuti”.

“Da quando ho te credo negli angeli. Nando”: letto su una parete del sottopasso della stazione di Santa Marinella, ripartendo per Roma dopo un primo spezzone di ferie. Lo dedico ai visitatori del blog.

Steven Spielberg, produttore di un cartoon per bambini che li spaventa e li attrae, Monster House, una casa che divora piccoli e grandi, difende la produzione affermando che “ai bambini piace spaventarsi”. Ogni genitore sa quanto sia vero. Ma sa anche quanto il piacere dello spavento tenda a mescolarsi – nei piccoli – con le vere paure, quelle che non fanno dormire la notte e magari durano tutta la vita. Credo che il piacere di spaventarsi dei piccoli sia simile al piacere dell’alcool dei grandi: esso va governato. I piccoli non sono in grado di farlo e dunque io credo che i cartoon e i film giocati per intero su quel piacere andrebbero evitati. E non credo che basti farglieli vedere in compagnia: si può stare insieme a loro in una sala, ma non potremo entrare nei loro incubi.

Tra i visitatori del blog , c’è un gruppo preoccupato delle critiche che colpiscono papa Benedetto, tanto da prendere male anche un’osservazione innocente del tipo “se fosse rientrato dalla vacanza avrebbe avuto più ascolto” (vedi post precedente). Credo si tratti di persone giovani e questo spiega forse a metà la loro preoccupazione, perché non hanno conosciuto la critica assai più forte incontrata dai predecessori. Per restare a Giovanni Paolo, basterà ricordare i malumori che provocava il suo viaggiare, o l’ipersensibilità cui andava incontro il suo richiamo all’origine polacca. Ricondotte le critiche al già visto, dirò che un papa sempre le deve mettere nel conto perché figura unica e bianca, cioè posta sul candelabro; perché il suo fare e dire tocca anche i non cattolici e i non credenti, e tutti quindi sono come provocati a interloquire; perché tanto decide nella Chiesa e dunque ognuno cerca di averlo per sé. Se il papa è chiamato a parlare a nome di tutti, è naturale che tutti si attendano di essere interpretati.

Incontro un vescovo intelligente che mi sorprende con questo ragionamento riguardo alla sottovalutazione – da parte dei media – degli appelli del papa per il Medio Oriente: “Se fosse rientrato a Roma dalla Valle d’Aosta, il giorno in cui ha invitato a una giornata di preghiera e di penitenza, l’attenzione sarebbe stata diversa. Egli certamente non ha bisogno di lasciare la montagna per pregare e fare penitenza, ma quel gesto avrebbe aiutato il mondo a udire il richiamo”.

“Donaci la pace – Signore – non domani o dopodomani, ma oggi!” Così ha pregato papa Benedetto ieri pomeriggio in visita alla chiesa parrocchiale di Rheme Saint George, pochi chilometri sopra Introd (Aosta). Quell’invocazione a Dio esprimeva la stessa ansia con la quale sei ore prima si era rivolto alle parti in conflitto: “Cessino subito il fuoco”. Abbiamo già imparato ad apprezzare la forza delle sue parole (vedi post del 13 luglio) quando parla a noi, ma io credo che le sorprese maggiori le avremo ascoltandolo parlare a Dio.

A proposito dell’origine campagnola (vedi post del 22 luglio): uno può pensare di non avere più nulla, dentro, di quel mondo, dal momento che vive a Roma da quarant’anni, fa il giornalista e tiene un blog, ma ecco due smentite legate al grano che mi vengono agli occhi e all’anima in questi giorni del luglio vacanziero. La veduta dei campi mietuti, innanzitutto: quell’oro delle stoppie che più lo guardo e più lo godo. E la scoperta quasi commossa dell’importanza che il grano ha sempre avuto per l’umanità mediterranea: termino oggi di leggere La guerra del Peloponneso di Tucidide (vedi post del 3 luglio) e come dirò la sofferenza che ho provato, per ogni primavera di quella interminabile guerra, all’incipit ritornante: “quando il grano era in fiore, i peloponnesi invasero l’Attica e devastarono i campi”. Oppure: “essendo ormai maturo il grano, sbarcarono e diedero fuoco ai campi”. Quelle parole mi colpivano come se le devastazioni non risalissero a duemila e quattrocento anni addietro, ma le sentissi annunciare dal telegiornale della sera. Il soprassalto che mi provocavano mi diceva che dentro sono restato sempre un contadino.

Penso ai ragazzi campagnoli della Cina da quando ho letto sui giornali che nelle scuole di Wuhan sta prendendo piede l’idea di formare classi separate di “figli di contadini” e “figli di cittadini”, per facilitare l’inserimento dei secondi che “quando arrivano in città presentano molte lacune nella loro preparazione”. Mi sento in causa, essendo stato, a 11 anni, in una classe “preparatoria” alla “prima media”, composta di campagnoli come me che non avevano dato l’esame di ammissione – non conoscendone neanche l’esistenza – e di cittadini che non l’avevano superato. In Italia non abbiamo più contadini, ma ora abbiamo gli stranieri. Per essi e per ogni svantaggiato, a partire dai “diversamente dotati”, credo si faccia bene a non cedere alla tentazione della separazione e vedo nel loro inserimento – pur faticoso – uno dei pregi maggiori delle nostre scuole. Dico così la mia veduta: le classi separate intrecciano più nodi – umiliazione degli uni e pregiudizio di superiorità negli altri – di quanti non ne sciolgano, e cioè il più efficace adeguamento degli uni al livello degli altri. Ma anche questo nodo ha la sua rilevanza e spesso nelle nostre indiscutibili classi uniche non solo non viene sciolto, ma neanche allentato.

– Perché stai così zitto?
– Sono triste.
– Ma sei vivo, come fai a essere triste?
– Sono triste triste triste…
– Fai tu! Io sarò triste da morto, ma non da vivo.
(Dialogo tra due barboni ascoltato sul bus 75, a Roma)

Credo che il dramma di Israele lo dovremmo sentire molto di più come un dramma nostro e lo dovremmo pensare al futuro: che ne sarà tra cinquant’anni? Certo che c’è il problema immediato della sua sicurezza, insidiata da tutti quelli, intorno, che ne vogliono cancellare l’esistenza, come appare sempre più chiaro dalla sequenza coordinata degli ultimi attacchi venuti da Hamas e dall’Hezbollah. C’è quello stato di necessità che porta a una reazione sproporzionata, quale appunto era voluta dagli attaccanti. Forse davvero lo Stato di Israele non può agire diversamente. Ma noi europei – oltre a dirci solidali – dovremmo interrogarci, in mezzo allo sconcerto di oggi, sul dramma di domani e dovremmo chiederci, anche per conto dei fratelli ebrei, quale potrà essere il futuro di quella nazione a noi spiritualmente gemella, incastonata in mezzo al mondo arabo. Preso nell’ansia della sopravvivenza quotidiana, l’Israele politico raramente pensa in termini di futuro. L’Europa forse può aiutarlo a questo, ovviamente facendosi carico del suo presente. Dovremmo anche noi porci – ogni volta – la domanda su quale potrebbe essere l’armamento dei nemici di Israele tra mezzo secolo, sulla sproporzione tra arabi ed ebrei che si potrebbe verificare all’interno delle sue frontiere e su quale potrebbe essere il sentimento dei vicini che non gli sono nemici. La sopravvivenza a lungo termine vuol dire pace con il mondo arabo. Ma non vi sarà pace se non cresce un sentimento di convivenza con e nelle popolazioni arabe che l’attorniano: sentimento che ogni atto di guerra allontana nel futuro. E che mai si affermerà se non si rimedia alla sofferenza in cui è posto il popolo palestinese. Non possiamo lasciare soli i due popoli. Dobbiamo trovare il modo di costruire le condizioni per l’avvicinamento. Dovremmo occuparci molto di più di ciò che accade laggiù.