Il blog di Luigi Accattoli Posts

“Dio raddoppia a te quello che tu auguri a me”: letto in un bar di Petralia Soprana, nel parco delle Madonie. Un’idea della grazia – avrebbe detto Sciascia – come valore negoziabile e dunque “tipicamente siciliana”. Il mio giro è lungo i tre litorali, ma so da me che non si può dire d’essere stati in Sicilia senza qualche puntata all’interno, perchè la Trinacria è certo esaltata dai mari, isola quant’altra mai, ma è anche “tutta rivolta all’interno, aggrappata agli altipiani e alle motagne” (ancora Sciascia: La corda pazza, Einaudi 1970, p. 204). Dunque ieri sono stato a Novara di Sicilia, dopo la gita a Tindari: e sono andato lassù a cercare, oltre quella sorprendente Novara dalle chiassose piazzette (chi lo direbbe che la Sicilia interna ha gente così socievole ai tavoli dei bar?), il valico di Sella Mambrazzi, 1.125 metri slm, per vedere l’Etna al di là della valle dell’Alcantara. E infatti l’ho vista, la gran pignatta accesa, che avevo già osservato – negli anni – dall’aereo, da Catania, da Lentini, da Acireale, da Aci Trezza, da Troina e appena l’altro ieri dal castello di Milazzo. L’ho rivista fumante nella calicola del primo pomeriggio. Oggi volevo rivederla, quell’Etna, dalla 124, la statale delle Madonie. Ma c’era foschia e dal belvedere di Petralia Soprana si scorgeva appena Gangi, come una manciata di sassi bianchi in un mare di crete gialle. Premio della gita è stato l’incontro con Paolina Città, che gestisce – con il figlio Antonio – il “Bar centrale”, in piazza del Popolo 6. Scrive poesie, la signora Paolina e condivide la mia idea che la Sicilia non la capisci se resti sulle coste: “Si sbagliano, tutti questi bagnanti! Perchè c’è ancora tanta vita nei paesi dell’interno”. Mi recita dal bancone suoi testi editi e inediti. Uno intitolato Sicilia: “Se te talia a secco / sento lu core che s’assuttiglia” (Se ti guardo attentamente, sento il cuore che mi si stringe). E ancora: “Te chiamavano tutti Conca d’oro / per tutte quante le bellezze rare, / ora la Conca è chiena di dolore / e le lacreme spannone de fora”. Paolina dice che di arabi e musulmani qui ce ne sono pochi “e non di tutti ti puoi fidare, come degli altri cristiani” ma ce ne sono anche “per bene”, che vendono “le cose loro”. Do un passaggio a un pastore che si chiama “Vincenzo di nome e De Maria di cognome”, mi spiega che gli arabi “vengono a vendere, ma non vogliono fare la terra”. Lui ha terra, buoi e pecore ma “non più le capre”,  che ha cessato di tenere “qualche anno addietro” perchè “non c’era risultato”.

“Tindari mite ti so / tra larghi colli pensile sull’acque / dell’isole dolci del dio”: così dice la poesia Vento a Tindari di Quasimodo, riprodotta sulla parete dell’Azienda di soggiorno e turismo. Il “vento” del titolo è metafora della sventura “che m’ha cercato l’anima”. Oggi non c’era vento sulla rupe di Tindari ma appena un alito che saliva dal mare e ti salvava dal fiato caldo che scendeva dal sole. Ho visto due donne vestite alla musulmana portare fiori alla Madonna e le ho interrogate, da dove venissero e se fossero cristiane e non ho avuto una sola parola di risposta, sia che non avessero inteso le domande, sia che non osassero parlare a un uomo. Mi sono confermato nell’idea che fossero “muslim” e ho provato a immaginare che preghiere potevano portare alla “Madonna nera” insieme a quel mazzo di margheritone. Lei del resto dev’essere ben esperta di preghiere randagie, come questa che ho letto su un guard-rail a duecento metri dal santuario, all’altezza del teatro greco: “Prego il Signore e la Madonna del Tindari di cancellarti da me al più presto e di non farmi più soffrire”.

“Se fossi un giudice ti condannerei ad amarmi per sempre”: letto sul parapetto del belvedere, al faro del Capo di Milazzo. Mi ricorda una frase dell’immenso carteggio che Kafka scambia con Felice e che dice qualcosa come questa: “Dal momento che tu hai tanta autorità su di me, potresti approfittarne per indurmi ad amarti”. – Dal faro e poi dalla terrazza del Castello (arabo e normanno, aragonese, svevo e spagnolo) mi sono goduto la grande scena dei Peloritani e dell’Etna, mentre il sole scendeva su Alicudi e Filicudi. La guida faceva notare gli angoli del monastero benedettino “in pietra bianca simbolo cristiano di purità” e quelli del mastio in pietra lavica, “simbolo musulmano di Allah”. Forse un riferimento arbitrario alla “pietra nera” della Mecca. Lasciavo dire, distratto dalla moltitudine dei fichi d’India, giù dalle balze della rupe su cui sorge il castello, lontani eppure vividi all’occhio, da poterli distinguere ditonzolo per ditonzolo.

Sono contrario alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina, perchè le isole hanno da essere isole.

Felice tappa a Paestum come prologo alla Sicilia, per fare gli occhi alla veduta delle pietre dorate dei greci. Avevo visto Segesta, Selinunte, Agrigento e Metaponto, ma non ero mai stato a Paestum, che forse dà di più, almeno a un visitatore impreparato come sono io. Sorpresa dei quattro chilometri e mezzo di mura, che non trovi altrove. Felicità delle tre ore passate a vagare dall’uno all’altro dei tre templi, nella vastissima area archeologica. Incanto davanti a quello di mezzo, che Goethe – venuto qui nel 1787 – ritenne di dover “anteporre a tutto quanto si vede nella stessa Sicilia”, come racconta nel Viaggio in Italia. Che ci dicono le pietre dei greci che si fecero italici? Ho visto coppie di sposi venute qui a fare le foto. Ragazzi bruniti come dovevano essere gli atleti che qui gareggiarono, duemilacinquecento anni fa. Lo stesso sole, due giri più tardi. Sempre gagliardo. Lo stesso guizzo degli atleti di oggi nello slancio del “tuffatore”, che scopri al Museo di Paestum. Credo che anche i sentimenti possano essere gli stessi. Se quelle colonne e quel tuffo ci attraggono, vuol dire che i movimenti delle anime e dei corpi, loro e nostri, si riconoscono. Possiamo applicare i criteri di questo riconoscimento alle anime e ai corpi del mondo musulmano? Quella famigliola all’uscita dal Museo – marito con la guida in mano e donna imbacuccata e bambini con le finte macchine fotografiche appena acquistate – era un’immagine di vicinanza. Qui attirati, come me, dalle pietre dei greci.

Domani parto per la Sicilia: quindici giorni in automobile, a farne il giro lungo i tre mari. Mi sono preparato leggendo Tucidide e Strabone, ma ho messo nella borsa anche un libretto sui luoghi del commissario Montalbano. Tra vacanze, conferenze e trasferte di lavoro calcolo che questa sia la diciassettesima occasione che mi porta nell’isola. Stavolta è uno stage di aggiornamento previsto dal contratto aziendale. Il fuoco dell’attenzione dovrebbe essere sulla presenza islamica antica e nuova, tipo Mazara del Vallo dove gli immigrati tunisisi sono tornati a far risuonare l’arabo nel medievale quartiere della casbah. Temo d’aver fatto una scelta impegnativa, ma confido nell’aiuto a vedere che potrà venirmi dal sole di Sicilia. Metterò qui, ogni giorno, un riflesso della luce che laggiù si tocca con gli occhi.

Ieri – sabato – a una settimana dal trasferimento di Orazio dall’ospedale di Aosta al Gemelli di Roma (vedi post del 6 agosto) – ho consegnato a Claudia Petrosillo lo stampato dei messaggi di affetto inviati a questo blog da 44 persone, in maggioranza colleghi giornalisti. Ho trasmesso a Claudia l’abbraccio di tutti. Lei è serena nella voce e nell’aspetto. Ringrazia e prega tutti di non chiedere di vedere Orazio. Per ora solo lei e le figlie sono ammesse. Chiede a sua volta di continuare a sostenere lei e le ragazze nell’attesa quotidiana dei piccoli passi che Orazio viene compiendo per quanto riguarda la capacità di reagire agli stimoli. “Le preghiere sono per noi più preziose delle visite”, ha detto. Le ho risposto con un bacio.

Invito i visitatori a leggere La papaia di Senan: è un libro di “favole del Benin”, narrate da Paolo Valente (Emi editore, 63 pagine, 10 euro), che ti portano come d’incanto in un mitica età dell’armonia tra uomini, animali e piante. Un ristoro dell’anima che può aiutarci a contrastare dentro di noi il danno che ci provocano i nostri stessi maltrattamenti della natura e quelli – forse ancora più gravi – che vediamo operati in Africa. In queste pagine rivive un tempo nel quale il cielo era tanto vicino che lo potevi toccare, il gallo chiamava la pioggia, il lupo e il caprone andavano a pescare allo stesso fiume, lo scimmione si truccava per conquistare la ragazza più bella e il re Petepè era impegnato a maritare le figlie. Il libro mi è stato mandato da Carmen ed Elpidio Balbo, stupendi amici che sono tra i personaggi della mia inchiesta Cerco fatti di Vangelo. Da 35 anni animano a Merano un Gruppo missionario (info@gmm-ong.org) che scava pozzi e porta medicinali in diversi paesi dell’Africa nera. Il ricavato dalle vendite del volume va per queste opere.

Che fare per cogliere la novità di linguaggio del papa teologo (vedi post del 12 giugno, del 9 e 13 luglio)? All’udienza di ieri Benedetto ha parlato del “comandamento nuovo” dell’amore dato da Gesù: lo stesso tema dell’enciclica Deus caritas est. Lo ha fatto con un linguaggio forte, che merita di essere udito parola per parola, come un testo poetico, vincendo la sensazione del risaputo che coglie l’uditore ogni volta che ascolta un messaggio già noto. Questo è noto da duemila anni, ma papa Ratzinger ne rinnova audacemente l’esposizione. Ecco le righe più vive, che segnalo alla degustazione e magari alla memorizzazione dei lettori:

L’apostolo Giovanni si volge direttamente a Dio per definire la sua natura con la dimensione infinita dell’amore. Con ciò vuol dire che il costitutivo essenziale di Dio è l’amore e quindi tutta l’attività di Dio nasce dall’amore ed è improntata all’amore (…)

Nel precetto riferito da Giovanni (“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”) Gesù presenta come motivo e norma del nostro amore la sua stessa persona: “come io vi ho amati”. E’ così che l’amore diventa davvero cristiano, portando in sé la novità del cristianesimo: sia nel senso che esso deve essere indirizzato verso tutti senza distinzioni, sia soprattutto perchè deve pervenire fino alle estreme conseguenze, non avendo altra misura che l’essere senza misura (…)

Preghiamo Dio di poterlo vivere (il “comandamento nuovo”) così intensamente da contagiarne quanti incontriamo sul nostro cammino.

E’ audace l’invito ad agire per contagio d’amore. Ma anche la qualificazione dell’amore come costitutivo di Dio. E soprattutto l’indicazione della novità cristiana nell’amore che va a tutti ed è senza misura.

“Diffidate dai libri, leggete sui muri” (letto su un muro di Caserta).