Il blog di Luigi Accattoli Posts

“La tua invidia è la mia gloria”: letto dietro una bancarella del pesce, sul lungomare di Donnalucata (Ragusa). Mi ricorda una delle prime scritte che decifrai senza capirla, da bambino delle elementari, sullo sportello dell’Ape di un pescivendolo che batteva le strade di campagna delle mie Marche, tra Recanati e Osimo, sul finire degli anni quaranta: “Chi d’invidia campa disperato muore”.

Un grazie di cuore a lei, dott. Accattoli, per il gesto di sincera amicizia verso nostro fratello Orazio, per aver aperto il blog “Un abbraccio a Orazio Petrosillo”, e a tutti coloro che hanno mandato un messaggio di affetto e di augurio. Invitiamo tutti a pregare Dio che è il “Signore della vita e della gioia”, ma soprattutto a pregare avendo in mente gli stessi pensieri di Dio, perchè si compia sempre la sua e non la nostra volontà. Il Signore è venuto a visitarci nella sofferenza e ha messo alla prova la nostra fede, chiedendoci una fede più matura, quella che chiese ad Abramo e continua a chiedere a coloro su cui si posa il suo sguardo: “fidarsi di Lui senza capire”. Grazie a tutti. I fratelli di Orazio: Piero, Anna, Umberto ed Eugenio.

“Circolo ricreativo tunisino di Scicli. Filippo 349.0941207″: uno si meraviglia di tanta compitezza ed entra e chiede: è lei Filippo? “Sì, sono io”. Ed è tunisino? “Sono tunisino, non si vede? Vedere si vede, ma Filippo non è un nome arabo. “Infatti non mi chiamo Filippo, ma qui nessuno capiva il mio nome e tutti mi chiamavano Filippo e allora ho messo questo nome sulla porta”. Da quando ha aperto il Circolo? “Da poco più di un anno”. Quanti soci ha? “Un centinaio, tutti tunisini, ma qualche volta vengono anche dei marocchini”. Filippo non ha difficoltà a parlare con un giornalista che viene da Roma. Sono del Corriere della Sera, faccio io e lui: “Complimenti!” Insomma è perfettamente italianizzato: “Sono qui da quindici anni”. Da due anni e mezzo a Scicli c’è una “sala della preghiera”, che Filippo chiama senza problemi “moschea” e spiega che sulla costa le “moschee” sono state aperte prima, a Donnalucata (resa famosa, come Punta Secca e Donnafugata, dalle riprese della serie televisiva del Commissario Montalbano) c’era dal 1992. Qui siamo all’interno – Scicli è a otto chilometri da Donnalucata – e la penetrazione degli immigrati è più lenta, ma già visibile nella vita quotidiana. I tunisini sono dappertutto e non più solo come ambulanti: li vedi uscire ed entrare nei portoni con la disinvoltura dei residenti stagionati. Ho detto “portoni” a bella posta: Scicli è solo una cittadina sui trentamila abitanti, ma ha una vocazione monumentale che ti incanta: se ti trovi a passare – poniamo – lungo la fiancata sinistra della chiesa del Carmine, che è solo la quinta o sesta, per importanza, delle chiese storiche del posto, resti a bocca aperta a vedere la muraglia che ti si erge di fronte, la fiumara che la labisce provvista di un letto in pietra a blocchi squadrati degno del fossato di un castello svevo, i ponti sulla fiumara che non sfigurerebbero a cavallo dell’Arno o del Tevere. Visitando la città trovi ragionevole che a Scicli anche un Mustafà divenuto Filippo realizzi una targa istoriata e la voglia arricchita dal disegno di un Aladino sul tappeto volante e di una sgargiante scritta in arabo.

“Visita guidata alla stanza del questore di Montalbano, martedì e giovedì ore 20-23???: letto su un pannello in vetro all’ingresso del palazzo comunale di Scicli. Tumultuosa Scicli, che aveva abitatori delle grotte fino agli anni sessanta, su per le balze del colle di San Matteo, quando non ce n’erano più a Matera e ha ora quel cartello da coatti televisivi ma anche – cento metri più in là, nei pressi di via Castellana – il “Circolo ricreativo tunisino???. Ci torno domani per saperne di più.

Salta dal mare un pesce,

una ragazza salta dentro l’onda ricurva

e un uomo di Agrigento, Empedocle di nome,

improvvisamente sa, anzi ricorda

d’essere stato mare, pesce e femmina leggera.

(Omaggio a Jorge Louis Borges e alla poesia che inizia con il verso “Salta del mare un pez”)

Passa una donna arguta tra colonne

nella gran luce. Chiudimi in un bacio.

(Omaggio a Sandro Penna e alla poesia che inizia con il verso “Passano i buoi pesanti con l’aratro”)

 

“L’acqua si perde ma a noi non la danno”: letto su un cartello di legno, posto a modo di segnale stradale sulla statale 115 Trapani-Siracusa, dopo la deviazione per “Scala dei turchi” e prima dell’uscita per “Porto Empedocle-Vigata”. A Porto Empedocle è nato Andrea Camilleri, che l’ha rinominata “Vigata” e i suoi concittadini hanno voluto adottare quel nome d’arte. Potenza del mestiere antico dell’affabulatore.

Dalla rupe di Erice ho visto tre volte l’alba che si apriva sulle Egadi, sulla Via del Sale e sulla città di Trapani dalla bella pianta. Arrivando, venerdì 18, avevo trovato l’incendio di un bosco a chiudere la via d’accesso che passa per la Valderice. Incredibile bellezza che qui trovi, incredibile oltraggio alla bellezza che qui incontri.

“Chissà se quando saremo andati / ci saranno ancora innamorati” (letto su un muro di Trapani, nei pressi di Palazzo Riccio di Morana). Amare vuol dire temere, per sè e per tutti. Anche Gesù una volta ebbe un presentimento tristissimo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”

Sorpresa delle sorprese, per chi – come me – aveva programmato il giro marittimo della Trinacria ponendo a obiettivo la raccolta di qualche segno della presenza antica e nuova dell’Islam; sorpresa massima a Segesta, dicevo, dove ho trovato un segno nuovo – non c’era nel 1992, l’ultima volta che ero stato qui – di una presenza antica: cioè la segnalazione nel punto più alto dell’area archeologica, sul monte Barbaro, dei resti di una moschea e di un cimitero islamico. Non credevo a quello che leggevo, sul pannello in vetro e alluminio! Insomma, qui a Segesta non abbiamo da esultare soltanto per il teatro che dà verso il mare e per l’incantevole tempio con colonne senza scanalature, ma anche per il ritrovamento, lungo l’ultimo decennio, di un insediamento musulmano databile al XII secolo e cioè in piena epoca normanna, qualche decennio dopo la cacciata militare degli arabi, quando quassù si rifugiano i contadini decisi a resistere alla forzosa riconversione al cristianesimo, come forzosa era stata – due secoli prima – la loro conversione all’Islam. Si rifugiano in un luogo da tempo abbandonato, dopo essere stato sicano, greco, romano e bizantino. Infine i vandali l’avevano devastano e dopo secoli di abbandono risorge come Qual’at Barbari, Calatabarbaro in siciliano. Questo nome non aveva una chiara interpretazione fino a che gli archeologi, l’altro ieri, non hanno rimesso in luce le mura perimetrali di una moschea, identificata come tale per la presenza della qiblà, cioè la nicchia che indica la direzione della Mecca. E accanto un cimitero dove i sepolti erano posti in “posizione laterale con il volto in direzione della Mecca”. Com’è pensabile che una comunità musulmana a dominante indigena abbia la forza di costruire una moschea forse mezzo secolo dopo la cacciata degli arabi (la caduta di Noto, ultima piazzaforte, è del 1091)? Sappiamo che la presenza musulmana cessa soltanto con Federico II (egli muore nel 1250), quando infine tutti i musulmani superstiti alla riconversione vengono trasferiti a Lucera di Puglia. Può essere che su un monte desolato, alcuni “giapponesi” dell’Islam, abbiano trovato – magari per cent’anni – un loro habitat relativamente indisturbato? I dotti ricostruttori delle stratificazioni di civiltà messe in luce dagli archeologi dicono di sì e a me piace crederlo. Chi volesse verificare vada ai capitoli La moschea e Il cimitero islamico del volume Segesta de La Medusa editore (Marsala 2005).