Il blog di Luigi Accattoli Posts

Quarta scena. Si vede il capo dei rapitori chinato sulla stuoia e si sente la sua voce fuori campo che dice: “Noi non siamo – O Dio – come questo infedele che ha già dimenticato le sue preghiere e le deve leggere nel libro. Che fuma e sogna di mangiare il maiale e di bere la birra. Ascolta la nostra preghiera e non la sua. Sono quasi idolatri, tengono sottomesso il mondo e pretendono che tu accolga le loro suppliche”.
 

Dopo una pausa di silenzio è il missionario che si inginocchia. Legge nel libro e intanto si sente la sua voce fuori campo che dice: “Perché Signore mi hai mandato dei rapitori che pregano? Come vedi, nella preghiera sono più bravi di me, ma tu ascolta la mia preghiera e non la loro. Vogliono soldi per la guerra: ti sembra questa una preghiera degna? Io invece ti chiedo di farmi tornare dai miei poveri e dai miei bambini. Chissà come saranno spaventati per il mio rapimento. Non vedo l’ora di riabbracciarli”.

Terza scena. Dopo la terza preghiera e la terza sigaretta arriva uno spuntino: pesce secco e riso. “Porca miseria” sbotta il missionario allargando le braccia con un pezzetto di pesce secco nella mano sinistra e un pugno di riso nella destra: “Sempre questo pesce schifoso”.
“Ti manca la carne di maiale?” chiede ironico – facendo il verso del maiale e mostrando disgusto – il capo dei sequestratori.

“Il maiale è buono”, ribatte il missionario: “Perché fai quella faccia se non l’hai mai assaggiato?”
“Il maiale è impuro come la sigaretta. Ma stai tranquillo, quando avranno pagato e ti avremo liberato, i tuoi amici ti festeggeranno con quel maiale arrostito tutto intero senza il quale in quest’isola non riuscite a stare allegri”.
“Ti ripeto che il maiale è buono e questa povera gente non ha altro con cui fare festa. Se poi c’è anche un boccale di birra il maiale è ancora più buono!”
“Maiale, birra e fumo: che Dio abbia misericordia di voi”.
“L’avrà, l’avrà! Fossero tutti questi i peccati… Ma voi sapete che noi missionari quando partiamo per la nostra missione firmiamo una dichiarazione con la quale invitiamo i superiori a non pagare riscatti in caso di rapimento?”
“Lo sappiamo, ma sappiamo anche che i riscatti li pagano i vostri governi. E’ sempre andata così e così andrà con te, se questa è la volontà di Dio”.
“Se vi interessa, sappiate che io prego perché non vada così. Non è giusto finanziare la guerra con i rapimenti”.
“Solo Dio conosce il giusto e l’ingiusto”.

Seconda scena. Giunta l’ora della seconda preghiera i sequestratori tornano a turno sulla stuoia, poggiano i mitra a lato di essa – sulla sinistra dello spettatore, mentre il missionario si trova sulla destra – e pregano.

Quando hanno finito il missionario si inginocchia nel fango – cioè fuori della stuoia – e legge in silenzio il suo breviario come nella prima scena.

Poi fuma la seconda sigaretta. “Buona davvero” dice ad alta voce e domanda al capo dei sequestratori: “Perchè mi avete rapito?”
“Abbiamo bisogno di soldi”.
“Ma perché avete rapito me? Perché sono un cristiano?”
“No, perché sei ricco”.
“Cavolo che ricco, vado in giro in ciabatte!”
“Vieni da un paese ricco e hai un telefonino con il quale possiamo mandare i messaggi per chiedere il riscatto”.
“Che ci fate con i soldi?”
“Servono per finanziare la guerra”.
“Chi lo comanda questa guerra? Voglio dire: a chi vanno i soldi?”
“Noi non sappiamo molto, ma sappiamo che vanno in mani sicure. Dio sa tutto”.

Racconto in dodici scene. Prima scena. Un missionario burlone viene rapito da quattro guerriglieri musulmani (vedi post del 24 luglio). Eccoli tutti e cinque all’interno di una tenda, seduti su dei grossi sassi. All’ora della preghiera i quattro stendono a terra la stuoia, nel mezzo della tenda e a turno – due per volta – si prostrano nell’invocazione rituale. Fuori campo si odono queste parole: “In nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso. Te noi adoriamo e a te chiediamo aiuto. Guidaci sulla retta via, la via di coloro che hai colmato di grazia, non di coloro che sono incorsi nella tua ira, né degli sviati”.

“Cavolo, siamo uno a zero” dice il missionario con voce fuori campo: “Questi pregano e io che faccio?” Mette la mano nella bisaccia, ne cava il breviario, si inginocchia nel fango, si segna e legge. Voce fuori campo: “Beato l`uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti;  ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte”.

Quando ha finito rimette il breviario nella bisaccia e incontra il pacchetto delle sigarette, ne accende una. Fa una lunga tirata e poi soffia il fumo intorno estasiato, a occhi chiusi. Li apre, vede le facce severe dei sequestratori, tutti giovanotti che potrebbero essergli figli e riprende il pacchetto: “Scusate – dice – ho dimenticato di offrirvene, sono buone! Tabacco americano”.
“Noi non fumiamo” risponde il capo dei sequestratori: “Se fumi la tua bocca non è pulita per la lode dell’Onnipotente”.

“E’ il cuore che dev’essere pulito e non la bocca”, risponde il missionario vivamente seccato: “Il tuo cuore non è pulito se tieni prigioniero un fratello”. Fa una pausa e poi dice soddisfatto: “Uno pari!”

Cinque agosto: ancora una volta ho visto piovere fiori bianchi durante il canto del Gloria dal quarto rosone centrale del soffitto dorato di Santa Maria Maggiore. La tradizione vuole che la Basilica sia sorta sul luogo di una nevicata agostana al sommo dell’Esquilino. Una leggenda delicata come un verso del Petrarca: “Da’ bei rami scendea – dolce nella  memoria – una pioggia di fior sovra il suo grembo”. In ottimo italiano il cardinale Law arciprete rievoca intrepido la neve, la visione avuta in quella notte da papa Liberio (352 -366), “la reliquia della mangiatoia che qui è custodita”. Tra la folla col naso al cassettone sollevato per il lancio dei fiori c’eravamo Sandro Magister ed io, genitori di figli nella carne e perciò trepidi scommettitori sulla tenuta delle tradizioni.

Siccome in casa nostra è mia moglie quella che parla della morte con più coraggio e più apertamente, i figli la prendono in giro. Dicono che dovrebbe andare ad abitare nella casa della Famiglia Addams e vestirsi di nero come Morticia. Lei, poverina, sta allo scherzo ma non demorde: ‘Chiedo al Signore di poter morire prima di te’, mi dice davanti a tutti i figli schierati“: scrive così Aldo Maria Valli che di figli ne ha sei e che è appena passato dal Tg3 al Tg1. Tra i colleghi vaticanisti Aldo Maria è forse quello che sento più vicino per ubbie e miti follie. Quel brano di deliziosa cronaca familiare l’ho preso da “Appunti per il dopo”, una lunga divagazione sull’aldilà che ha scritto per Il Foglio, dov’è apparsa il 31 luglio. Poco più avanti – nella stessa divagazione – Aldo Maria riassume così l’idea televisiva della “fine della vita” con cui vengono su i nostri figli: “Che la morte non sia vera, che riguardi sempre gli altri, che dipenda da un atto criminale. In famiglia ricordiamo ancora con divertimento un episodio di qualche anno fa quando Paola, che all’epoca aveva forse quattro anni, sentendo che la mamma e il papà stavano parlando di una parente morta improvvisamente chiese: chi le ha sparato?” – Ad Aldo Maria un cordiale buon viaggio con il Tg1.

“Dio è papà, più ancora è madre” ebbe a dire papa Luciani in uno dei quattro “angelus” del suo veloce pontificato. Benedetto condivide ma afferma che comunque Dio lo dobbiamo chiamare “padre” e non “madre”, perché il linguaggio della preghiera dev’essere quello della Scrittura: ne parla nel libro su Gesù (vedi post del 21 giugno) a proposito del “Padre nostro”. “Dio non è anche madre?” si chiede e risponde positivamente citando Isaia 49,15 e 66,13 (“Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò”), afferma che “il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste” e conclude:

Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’amore di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. ‘Madre’ nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio”. Il perché “solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo (…), ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, ‘madre’ non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto” (pp. 169-171).

(Continua nel primo commento a questo post)

Il National Geographic Traveler mi chiede dieci righe su un “luogo speciale” del Vaticano. Scelgo l’obelisco e queste sono le righe. 

L’obelisco è il personaggio più antico del mondo vaticano, l’unico che qui ha visto tutto: dal martirio di Pietro – crocifisso a testa in giù “iuxta obeliscum”, vicino all’obelisco – alla costruzione della Basilica costantiniana, al saccheggio dei saraceni nell’846, all’operosità del teso Michelangelo. Vede questo e il resto che non sappiamo dal fianco sinistro della Basilica, dove era stato posto nel 37 dopo Cristo a ornamento del Circo di Nerone. Portato al centro della nuova piazza nel 1586 ha visto anche meglio il resto della storia, dal rogo dei libri di Giordano Bruno (1600) al Concilio Vaticano II, alle folle che hanno salutato la partenza del papa polacco e l’arrivo del tedesco. Pur abituato ad attraversare la piazza, ogni volta mi stupisco a vedere chi tutto ha visto.

L’intelligenza di Google ripete e completa come quella umana. La mamma dice “la forchetta serve per mmm…” e il bambino completa la frase con la parola “mangiare”. Digito su Google “Giacomo Leopardi nasce nel” e lui subito mi dice “1798”. La differenza è che mamma e bambino con il tempo possono arrivare dove nessuno ha mai messo piede mentre Google ti porta soltanto nei luoghi già noti alla comunità dei suoi visitatori.  

Credo che della conversazione del papa in Cadore (vedi post del 25 luglio) resterà il concetto di “vero trionfalismo”, che fino a oggi non mi pare avesse mai usato: “In questi contesti di due rotture culturali, la prima, la rivoluzione culturale del ’68, la seconda, la caduta potremmo dire nel nichilismo dopo l’89, la Chiesa con umiltà, tra le passioni del mondo e la gloria del Signore, prende la sua strada. Su questa strada dobbiamo crescere con pazienza e dobbiamo adesso in un modo nuovo imparare che cosa vuol dire rinunciare al trionfalismo. Il Concilio aveva detto di rinunciare al trionfalismo – e aveva pensato al barocco, a tutte queste grandi culture della Chiesa. Si disse: cominciamo in modo moderno, nuovo. Ma era cresciuto un altro trionfalismo, quello di pensare: noi adesso facciamo le cose, noi abbiamo trovato la strada e troviamo su di essa il mondo nuovo. Ma l’umiltà della Croce, del Crocifisso esclude proprio anche questo trionfalismo, dobbiamo rinunciare al trionfalismo secondo cui adesso nasce realmente la grande Chiesa del futuro. La Chiesa di Cristo è sempre umile e proprio così è grande e gioiosa. Mi sembra molto importante che adesso possiamo vedere con occhi aperti quanto è anche cresciuto di positivo nel dopo Concilio (…) Quindi mi sembra che dobbiamo combinare la grande umiltà del Crocifisso, di una Chiesa che è sempre umile e sempre contrastata dai grandi poteri economici, militari ecc., ma dobbiamo imparare insieme con questa umiltà anche il vero trionfalismo della cattolicità che cresce in tutti i secoli. Cresce anche oggi la presenza del Crocifisso risorto, che ha e conserva le sue ferite; è ferito, ma proprio così rinnova il mondo, dà il suo soffio che rinnova anche la Chiesa nonostante tutta la nostra povertà. E direi, in questo insieme di umiltà della Croce e di gioia del Signore risorto, che nel Concilio ci ha dato un grande indicatore di strada, possiamo andare avanti gioiosamente e pieni di speranza”. Una volta – da cardinale – Ratzinger aveva parlato della necessità di una “restaurazione” nella Chiesa del dopo Concilio e un’altra volta dell’opportunità di una qualche “controriforma” liturgica, ma era stato indotto all’uso di quelle parole proibite dagli intervistatori, stavolta invece è da solo che parla di un “vero trionfalismo” da recuperare. E’ bello avere un papa che non ha paura delle parole.