Ho pensato molto a Sergio d’Elia (vedi post precedente) in queste settimane di aggressione nei suoi confronti e sono lieto che la canea inscenata da quanti lo volevano far dimettere sia fallita. Dovremmo interessarci molto di più a chi è in carcere e alle sue possibilità di recupero. Ed esultare ogni volta che uno si riscatta. Anche il gesto di clemenza per i carcerati dovremmo pensarlo come finalizzato soprattutto alla funzione correttiva della pena. Ma più in generale bisognerebbe che sentissimo il mondo carcerario, con i suoi enormi drammi, come parte della società e quegli uomini come fratelli. Si impone sempre più, invece, la tendenza ad allontanare le carceri, anche fisicamente, dalle città. Ho parlato ultimamente con uno che è stato in diversi carceri e che dice: “Il peggiore era quello nuovo poco fuori Ancona, in campagna. Lì non arriva nessun rumore. A San Vittore si sente il tram, all’Ucciardone puoi ascoltare i ragazzi che gridano fuori???. Occorre opporsi al trasferimento delle carceri in campagna. Viene meno il senso della reciproca appartenenza.
Non fuggire dai carcerati
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Ho parlato a lungo della vita nelle carceri con un amico, un giovane frate dell’Ordine della Mercede, che appunto fu fondato proprio per la liberazione degli schiavi e in generale di coloro che sono “in catene”, anche per pena, come i carcerati. Ho capito che il carcere è davvero il luogo “topico” di una città, perchè vi si addensano tanti significati di vita, tanti aspetti (persino belli, perchè nei luoghi più tristi ci sono tanti fatti di redenzione e di Vangelo, come direbbe un certo Accattoli) del dramma dell’esistenza umana. E del resto, basta ripensare alle parole semplici di Papa Roncalli nella visita a Regina Coeli: ho messo il mio cuore accanto al vostro, i miei occhi nei vostri occhi. Il nostro atteggiamento non dovrebbe essere che questo. Ma accanto a tale ordine profetico, lo sappiamo bene, esiste sempre l’ordine della realtà sociale, culturale, umana, in cui siamo immersi. E in tal senso, per le coordinate proprie di questo ordine, e soprattutto per le ragioni della politica, non è possibile purificare del tutto l’immagine di D’Elia e degli altri condannati, soprattutto per reati contro la persona. Il peccato “sociale” resta sempre, in una certa dimensione, e occorre tenerne conto anche e soprattutto per rispetto delle vittime, e ad onore di chi in vita si è sempre condotto con rettitudine e rispetto della legge. Stop alle speculazioni contro D’Elia, quindi. Ma occhio anche agli estremi opposti, a una certa tendenza ad azzerare tutto il passato, a parificarlo con quello altrui. La società del perdono, della riconciliazione e del riscatto è quella per cui noi cristiani siamo impegnati a depositare in silenzio qualche granello di lievito. Ma non è già qui, non l’abbiamo già realizzata. Ci vuole tempo, uno sforzo di approssimazione, e forse questa vita non basta.
Teniamone conto.
Bello l’intervento di Accattoli, bello il commento, sommesso ed equilibrato, di Francesco73.
Come cristiani non possiamo pensare, secondo me, che “il peccato ‘sociale’ resta sempre”. Gesù perdona l’adultera e la restituisce immediatamente alla pubblica dignità: e il suo peccato, per la società del tempo, non era meno infamante ed escludente dell’assassinio.
Naturalmente in D’Elia non c’è (o almeno non risulta, fino a prova contraria) il percorso cristiano del perdono e dell’espiazione. Risulta però il percorso “sociale” della condanna, non lieve, e del carcere. Una volta passato per la porta del carcere, D’Elia ha il diritto di essere valutato per ciò che pensa e fa ora, non per ciò che pensava e ha fatto in passato.
Chiaramente anche la sua mancata (o insufficiente) presa di distanza da quel passato rientra nel novero di ciò di cui egli è oggi chiamato a rispondere. Ma a rispondere (salvo il caso dell’apologia di reato) sul piano politico dell’opportunità e inopportunità, della condivisibilità e non condivisibilità: che è il piano su cui siamo “giudicati” tutti noi, un piano su cui anche D’Elia ha piena legittimità a stare, assumendosi pienamente, come ognuno di noi, le proprie responsabilità, sottoponendosi giorno per giorno al vaglio degli uomini e della storia.