Partecipo all’incredibile avventura di Piergiorgio Welby come fosse uno della mia famiglia. Alla disputa non so prendere parte e mi tengo stretto alle parole di Mina, la piccola grande sposa che l’assiste da sempre: “Per me è una sofferenza infinita sia vederlo soffrire, sia vederlo morire”.
Mi tengo stretto alle parole di Mina Welby
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Ragazzi, ma ci rendiamo conto che su questa tragedia è stato innestato un orrido film?
Provate a guardare gli occhi di Piergiorgio, la sua espressione volitiva, lo sguardo profondo, la sua immobilità piena di significato.
Osservate appunto Mina, la piccola grande sposa che lo assiste.
I suoi capelli grigi, la sua umiltà d’acciaio, quella mano che carezza il marito, a simboleggiare mille e mille gesti di amore, di premura, di dedizione totale, quella sedia vicino al letto da cui gli tiene compagnia, oltre ad accudirlo in tutto.
Pensate alla comunione di quegli sguardi tra persone che si amano, e poi alla comunione che quegli sguardi stabiliscono con noi, a queste scintille di tenerezza, di solidarietà e perciò stesso di speranza, di vita, di riscatto.
Poi fate un salto schizofrenico, e entrate nella discussione cui stiamo assistendo e partecipando, un garbuglio di ricorsi, pareri scientifici, scioperi della fame, tribunali, movimenti politici, sit in, manco fosse un referendum sulla legge elettorale o sul finanziamento ai partiti.
E tutto per mettere fine a quelle scintille, per spegnere quelle espressioni, per far sì che Piergiorgio non soffra più, certo, ma anche per non doverci più sorprendere e commuovere di fronte a un dolore tanto dignitoso e educativo, davanti all’esempio di una sposa tanto tenace, paziente, generosa e innamorata, e ai tanti segni di vita e di futuro che provengono da quel letto di malattia e di sofferenza, potenti – in verità – più di tutti i nostri dubbi, potenti per l’urto che producono nel nostro cuore.
Si dirà che Welby ha diritto di scegliere per sè, che è crudele far vivere una persona così; si dirà che gli stessi familiari non possono essere crocifissi a vita a un’assistenza totale e senza ritorno.
Si dirà tutto questo, certo, e sono cose vere, e io non posso giudicare, davvero non mi sento in grado.
Ma quando si darà la parola ai pietosi strumenti della medicina, quando la “sedazione” e l’assistenza di un medico compiranno il loro ferale ufficio e la morte sarà sopraggiunta come un rimedio, quasi col camice bianco dell’asetticità; quando le ragioni della politica avranno segnato un punto decisivo, e le dichiarazioni ai Tg suoneranno condolenti ma in fondo professionali e disinvolte come per una finanziaria o per un indulto; quando accadrà tutto ciò, insieme all’umiliazione fisica e al dolore lancinante di queste settimane e di questi anni, finiranno anche quegli sguardi, quella potenza d’amore e di significati che i Welby, da quella stanzetta, hanno rappresentato e ci hanno scagliato contro, quasi a prescindere dalla loro stessa intenzione.
E a noi cosa resterà, alla vita – alla vita nostra, ma anche alla vita in sè stessa – cosa rimarrà?
La soddisfazione (o il rammarico) per una “battaglia di pincipio”?
Mah, sono disgustato da questa storia perché da un lato è ovviamente strumentalizzata (quanti sono nelle condizioni di Welby eppure vogliono vivere?), dall’altro mi disgusta ancora di più l’inettitudine di tutti quelli che, dai cattolici agli atei, dai giudici ai radicali, hanno scelto di non scegliere.
In particolare proprio questo, il rinvio “di una settimana” dei giudici romani mi ha schifato.
Amici, penso che nella vita si debba scegliere. E’ la vita, e non possiamo farci niente. E rinviare, mettere la testa sotto la sabbia, scegliere insomma di NON scegliere è di per se stesso una scelta. Più grave ancora di qualsiasi decisione.
Non hanno coraggio ad ammazzarlo con l’eutanasia? Dicano chiaro e forte di NO. Lo vogliono ammazzare con l’eutanasia? Che lo facciano. E se ne assumano, in ambo i casi, le responsabilità.
Invece ci si accapiglia. E nel frattempo Welby affonda.
Non avrei il coraggio di tagliare una vita. Perché, per quanta sofferenza vi sia, sempre di vita si tratta. Il “colpo di grazia” statale, mascherato da “bontà” e interviste a questo o quel prete che ha “staccato la spina” per fare uno sfregio ai preti (sempre loro, fateci caso… a questo siamo arrivati, ai professionisti dell’anticlericalismo che si appoggiano ad un caso di coscienza per fare politica), sono solo pura e semplice ipocrisia.
Ripeto ancora una volta, e lo chiedo a voi tutti, chiunque si senta interpellato: se decidere quando finisce una vita è anche decidere implicitamente quando questa inizia, se è “atto d’umanità” praticare l’eutanasia ai più piccoli sol perché malformati, che differenza c’è tra l’occidente dalle “magnifiche sorti e progressive” e le selezioni che facevano da Mengele?
Sono d’accordo con Francesco e Tonizzo e anch’io provo schifo per l’indegna strumentalizzazione ideologica e politica (i radicali agiscono così da sempre, in totale spregio della verità, ma c’è una Giustizia e ne renderanno conto).
Però nel caso specifico c’è qualcosa che non capisco (ma confesso di non aver approfondito molto l’argomento: per i giornali mi ispiro al principio della ‘modica quantità’). È un principio costituzionale quello per cui nessuno può subire un trattamento sanitario contro la sua volontà. Se Welby, che è in grado di intendere e di volere, dice di non volere il respiratore che lo mantiene in vita, anche se da questa decisione seguirà la sua morte non capisco come, dal punto di vista strettamente giuridico, gli si possa imporre quello che è, a tutti gli effetti, un trattamento sanitario. Se poi chiede di essere sedato, per non sentire o limitare le sofferenze derivanti dal soffocamento, questo trattamento può essere praticato, come cura palliativa, anche se si prevede che da esso possa conseguire una fine più rapida, purché l’intenzione non si quella di uccidere ma di lenire una sofferenza insopportabile. Quello che non si può in alcun modo fare è procurare direttamente e intenzionalmente la morte, neppure se il soggetto lo chiede. Sbaglio?
E’ vero che c’è libertà di cura secondo l’art. 32 della Costituzione, Leonardo: ma ti ricordo che la vita è tutelata dal codice Penale ed è proibita l’assistenza al suicidio. Tenuto presente che va anche contro la deontologia dei medici, che non possono – giuramento di Ippocrate – prescrivere farmaci o terapie che diano la morte al paziente.
Certo, l’assistenza al suicidio è un reato, ma la mia domanda, o se si vuole il mio dubbio era un altro. Se io ho una malattia mortale se non viene curata, io posso rifiutare le cure e nessuno me le può imporre: il caso di Welby non rientra in questa previsione? Se capisco bene, lui senza un trattamento particolare (che non saprei come definire se non terapeutico) muore. Dunque, perché non può rifiutare questo trattamento, esattamente come il malato di una malattia, poniamo, di origine batterica che rifiuta gli antibiotici e muore?
Ovviamente, stiamo sul livello giuridico, lasciando fuori tutto il resto (cioè il più importante): però è sul piano giuridico che la questione viene posta, perché la strumentalizzazione che viene fatta mira a cambiare le leggi. La mia domanda è: perché con le leggi attuali, senza bisogno di cambiare nulla, Welby non può dire che non vuole il respiratore?
Sì che puoi, ma il medico è sempre obbligato a intervenire per salvare la vita. E quindi come vedi è il cane che si morde la coda, un circolo vizioso.
Ricordo che qualche tempo fa si parlò molto di una signora, affetta da cancrena diabetica, che avrebbe dovuto sottoporsi all’amputazione degli arti (o di un arto) per sopravvivere. Lei rifiutò l’operazione, che non le venne fatta, benché l’esito infausto della malattia fosse assolutamente certo, e difatti poco dopo morì.
Penso che la lettera di Magris e la risposta di Romano sul Corriere della Sera di oggi, 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, abbia messo luce sull’aspetto più angosciante e prepotente della vicenda. Finalmente Corriere, era ora.
Benvenuto a “s”! Per chi non ha avuto modo di leggere Magris e Romano, riporto il passaggio chiave del loro ragionamento, proposto da Magris e condiviso da Romano: “Chi vuole morire fa notizia, mentre non fa notizia chi – magari trovandosi in identiche o anche peggiori condizioni – viene volutamente trascurato”. Luigi
Ops, “s” mi fa ermetico. Errata corrige. Stefano, è meglio.
Grazie signor Accattoli (sono un piccolo studente ventenne, mi conceda questo primo approccio) per la citazione. Interessante anche lo spunto odierno del dottor Casale, fondatore dell’Associazione ANTEA per i malati terminali (pag.12) – “Noi medici non dobbiamo staccare la spina, ma evitare che i malati ce lo chiedano aiutandoli a non soffrire. Avrei molto da dire. Si fa presto a parlare di eutanasia”, ripete. E lo sguardo gli si indurisce quando racconta di tutto ciò che non viene fatto nella maggior parte degli ospedali italiani. – saluti a tutti
Più che di eutanasia, parlerei di vero e proprio omicidio. “Bisogna rispettare la libertà del paziente”, si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia; s’incorre così nella “aporia dello schiavo”. Ma mi chiedo: si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita? La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico, credo; suo compito è accostarsi al paziente per alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non essere arbitro della sua vita e della sua morte. Ben chiaro era questo limite ne “Il giuramento di Ippocrate” di Cos (ca. 460-377 a. C.), in cui si leggeva, come giustamente accennava tonizzo: “Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio”. Conviene far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica. La prima è l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più “ovvia” ed economica. Introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica — siamo al secondo prevedibile effetto — si assisterebbe inoltre a una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana. In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico. Vi rendete conto di quale situazione verrebbe a crearsi? Scriveva il Servo di Dio Giovanni Paolo II nell’enciclica “Evangelium vitae” sul valore e l’inviolabilità della vita umana , del 25 marzo 1995, al n. 66: “Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza”. Come non essere d’accordo? E come non pensare all’agonìa di Gesù nell’orto degli ulivi? “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice” (Mt 26,39). Non dovrebbe dire così ogni uomo davanti alla sua croce? “Passi da me…”. Cristo, come vero uomo, ha sentito ripugnanza, paura, orrore, sgomento, di fronte alla sofferenza: “Cominciò a provare tristezza e angoscia” (Mt 26,37) e disse: “Passi da me…”, non venga, non mi raggiunga! Bisogna accettare tutta l’espressione umana, tutta la verità umana di queste parole, per saperle congiungere con quelle di Cristo: “Se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39). Ogni uomo, trovandosi di fronte alla sofferenza, è più debole, non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Cristo, dal canto Suo, dà la risposta, dicendo: “come vuoi tu”. Già, come vuole Dio, con cui Cristo è una persona sola, e non come vogliamo noi uomini.
Scusate per la lunghezza del testo
Gianluca
P. S.: Maria Grazia, se mi leggi, fatti viva, ci mancano i tuoi interventi e la tua preparazione
Gianluca, sono contrario all’eutanasia, e credo lo si capisca da quel che – anch’io un pò lungamente – ho scritto sopra.
In particolare, rilevo i paradossi e le incongruenze anche simboliche della discussione attorno al letto di Welby, e vorrei tanto che ci risvegliassimo (lui per primo, ovvio) da questo brutto film.
Però…però, pur apprezzando molto la tua argomentazione, come pure le parole e l’esempio del mio amatissimo e sempre presente Giovanni Paolo, io credo che come cattolici non siamo ancora riusciti a elaborare una grammatica del dolore salvifico buona anche per chi ha minore o nessuna fede.
Voglio dire: lottiamo giustamente contro le implicazioni egoistiche dell’eutanasia, contro la tentazione che i “sani” hanno di “eliminare” il problema rappresentato dal malato incurabile. Contrastiamo – e mai abbastanza – la funzionalizzazione della vita, e la rimozione di quella invalida e improduttiva. Stigmatizziamo tutti gli allontanamenti dai doveri della solidarietà, dell’assistenza, della cura amorevole.
Ma poi, arrivati al nodo della questione, sappiamo trovare le parole per chiedere a Welby di accettare la sua condizione? Sappiamo essere ragionevolmente persuasivi, anche se lui magari non crede in Gesù, oppure non al Gesù del Getsemani, del supplizio e del grido al Padre?
Sappiamo convincere – e convincerci – che anche la Croce più atroce, il supplizio più disperato, la condanna fisica più inappellabile e permanente vanno accolti, abbracciati e persino amati come Grazia?
Non so, io qui un pò ammutolisco.
Forse non mi aiuta nemmeno un certo ritardo cattolico, talvolta fermo ancora a forme di dolorismo vagamente lugubre e comunque non sempre in gado di declinare nelle forme giuste il rapporto tra sofferenza e redenzione, tra sacrificio e salvezza, tra offerta di sè e riscatto.
scrivo con sofferenza, peerchè racconto dei miei genitori.
mia mamma è molto malata, con la verità della vita si può parlare di croce, e mio papà, ora a 80 anni, da anni porta la croce con mia madre. Ancora oggi, proprio oggi, mentre tutti e due sono a Milano da mio fratello, per fare Natale con il nipotino, e soprattutto percheè mamma si curi al Niguarda, che offre diverse possibilità rispetto a Pantelleria, ho sentito forte il senso della vita, che nella compagnia dell’amore e nella forza sacramamentale dell’amore riesce ad iscrivere dentro la loro relazione parole difficili come malattia, dolore, morte. io non sono bravo come mio papà ad amare la sua sposa, io non sono bravo come mio papà ad essere paziente con i suoi figli (che pensano solo alla soluzione del problema), io non sono libero come mio papà che non ha mai ridotto mia madre alla sua malattia, io spero di essere un prete padre almeno quanto il lembo della nuzialità/paternità di mio padre.
Un abbraccio di padre a don Vito! Luigi
Caro Don Vito, l’abbraccio pure io ma come figlio. Con una preghiera.
Papa Roncalli scrisse di tenersi sempre pronto a vivere e morire. Ma penso che vivere sia sempre un atto di coraggio, costi quel che costi. Quello che ci racconta è una testimonianza davanti alla quale l’unica cosa da fare è ascoltare in silenzio. E reputarsi grati di quello che abbiamo udito.
Nella vita, come penso tutti, ho incrociato varie volte e in diverse forme la sofferenza, la disperazione, la morte. Capisco che ci siano momenti (e per alcuni sono più difficili che per altri) che si vorrebbe “staccare la spina”. Voglio però ricordare la testimonianza del caro papa Giovanni Paolo II. Penso che come cristiani possiamo solo unirci nella preghiera, certi che il buon Dio rimane con noi anche in momenti che, umanamente, sono insopportabili.
Ho trovato sul sito http://www.stranau.it la seguente spiegazione che risolve i dubbi che avevo manifestato sulla vicenda Welby:
«Ricapitoliamo: Piergiorgio Welby – malato di distrofia muscolare – non voleva essere attaccato al respiratore, quando fosse venuta una crisi. L’aveva chiesto a sua moglie, che però, nel momento della crisi non ce l’ha fatta a vederlo morire così, e ha chiesto che fosse attaccato a un ventilatore.
Adesso Welby ne vuole essere staccato. Questo la legge attuale lo permette. Welby chiede che, assieme al distacco del ventilatore, gli sia somministrata una sedazione terminale. Cioè non chiede di essere sedato, e accompagnato alla morte – perchè questo lo può avere, con le attuali leggi – ma chiede una sedazione che lo porti rapidamente alla morte. Chiede di essere ucciso.
E’ questa la richiesta a cui lo stato non può dire si.»
Posta in questi termini la questione è chiara, Quello che si vuole è l’autorizzazione a uccidere su richiesta: non c’entra nulla né l’accanimento terapeutico, né l’eutanasia, né il diritto costituzionale alla libertà di cura (e di non cura). Scusate, ma i giornali e le televisioni continuano a parlare di ‘staccare la spina’ e, come me, probabilmente molti altri italiani non avranno capito bene il nocciolo del problema,a causa del polverone alzato dai radicali e dalla stampa.
Mah… mi permetto di segnalarvi questo pezzo. Qualcuno ora faccia qualcosa perché mi sembra che ci sia una certa vigliaccheria, nell’uno e nell’altro senso.
http://canali.libero.it/affaritaliani/cronache/welbyqyalcuno1512.html
Grazie Leonardo per il chiarimento.
Ho trovato su Avvenire una interessante intervista ad un medico specialista in cure palliative che prova a far luce sulla questione:
http://www.avvenireonline.it/Vita/Articoli/Interviste/20061214.htm.
Mi sembra però che, nel complesso, Avvenire in questi giorni stia trattando il caso con un po’ troppo livore senza mostrare sufficiente compassione e comprensione cristiana.
Ciao a tutti.