“La mamma è ancora con noi e ancora fa la comunione. Non ricorda chi sono io ma ricorda Gesù. E anche in queste condizioni continua a insegnarmi tantissimo”: così un amico incontrato per via mi aggiorna sulla sua battaglia. Le parole che usa mi ricordano un vecchio parroco smemorato ma memore di Dio del quale ho parlato qui nel blog a giugno dello scorso anno.
La mamma non ricorda chi sono io ma ricorda Gesù
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L’insegnamento che si riceve dalle persone con demenza senile o Alzheimer e’ immenso. E’ come se la patologia togliesse loro tutte quelle sovrastrutture che ci creiamo durante l’esistenza per sopravvivere insieme agli altri e donasse loro la facolta’ di pronunciare soltanto verita’ assolute. O, se volete, li fa diventare bambini innocenti. Ogni piccola parola, ogni discorso affaticato, ogni gesto, reca con se esempi di vita semplice e di amore puro. Una mano stretta, un sorriso stanco, un “Amen” pronunciato a fil di voce, danno la cifra della profondita’ dell’essere umano.
E’ difficilissimo per un figlio vedere sparire la memoria di se da chi lo ha generato, ma le sensazioni e i ricordi che restano – come Gesu’ – possono anche dare una speranza e insegnare che pochissimo altro, se non nulla, c’e’ di importante in questo circo che e’ la nostra vita.
Discorso a parte e’ l’insegnamento della accettazione (sopportazione) della sofferenza e della malattia. Ognuna delle persone a cui la patologia ruba il “cervello” e’ portatore – purtroppo senza possibilita’ di condivisione palese – di enorme conoscenza: imparare a comunicare con loro puo’, talvolta, recare grande conforto ad entrambi, il malato e chi lo assiste.
Bellissime le parole del vecchio parroco!…come una conferma di quanto cercavo di spiegare.
Ringrazio Cinzia e invito i visitatori che hanno relazione con persone smemorate a raccontare qualcosa della loro esperienza. Se ne parla abitualmente con spavento. Ma qui abbiamo l’attestazione di tre persone che vi scorgono un segno di luce: io e mio fratello con il vecchio parroco, l’amico del post che riferisce come la sua mamma ricordi Gesù, Cinzia che segnala la somiglianza degli smemorati con i bambini innocenti. Visitatori belli, dite dite.
Don Antonio e Ricordina. “Il Vangelo secondo Antonio” è un testo teatrale che tratta della demenza senile. Dario De Luca – autore, regista e interprete dello spettacolo – così ne parla in un’intervista: “Una volta mi hanno raccontato di un sacerdote di un paesino calabrese [nella finzione teatrale è don Antonio] che aveva iniziato a perdere la memoria. Le persone che gli stavano vicino lo aiutavano anche nelle celebrazioni in chiesa. Un giorno, nella messa di Pasqua, al momento di dare le particole consacrate ai fedeli, iniziò a mangiarle. Ho pensato di incontrare le persone che hanno conosciuto il sacerdote, che ormai non c’era più, come la perpetua e il prete che l’ha sostituito, i parenti e chi lo aveva accudito fino alla morte: persone splendide. Così ho raccolto un po’ di materiale, anche riguardo i “meccanismi” della malattia. Poi l’approfondimento, per l’interpretazione e la scrittura, è avvenuto anche attraverso lo studio di materiali medici, scientifici, storie realmente accadute e pure romanzi. Inoltre ho potuto stare del tempo a stretto a contatto con la mamma di una mia amica, con cui passavo dei pomeriggi e di cui ricordo lo smarrimento negli occhi.
Il personaggio di Ricordina [sorella di don Antonio] rappresenta chi, soprattutto famigliari, si occupa dei malati di Alzheimer. È una malattia di cui ci si vergogna ancora a parlare e così la solitudine colpisce le famiglie. Inoltre, il carico, alla fine, sta su una sola persona: coloro che si prendono cura dei malati raggiungono un amore che è assoluto verso le persone che non li riconoscono più. A loro dedico lo spettacolo.
Ho notato che nei malati di Alzheimer c’è la tendenza a chiamare “mamma” le persone che se ne prendono cura, che li accudiscono. È una cosa strana: è come se ognuno di noi, dentro di sé, sapesse che la persona che se ne prende cura è la mamma. Nonostante la memoria vada via, restano dei punti fermi, come della casse d’amore e non si sbaglia. Allora ho pensato che il mio don Antonio ad un certo punto sentisse di avere un rapporto particolare con il Signore“.
https://eppen.ecodibergamo.it/vangelo-secondo-antonio-desidera-bonate-sopra/
Scena verticale. Una buona presentazione del dramma di don Antonio è nel sito della compagnia teatrale che l’ha proposto, Scena verticale:
https://www.scenaverticale.it/it/press/il-vangelo-secondo-antonio/
“Mamma” e’ come io vengo chiamata dalla mia genitrice.
MA BEN RITROVATA, CINZIA ! ………. e grazie per il bellissimo intervento: quanto sei mancata anche tu a questo vecchio “pianerottolo” !
Buona notte a tutti.
Roberto Caligaris
Da persona che non firma ricevo questo messaggio:
Caro Luigi, vado spesso in un pensionato dove vive da anni una mia sorella più grande che non parla più e riconosce solo me e i due figli ed è già gran cosa, questa: almeno è ancora qui fra noi, e tanto a me basta.
La imbocco, le do l’acqua, e nel frattempo mi pongo domande a cui non avrò risposte.
In quel posto vedo molte altre persone che proprio non ci stanno con la testa, e mi fanno una tenerezza difficile da esprimersi.
Sono anziane e vecchiette che se le attirano le carezze. Spesso parlano seguendo le proprie fantasie ed è impossibile seguirle nei ragionamenti. L’importante però è ascoltarle, far vedere che quel che dicono ci interessa, non si perde nel vuoto. E loro ti sono grate.
Ce n’è una che va in giro con una bambola che per lei è una sua figlioletta, e prima di sedersi a mangiare la adagia per benino su un divano e non la perde mai di vista.
Un’altra, dopo un discorso disarticolato di cui non si capisce nulla, finisce sempre con un segno di croce e con le parole “Gesù, Giuseppe e Maria, siate la salvezza dell’anima mia”.
Un’altra, centenaria, è assillata dalla preoccupazione di perdere la borsetta, e durante il pranzo o la cena si alza per cercarla. Inutile fargliela vedere: l’ossessione non l’abbandona.
Queste persone vanno amate nella loro estrema fragilità. Vedo che quando le accarezzo o le bacio sulla fronte, ricambiano con un sorriso o con un bacio sulle mani.
Una cosa è certa: sono assetate d’affetto.
Non cerco insegnamenti da loro. So che a loro si può arrivare solo sulla via dell’amore. E poi sarà quel che sarà.
Caro Luigi, scusa lo sfogo. Quando esco da lì, che è un altro mondo, ho il cuore stretto e torno a casa rattristata. Per questo, quando sento parlare dei maltrattamenti cui questi poveri cristi vengono sottoposti, in certe case di riposo, mi sento indignata.
Qualche hanno fa, assistetti la mia anziana zia caduta in una demenza senile piuttosto severa: faccenda seria, e tragica. Non riconosceva praticamente nessuno a tratti neppure sé stessa. Perfino la casa dove aveva vissuto la vita intera e avevano visto la luce i suoi tre figli le risultava totalmente estranea e tutti i santi giorni, all’imbrunire, cominciava a smaniare perché, diceva, doveva assolutamente raggiungere Trastevere, dove era nata, e dove mamma e papà l’aspettavano in trepidante attesa. Non mi restava che ingaggiare un’opera di persuasione senza quartiere per convincerla a restare “almeno” per quella notte, rassicurandola del fatto che al sorgere del sole l’avrei di certo accompagnata nella sua “casetta di Trastevere”. La situazione andò avanti per ben tre anni duri e drammatici. Eppure, nonostante lo stato confusionale praticamente irreversibile, non appena metteva piede in Santa Maria Maggiore – presenza giornaliera abitando lei in via Giolitti- iniziava a recitare il Santo Rosario senza mai saltare un solo mistero, tutto in un perfetto latino litanie comprese. Una cosa sconvolgente, da lasciarmi ogni volta a bocca aperta!
Da altra persona che non firma ricevo questo messaggio:
Ogni anno, l’ultima domenica estiva prima di andare in ferie, raggiungo una cittadina vicino alla mia verso l’ora del vespro.
Vi trovo un uomo che cammina per il centro, sempre accompagnato, ma senza sostegno, da una persona.
L’uomo è in buona forma fisica, indossa il clergyman del sacerdote, di sobria eleganza, ordinato e pulito.
Puntuale entra in cattedrale, si siede tra i banchi, in mezzo a un gruppetto di anziani, e avvia il rosario. Qualche volta incespica lungo le decine, allora un vicino gli sussurra qualcosa e lui riprende, spedito.
L’uomo è il vescovo emerito del luogo, e fu mio parroco ed educatore in anni ormai piuttosto lontani, tra l’infanzia e l’adolescenza.
Era un prete dinamico e volitivo, promotore di molte opere e interprete di una chiesa “forte”.
Non aveva nulla di sussiegoso o affettato, si comportava piuttosto da leader della comunità e in qualche modo del quartiere, con la tenacia – anche contrastata – del realizzatore.
In noi ragazzi di quella generazione ha lasciato più di qualcosa, anche se poi le strade di tutti hanno preso il largo, verso direzioni anche distanti.
Credo che le sue caratteristiche e il suo stile li abbia poi conservati anche da vescovo, seppur in un contesto molto diverso e comunque con un’altra età e maturità.
In ogni caso, in veste di capo di diocesi io non l’ho frequentato, salvo qualche incontro fugace e una chiacchierata più lunga, una mattina, verso la fine del suo mandato.
Il parroco di allora, il vescovo di dopo, è oggi un pastore emerito affetto da una malattia neurologica ingravescente, di lunga durata.
E fa davvero impressione vedere una persona fisicamente ancora valida, d’aspetto molto simile a tanto tempo fa (salvo l’incanutimento), che non è più in grado di articolare alcun discorso compiuto, alcun ragionamento autonomo, e che non ricorda o non riconosce la maggior parte delle cose e dei volti.
Fa impressione, per di più, vederlo così in mezzo al suo popolo, che lo ha conosciuto e avuto come autorità tra le altre e che ora lo circonda di qualche premura, ma certo con uno sguardo assai diverso dai giorni della responsabilità e del “potere”.
Io vado a vederlo una volta all’anno, all’ora del rosario, in un’occasione e in un luogo pubblici, in chiesa. E sto lì senza dire nulla, senza annunciarmi, senza presentarmi.
Partecipo alla preghiera e, se possibile, alla fine, gli do un saluto.
Pare che il rosario sia l’unica cosa che ancora “sappia” e riesca a condurre da solo, e anche questo mi appare significativo.
E’capitato che abbiamo scambiato qualche parola (chiamandolo io per nome e dandogli del tu, cosa che mai prima aveva connotato il nostro rapporto: non mi sarei permesso), ma senza spiegargli chi fossi (almeno nelle ultime visite) e senza sollecitare alcun ricordo.
Ho colto, però, che era contento dell’incontro, seppur con uno sguardo che mescolava allegria e imbarazzo, come fosse consapevole delle limitazioni che lo hanno colpito.
Queste piccole trasferte estive “del rosario” mi sono sembrate il modo migliore per onorare il debito con una stagione bella e importante della mia vita.
Per fare a me stesso memoria di qualcosa di decisivo, e poi perchè il mistero del dolore, del dolore che diventa anche umiliante, mi sia di ammonimento nella convulsione distratta della quotidianità che succede a sé stessa.
Tutto è partito, ovviamente, dall’affetto per una persona di cui non avevo altre notizie, se non qualcosa di superficiale tramite vecchie conoscenze comuni.
Ma quei riscontri dati in modo un pò affrettato alla domanda periodica sul “come sta” non mi bastavano, e così ho deciso di andare a verificare direttamente, trasformando poi l’idea in un appuntamento ricorrente, solo mio, molto privato ma anche sinceramente atteso e sentito.
L’ultima volta non l’ho trovato né in strada nè in chiesa, e allora ho chiesto notizie a un prete che era nei paraggi: “Mi scusi, come sta il vescovo emerito?”
Mi ha risposto che fisicamente stava ancora bene, ma non sempre usciva di casa, come prima.
Più che altro, però, si è mostrato stupito (che qui collima quasi con infastidito) che qualcuno andasse a chiederne e domandarne, come se la cosa gli apparisse stravagante.
“Sono passati tanti anni”, ha chiosato impaziente, guardando altrove.