Ieri si inaugurava – con una lectio magistralis del cardinale Walter Kasper – in via della Conciliazione 37 una libreria del Centro editoriale dehoniano. Siamo presenti quattro giornalisti che chiediamo a Kasper un commento sulle critiche a quanto detto dal papa ad Auschwitz e il buon cardinale si sfoga: “C’è chi pone domande e poi controlla le risposte e non ammette che qualcuno si ponga domande sue e non di altri. Il papa non ha fatto un discorso da politico, che deve rispondere all’attesa dei più. Ha posto le domande più profonde, quella sul silenzio di Dio innanzitutto, che è la domanda di molti ebrei e su questa si è fermato. Il suo discorso è stato di altissimo livello, straordinario”. E ancora: “Un papa tedesco che va ad Auschwitz compie un cammino molto molto difficile. Sono tedesco anch’io e questo penso di poterlo dire! Chi ha visto il suo volto in quel momento capisce che cosa io voglia dire. Fare un discorso in quel luogo per lui era difficile e certamente avrebbe preferito restare in silenzio, ma non poteva tacere. Perciò è essenziale ciò che ha detto, non ciò che non ha detto”. Voglio aggiungere che anche a me sembra curiosa questa attesa al varco del papa che parla: dice pensieri profondi, drammatici, mostra di interrogarsi in profondo, riconosce che non tutto si riesce a intendere di quel mistero del male; ma tra chi legge si scatena una gara a chi trova più obiezioni. A parte la questione delle responsabilità tedesche – un “gruppo di criminali” che “usa e abusa” del popolo, ai suoi fini “di distruzione e di dominio” – tutte le altre obiezioni mi sono sembrate piccine. “Non ha detto Shoah, non ha nominato Hitler e il nazismo, non ha ricordato i sei milioni di ebrei che furono sterminati, non ha nominato l’antisemitismo”. Nella bozza del testo non c’era “Shoah”, parola che poi il papa ha pronunciato due volte, come a dire che questo non era un problema. Ma c’era il concetto, tanto che uno degli inserimenti il papa l’ha fatto a modo di sinonimo: “Con la distruzione di Israele, con la Shoah”. Se c’è il concetto che importanza ha la parola? Lo stesso vale per gli altri casi e per i milioni di ebrei. E’ necessario dire sempre tutto? Si può ragionevolmente temere che Ratzinger voglia abbellire Hitler, o voglia proteggere l’antisemitismo? A che pensa quando implora Dio che “non permetta mai più una simile cosa”? Anche l’accusa d’aver taciuto sulle responsabilità della Chiesa in materia di antigiudaismo mi sembra fuori luogo: non ha senso pretendere dal papa che visita Auschwitz un riepilogo dell’elaborazione svolta dalla Chiesa cattolica sulla questione ebraica negli ultimi cinquant’anni. Dice ciò che gli preme in quanto papa tedesco e successore di un papa polacco, ed è tanto e dovrebbe bastare. Forse sarebbe stato meglio se non fosse entrato nella questione disputata delle responsabilità del popolo tedesco e dei suoi governanti. Ma io penso si debba rispettare la coscienza e il sentimento di uno che appartiene a quel popolo, almeno nel giorno in cui compie una così dolorosa confessione. – Suggerisco due letture a chi è interessato ad approfondire l’idea che l’uomo Ratzinger si è fatto del nazismo, in oltre sessant’anni di dolorosa riflessione: L’Europa in guerra e dopo la guerra (pp. 75-80 del volume J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, San Paolo 2004), i primi cinque capitoli – in particolare quello intitolato Servizio militare e prigionia – del volume La mia vita. Autobiografia, San Paolo 1997. Vi appare chiaro che non si può attribuire al professore e cardinale Ratzinger un’intenzione banalmente assolutoria del proprio popolo.