20 gennaio 2009
Qual è stato il primo articolo del vaticanista Accattoli?
Era intitolato “Si può essere cattolici e marxisti” e faceva inchiesta tra le “comunità cristiane di base” che a Roma avevano come punto di riferimento Giovanni Franzoni, ancora abate di San Paolo, il 14 gennaio 1976, sul primo numero del quotidiano “La Repubblica”. Il secondo – il giorno dopo – riguardava un’istruzione vaticana sulla sessualità, il terzo la posizione della Santa Sede sullo Stato di Israele, il quarto due missionari italiani cacciati dalle Filippine di Marcos con l’accusa di essere comunisti. Tutti i miti vecchi e nuovi dell’informazione religiosa, com’era intesa da Eugenio Scalfari, mi caddero addosso – a pioggia – nel giro di una settimana.
Quando passasti al “Corriere della Sera” ci fu più calma?
Andò meglio: era il 1° ottobre del 1981 e Alberto Cavallari volle un approfondimento dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Laborem exercens” appena pubblicata.
Quale il Papa che ti ha affascinato di più?
Nell’insieme della mia vita è Giovanni XXIII: lo vidi con i flabelli in San Pietro durante una gita della scuola e partecipai a diciannove anni alla sua morte che parve avere un significato per tutti. Da giornalista, Giovanni Paolo II: e anche in questo caso fu la partecipazione del mondo alla sua morte a dare l’ultimo suggello all’immagine che me ne è restata.
Quale il Cardinale o il Vescovo che ti ha impressionato di più?
L’arcivescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero, conosciuto a Puebla – in Messico – nel febbraio del 1979, un anno e un mese prima che venisse ucciso sull’altare per le accuse al regime che gli avevo sentito elencare in conferenza stampa.
Come è cambiata la Chiesa rispetto a quando hai iniziato il lavoro di vaticanista?
Posso azzardarmi soltanto a dire un’impressione da giornalista, su come è cambiata la percezione della Chiesa da parte dei media, senza pretesa di cogliere il cambiamento oggettivo. Da quest’angolino il cambiamento è stato sorprendente, in trentatré anni, rispetto alle mie aspettative: è cresciuta l’attenzione per la figura del papa ed è diminuita quella per il vissuto cristiano, per le Chiese locali, per l’ecumenismo.
Ti va di raccontare un aneddoto personale per ogni Papa di cui ti sei occupato?
Paolo VI l’ho visto da vicino una sola volta, prima di fare il giornalista, per un’incontro nella Biblioteca privata con la presidenza della FUCI di cui facevo parte. Mi affascinava lo sforzo di comunicazione che faceva, cercando le parole, muovendo le mani. A Giovanni Paolo I potei mostrare – durante il ricevimento dei giornalisti nell’Aula delle Benedizioni, pochi giorni dopo l’elezione – una vignetta di Forattini, apparsa quel giorno sulla “Repubblica”, dov’era ritratto, tiara in testa, che rideva di sé davanti allo specchio. Si fermò a guardare e rise per un momento: aveva appena fatto annunciare che non avrebbe preso la tiara e la vignetta interpretava simpaticamente quella decisione. Giovanni Paolo II una volta – dopo la messa nell’appartamento privato – prese in braccio una dei miei figli, che aveva due anni e giocò con lei. Con Benedetto XVI ho già parlato due volte del mio pensionamento: “Se ne va così giovane”, mi ha detto la prima volta.
Quale è stato il viaggio papale che ti ha colpito di più?
Il primo di Giovanni Paolo II in Polonia nel giugno del 1979: sentivi il papa in presa diretta con la storia, giorno dopo giorno. Una sensazione che ho riprovato con lo stesso papa nelle Filippine e in Brasile, a Sarajevo e a Beirut e a Cuba, a Gerusalemme e a Damasco. Mai però così forte come in quella primavera polacca, tra Varsavia, Gniezno, Czestochowa e Cracovia.
Nella Chiesa, negli anni, si è davvero sviluppata una frattura tra progressisti e conservatori?
C’era e c’è ancora, forse agli stessi livelli. I Papi hanno cercato di attenuarla e in parte ci sono riusciti, almeno nelle manifestazioni più dirompenti, che erano più accese di oggi negli anni immediatamente seguenti al Concilio. Ma oggi penso che i rimedi tattici per attenuare i contrasti, evitando per esempio che vengano affrontare le questioni disputate, non siano sempre paganti. Il conflitto può essere positivo.
Ritieni che ogni Papa di cui hai scritto sia stato il Papa giusto per la propria epoca?
Sono stati tutti dei grandi. Tutti disinteressati. Testimoni della fede. Di ciò mi accontento. Ma non so dire se non ci fossero altre possibilità, magari più rispondenti all’urgenza di qualche decisione. Per esempio nel turbine dell’Ottocento ci fu un ritardo nel prendere atto della nuova collocazione della Santa Sede dopo la fine del potere temporale. Potrebbe essere che oggi vi sia un’analoga difficoltà – che chiamerei epocale, non riferita al singolo Papa – a elaborare una nuova cultura sessuale. O meglio, a similitudine dell’Ottocento: un’eccessiva lentezza nel prendere atto del nuovo contesto in cui viene a cadere la predicazione della Chiesa per quanto riguarda la vita affettiva e familiare. Lo dico da padre più che da giornalista.
Chi è stato il tuo maestro?
Ho studiato a lungo – sui testi – la figura di Silvio Negro, che non ho mai incontrato e che fu vaticanista del “Corriere della Sera” dal 1931 al 1959: per 28 anni, mentre io mi sono fermato a 27. In uno studio che gli ho dedicato l’ho descritto come “iniziatore del vaticanismo contemporaneo”. Ma la formazione avviene sul campo, in dialettica con i direttori e io ho avuto la fortuna di lavorare con Eugenio Scalfari, Alberto Cavallari, Piero Ostellino, Ugo Stille, Paolo Mieli, Ferruccio De Bortoli, Stefano Folli e infine di nuovo Paolo Mieli. E’ lì che si impara e non si finisce mai di imparare.
Qual è il primo dovere di un vaticanista?
Nei media commerciali è quello di resistere creativamente agli schemi interpretativi della cultura laica. Nei media cattolici immagino che la stessa resistenza – che vale solo se è creativa, cioè propositiva – vada esercitata nei confronti dell’autorità ecclesiastica e dei suoi comunicati.
Che cosa consigli a chi vuole intraprendere questa professione?
Studiare la storia del cristianesimo in epoca moderna, a partire da quando Napoleone tira i Papi fuori dal Vaticano e li costringe ad affrontare il mondo. Ma senza limitarsi alla storia del Papato. Cercare anche le vicende delle Chiese non cattoliche e porre attenzione ai cristiani senza Chiesa.
Come consideri la nascita di tanti siti, blog e quotidiani internet dedicati al Papa e alla Chiesa?
E’ un bel segno di vitalità. Ma la tendenza a concentrarsi sul Papa mi stupisce. Devo prendere atto, dopo tanti anni, che mediamente il mondo in cui mi sono trovato a operare considera i Papi più importanti di quanto non li ritenga io, che pure ho dedicato a loro almeno metà delle mie energie professionali.
Il collega a cui sei più affezionato?
In assoluto, Domenico Del Rio che non c’è più. Oggi Andrea Tornielli.
La notizia che non avresti mai voluto dare?
L’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. Il segno del sangue sul vescovo di Roma.
Lo scoop più importante?
Sono stato il primo a pubblicare, in Italia, la lettera di Edith Stein a Pio XI inviata nell’aprile del 1933 per chiedergli di parlare in difesa degli ebrei di fronte all’iniziale persecuzione hitleriana. Non sono uomo dai riflessi rapidi e generalmente i colleghi mi battono sul traguardo ma quella lettera era restata nascosta nell’Archivio Segreto Vaticano per 70 anni e io ero là ad attenderla quando – nel 2003 – fu aperta la sezione dedicata al Pontificato di Papa Ratti. Avevo avuto tutto il tempo per prepararmi!