“L’elicottero del Santo Padre decolla sempre per primo e atterra per ultimo”: sta scritto nel “programma di lavoro dei gioirnalisti ammessi al volo papale”. Una tempistica che avrà bene un significato, anche se a prima vista appare come un rovesciamento del protocollo vaticano che si applica a ogni appuntamento: “Il papa arriva per ultimo ed esce per primo”. Sono su un quarto elicottero dei marines – dopo i tre del papa e del seguito – che porta quindici giornalisti invidiati dai colleghi perchè saranno gli unici che raggiungeranno la sede dell’Onu – partendo dall’aeroporto J. F. Kennedy – senza perdere il contatto con Benedetto. Bello il volo a farfalla su Manhattan, a tu per tu con i grattacieli, sopra le navi e a lato della voragine dov’erano le due torri. Mi sono divertito e commosso come un bambino. Se non facevo questo mestiere, mai avrei avuto questo regalo. Ed eccomi infine nella tribuna dell’Assemblea generale: neanche qui sarei arrivato. Il giornalismo mi fa vivere al di sopra delle mie possibilità.
In elicottero sopra Manhattan
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Dev’esserci un senso in quello che unisce le storie di tanti uomini, caro Luigi. Il tentativo di dire “beato te” è legittimamente forte e mostra che cosa voglia dire essere giornalisti. Abbiamo il privilegio di vedere le cose da angolazioni che non sono concesse ad altri e per questo il dovere di raccontarlo. Anche di dire “mi sento come un bambino” mentre si vola sopra la Grande Mela. Perché la prima regola è di non far trasparire mai i propri sentimenti, ma poter dire come ci si senta nel vivere queste storie (il cui intreccio crea la Storia, quella che ormai viene dimenticata) aggiunge un tocco di umano che va oltre il servizio reso.
Ma dicevo delle storie. Mio bisnonno Pietro nel 1912 camminava tra quelle navi e quelle strade come uno dei tanti emigranti siciliani sbarcati in cerca di fortuna. A 45 anni non conosceva l’inglese e per impararlo ricorreva al metodo più banale: si avvicinava ai frutti in esposizione e diceva chistu “questo” in siciliano. Imparò piano piano che “apple” era la mela, “wheelbar” la carriola e quant’altro. Il Grande libro della vita, che ha aggiunto tante pagine dopo Babele, gli insegnava da solo a imparare quella lingua strana e sconosciuta. “Del resto – dice un altro emigrante in un racconto di Sciascia – l’americano è scritto diverso da come si parla”, ci sarà un motivo. Come c’è un motivo in tutti i simboli e i gesti compiuti dal Papa in questa visita americana. Un po’ emigrante anche lui, affascinato dall’America eppure con un linguaggio millenario da insegnare a una società che lo ha smarrito e gli si avvicina dicendo chistu per capire il senso della fede che testimonia. Abbiamo bisogno di capire e imparare, caro Luigi, sentendoci “come bambini”. E’ anche questo che spinge alla speranza.
Questa mattina su radio 3 alle 7.30 il suo collega Folli nell’ambito della rassegna stampa ha letto il suo articolo, è stato un buon risveglio.
Mi chiedevo se avesse (già che è lì) visitato il newseum, il museo da poco inaugurato, dedicato al girnalismo, ai giornalisti di tutto il mondo e di tutti i tempi.
A presto e buona domenica a tutti.
X Tonizzo
C’è una canzone di GLF (Giovanni Lindo Ferretti) intitolata proprio “come bambino” il cui ritornello suona così: ” Sto sdraiato sui campi, nelle ore più belle, a pancia in su o in giù a rimirar le stelle….” se la trovo ve la posto.
Ecco qua:
Come bambino credo la verità del cuore
come bambino godo soffro l’amore
tendo la fionda ai lampioni che s’oppongono alla luna
miro i prepotenti ei coglioni
tiro alle ombre che intralciano la fortuna
come bambino vedo la politica un gioco da poco
si gioca per amore, obbligato
da tenere sotto controllo come il fuoco
sto sdraiato nei campi nelle ore più belle
a pancia in su o giù a rimirar le stelle
mi commuovono i vecchi, muove qualcosa dentro
cammino volentieri contromano e controvento
tengo le mani in tasca, gli occhi bassi
scatto alla meraviglia, i passi che seguono i passi
come bambino mi piace costruire studiare lavorare
un giorno dopo l’altro ho molto da imparare
come bambino non come giovanotto che
gioca i giochini, passa il suo tempo a spasso, spera nel lotto
come bambino so sentirmi offeso, ma
tiro avanti senza dargli peso
non sempre so dire chi, perchè
ma cosa pretendere da un bimbo come me?
miro ai lampioni che s’oppongono alla luna
miro i prepotenti miro i coglioni
miro l’ ombra che intralcia la fortuna
sto sdraiato nei campi nelle ore più belle
a pancia in su o giù a rimirar le stelle
Complimenti a Marta Paola per questo bellissimo testo.
Ecco, credo dott. Luigi che se lei non avesse fatto questo mestiere sicuramente sarebbe stato un poeta o qualcosa di simile. La vedo come un malinconico cantore d’altri tempi che se ne sta ” sdraiato nei campi nelle ore più belle a pancia in su o giù a rimirar le stelle”.
Rintraccio nelle sue riflessioni una autentica religiosità. Una religiosità vissuta all’interno di un lavoro che ama,e che la porta ad osservare con occhio attento le differenti sfumature che credenti di altre parti del mondo, lontani dalla Chiesa di Roma, vivono la loro cattolicità, cosa pensano riguardo a determinati argomenti, gli stessi che tutti noi ci poniamo in questo blog e sui quali ci confrontiamo con calorosa partecipazione talvolta.
Nella bella descrizione del volo su Manaattham, e della liturgia che scandisce ogni movimento quando si è al seguito dei Pontefici, arriva forte la sua libertà interiore, svincolata da giochi di potere,e la cui unica preoccupazione è il farsi interprete degli eventi, unici e irripetibili da consegnare fedelmente alla storia! Librarsi in quel cielo, sopra il mondo e le miserie del mondo ci lascia in questo post la sua personale preghiera di cristiano maturo, responsabile davanti a Dio e agli uomini su ciò in cui crede.
Buon proseguimento dott. Luigi. siamo tutti con lei.A presto!
Clodine
Dedicato a chi si appassiona alla architettura e arte sacra:
Il Papa a Washington ha celebrato nel Tempio Nazionale della Immacolata Concezione, in cui c’è la bellissima … collezione di tutte le “Madonne” venerate nei paesi di provenienza degli immigrati, e vi invito a dare un occhiata:
http://www.nationalshrine.com/site/pp.asp?c=etITK6OTG&b=107985&
Ma, se lo stile non è il massimo, quello che veramente è riuscito male è il Cristo, biondo e cattivissimo:
http://www.nationalshrine.com/site/apps/nl/content2.asp?c=etITK6OTG&b=309285&ct=166455
Dopo la visita che facemmo mia moglie ed io una 15ina di anni fa, l’abbiamo soprannominato (iconoclasticamente ma familiarmente) il tempio di Thor…
Forse ha funzionato il senso di colpa, superegoicamente indotto dal dogmatismo contemporaneo, di aver fatto una “copia” e non un “originale”, un “neo-stile” e non uno stile nuovo. Come se dovesse stare eternamente rimosso il fatto che ogni immagine manufatta è somiglianza dell’Acheropita.
Eppur qualcosa si muove: http://www.effedieffe.com/content/view/2788/173/
Che bello volare su Manhattan, mi viene in mente il grande Domenico Modugno con il suo “nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù”….. Deve proprio rendere felici VOLARE….
Buona Domenica a tutti….GESU’, VIA, VERITA’ E VITA CI GUIDI SEMPRE.
Un abbraccio,
F.
Clodine grazie grazie!
“sto sdraiato su i campi”…. in Umbria (dialettalmente parlando) spesso si usa “sul” piuttosto che “nel”…. mi scuso.. ma amo profondamente le mie radici che emergono prepotentemente in stato di bassa vigilanza e scombussolamento emotivo… (Ferretti è di nuovo in ospedale).
Serena domenica.
Mp
Caro Canelli, ho guardato i siti, grazie . Premesso che non parola una parola d’inglese, premesso che non ho mai visto personalmente la basilica dell’Immacolata Conception, vista da lungi, per quanto difficile un commento, si possono tuttavia tracciare delle tiepide considerazioni, mie personali ovviamente e opinabili. La prima cosa che stupisce, a mio avviso, è la scelta di uno stile architettonico distante anni luce dal loro stile, caratterizzato da svettanti e strepitosi archi rampanti, guglie e pinnacoli che si ergono maestose, volte a crociera di perfetta simmetria: il gotico, che eleva l’anima al di sopra delle umane tragedie.
Noi italiani non siamo mai stati granché bravi in questo stile ardito. Abbiamo qualche esempio -il duomo di Milano (molto discutibile)qualche abbazia cistercensi di stampo francese, più tardi S.Croce,SMaria del Fiore san Petronio a Bolgna, o S. M. sopra Minerva a Roma (ma tutte molto approssimative ) niente di paragonabile al vero gotico di stampo anglosassone.
Nella fattispecie, lasciatemi dire, non credo sia stata una buona idea cimentarsi in questo neo-romanico bizantino,riprodotto in maniera assai bizzarra, a mio avviso. Per cui, non riproduce fedelmente il romanico, ne’ altrettanto fedelmente l’iconografia bizantina. Provo a spiegarmi : il romanico –che precede il gotico- possiede un suo linguaggio preciso. Sono basiliche massicce, spoglie esteriormente, pesanti,un po’ come il nostro corpo e , in ultima istanza,il corpo stesso della chiesa, gravida di pesantezza e di peccato.
Ma non appena si entra il contrasto evidente riempie l’animo di stupore: lo sguardo si perde in un vuoto sconfinato, fatto di leggerezza, la cui penombra viene rotta dalle finestre poste in alto quasi a ridosso delle cupole che sembrano schiacciate verso il basso, e un rosone, al centro della faccita lascia passare il raggio che colpisce la vista e l’altare. Le immagini , tipiche dell’iconografia bizantina sono fisse, immobili, ieratiche, staccate dalle passioni del mondo, al di sopra delle umane vergogne, frutto di ascesi, di una visione del mondo totalmente lontana dalla nostra.
Non troviamo nulla di tutto questo nella basilica dell’Immacolata Conception, né all’esterno – la cui pesantezza è abbastanza alleggerita dalla facciata inarcata, scavata- e neppure all’interno. Quel Cristo dall’aspetto accigliato, arrabbiato, sembra volersi abbattere con violenza sull’intera umanità. le braccia allargate sembrano abbracciare il mondo intero, che è in suo potere grazie a quelle mani piagate.
Sicché non è ne il cristo del “Giudizio della Sistina (possente, il quale con una mano abbatte e con l’altra innalza) nè il Cristo bizzantino, ieratico, distante dalla storia…
Non mi convince..
correggo refuso :” nè il Cristo bizantino..”
ripeto: non mi convince..ma è un parere del tutto personale e opinabile..ovviamente.
sul romanico c’è da aggiungere che una cosa che pensavo di aver scritto e inviece mi era sfuggita:” la pesantezza architetonica esterna, in netto contrasto con il vuoto esterno, ha un preciso significato teologico: la differenza tra la corpo-pesante, greve, incapace di leggerezza e di elevazione- e l’interno che rappresenta l’anima, la coscienza, l’interiorità che necessita di vuoto, di silenzio e imperturbabilità affinché vi possa dimorare lo Spirito santo …
scuse per questo nuovo intervento…fuggo..
Approfitto per abbracciare il dott. Luigi, che domani rientrerà da questa grande meravigliosa avventura..
Ma rimane in qurella chiesa la commovente bellixìssima cosa di tutte queste genti da tante parti del mondo che posrtavano con sè il loro modo di pregare Maria: da Czestochowa a Guadalupe, da Lourdes a Fatima, tutte insieme.
Sicuramente Canelli, immagino la grande folla che vi si reca da ogni parte del mondo ad onorare la Madre dell’Amore. Un amore incredibile e visibile, da qualsiasi parte sorga una basilica in Suo onore ci saranno fedeli che si raccolgono in preghiera. Ho ancora impressa quella di Nazareth, un vero orrore dal punto di vista architettonico, ma non importa: aspetto esteriore è del tutto ininfluente quando si tratta di accostarsi con spirito devozionale alla Madre di Dio…
Quanto è bello leggere questi appunti di viaggio. Mi chiedo, senza invidia, se un giorno sarà così anche per noi… mi accontenterei di molto meno.
Grazie per aver condiviso con noi anche questa esperienza straordinaria.
(Per Marta Paola: Avrebbe qualche notizia in più FLG? Grazie in anticipo)
Eccomi qua! Per ora Le mando questa intervista fatta da Longo del 2005.
A giorni ne verrà pubblicata una nuova.
Patrizio LONGO: Come ti sei ritrovato all’interno del progetto teatral-musicale “Craj” con Teresa de Sio? (Il termine in dialetto pugliese significa “Domani”, e la storia racconta il viaggio del Principe Floridippo – Giovanni Lindo Ferretti – e del suo servo Bimbascione – Teresa De Sio – attraverso la Puglia. Il regista Davide Marengo ne ha realizzato un film, vincitore del Premio Miccichè al Festival di Venezia 2005. NdT)
Giovanni Lindo Ferretti: Come la maggior parte delle cose, perlomeno nella mia storia, è capitata senza che io la andassi a cercare. Stavo lavorando in teatro con Barberio Corsetti, e Teresa de Sio è arrivata con un’idea meravigliosa. Io non avevo molto tempo, ma quando ho ascoltato il progetto ho deciso che nel poco tempo libero mi sarei dedicato a quello, perché era veramente interessante. Naturalmente la lavorazione è durata molto più del previsto e dalle tre settimane preventivate inizialmente è diventato un anno di spettacoli, e poi un film. Devo dire che la forza motrice di tutto questo progetto è stata Teresa, io sono stato semplicemente “accalappiato” e mi sono trovato a mio agio perché da alcuni anni ormai lavoro all’interno della dimensione della musica tradizionale popolare. Non ho meriti per quel che riguarda la progettazione e la storia…
Patrizio LONGO: Un salto indietro: dall’incontro tra te e Massimo Zamboni nel 1982 sono nati i CCCP, progetto in italiano che prendeva ispirazione dalla new wave tedesca e dal punk espressionista e che continua a fare scuola per tanti gruppi come ad esempio Marlene Kuntz, Afterhours…
Giovanni Lindo Ferretti: Il progetto è nato nella Berlino ancora attraversata dal muro, dove si esprimevano valori non solo musicali molto potenti, e poi si è trasferito a Reggio Emilia, la nostra città, dove però non avevamo mai avuto occasione di incontrarci. Questa esperienza si protrae ormai da più 20 anni, per quanto sotto diverse spoglie…
Patrizio LONGO: 1997, la band, che ha ormai stabilmente al suo interno anche Ginevra Di Marco e Francesco Magnelli, parte insieme per l’oriente e torna con un progetto discografico “Tabula Rasa Elettrificata”. L’album “Codex” ne sarà il proseguimento?
Giovanni Lindo Ferretti: Per quel che mi riguarda sì, anche se in realtà “Tabula Rasa Elettrificata” è stato un progetto collettivo, mentre “Codex” avrebbe dovuto essere un progetto di riflessione giocato tra me e Massimo, che poi si è trasformato, ahinoi, nella nostra separazione… Io comunque, da che ho cominciato, con il primo disco dei CCCP, ad oggi, “campo” di parole, la mia esistenza è tutta giocata sulle parole e quindi le parole di ogni disco mi appartengono, anche quando poi fanno i conti con la collettività del gruppo che le trasforma in canzoni…dal mio punto di vista, appunto quello delle parole, la riflessione è unica ed è molto legata alla mia vita, da “Ortodossia” sino all’ultimo disco che sto facendo con i P.G.R. (Per Grazia Ricevuta).
Patrizio LONGO: Credi ancora “nella salvezza dell’universo sociale e politico, matrilineare”, come declamavi in “Tabula Rasa Elettrificata”?
Giovanni Lindo Ferretti: Il tempo, come credo sia giusto, ha trasformato molte delle mie convinzioni per quello che riguarda la dimensione sociale e la dimensione politica. Non credo nella salvezza sociale e politica, credo nella matrilinearità, perché, ahimè o per fortuna, sapere chi è la propria madre è l’unica cosa sicura che posseggono gli uomini sulla terra.
Patrizio LONGO: CCCP e CSI sono stati l’emblema delle controcultura?
Giovanni Lindo Ferretti: Beh, è un po’ un cliché… e come tutti i cliché contiene una parte di verità ed una parte che è una forzatura. I giudizi sull’operare li danno gli altri più che i diretti interessati, io mi sento “partecipe dell’Esperienza dell’Esistere umano”. Nei decenni che si susseguono nella vita si pensano e si fanno cose diverse… la parola “controcultura” mi lascia con l’amaro in bocca, vista l’esperienza dei miei ormai 50 anni.
Patrizio LONGO: In passato hai affermato di volerti rifugiare in Mongolia….
Giovanni Lindo Ferretti: La mongolia continua a rimanere per me uno dei paradisi sulla Terra, a causa delle sue condizioni storiche e geografiche. Io ho bisogno di grandi spazi e di molti animali perché la mia vita sia serena ed io possa essere felice sulla Terra, e da questo punto di vista la Mongolia è davvero un paradiso terrestre. Mi accontento di essere tornato a casa mia in montagna, sull’appennino, ma se dovessi pensare ad un luogo assoluto dove mi piacerebbe finire la mia vita, le cose che penso tendono alle steppe, ai luoghi desolati, ad un deserto, di certo non ad una grande città.
Patrizio LONGO: Jodorowsky “Vangeli Per Guarire”, “Fiori Rossi del Tibet”, cosa ti fanno venire in mente?
Giovanni Lindo Ferretti: Il libro di Jodorowsky è stato per me una sorpresa incredibile. Io nel tempo avevo accumulato una serie di pregiudizi nei suoi confronti e dal tempo della “Montagna Sacra” non lo seguivo più e non sapevo cosa facesse. Questo libro mi è arrivato in mano regalatomi da Bernocchi, Eraldo, e mi ha lasciato veramente stupito; se penso a quel libro penso anche ad un pezzo della mia guarigione. Se penso a “Fiori Rossi del Tibet”, beh… è una storia complessa: innanzitutto credo sia il primo libro scritto da un tibetano in cinese, il che dimostra, ahimè, che l’indipendenza del Tibet da ogni punto di vista è sempre più un sogno irrealizzabile; io l’ho trovato un libro molto bello, con la capacità di raccontare una storia insieme reale e visionaria e che ti coinvolge nella complessità. Quando i mondi cambiano ci sono sempre ragioni molto forti e c’è sempre un sentimento di tristezza per quello che vai a perdere e che non avrai più.
Patrizio LONGO: Cosa ricordi della tua infanzia?
Giovanni Lindo Ferretti: Ricordo moltissimo. Da quando poi è cominciata, negli ultimi anni, questa riflessione sulle tradizioni musicali, culturali e religiose, la cosa cui più faccio riferimento è la mia infanzia. Io sono nato e cresciuto, fino ai sei anni, all’interno di una dimensione che io definisco “tardo-medievale”, fortemente tradizionale e molto, molto lontana dalla modernità. Ricordo mia nonna, che è colei che mi ha allevato ed è il mio principale “maestro di vita” – adesso che sono diventato vecchio la riconosco come tale; ricordo il piacere della scoperta degli animali, del mondo, dei paesaggi, dei rapporti umani. È un pensiero che mi permetto abbastanza spesso, soprattutto da che ho fatto la pace con quel mondo.
Patrizio LONGO: Qualcosa che vorresti realizzare?
Giovanni Lindo Ferretti: Ci sono tante cose possibili… Io, come ti ho detto all’inizio, non faccio molto uso dello sforzo di volontà per realizzare le cose, preferisco essere molto attento alle cose che si muovono intorno a me. Sono molto più le persone che le cose a fare la differenza. Non c’è una cosa di per sé che io farei, tralasciando o dando poca importanza alle persone con cui questa cosa viene fatta. Ci sono diverse cose, mi piacerebbe costruirmi una dimensione di “piccola scuola”: in parte lo sto già facendo, in parte sto pensando di “complicare” questa esperienza. Però non è tanto uno sforzo di volontà, quanto piuttosto fare tutto il possibile perchè se poi le cose si verificano, abbiano il retroterra che le possano far vivere e le possano vivificare. Ma è un periodo in cui sto bene, sia di salute fisica che psichica, quindi non vivo tanto di sogni, quanto di quotidianità.
Alla prossima.
Quest’articolo è apparso su Liberazione a seguito di una lettera inviata da GLF al Foglio primadel referendum sullaprocreazione assistita è un po’ forte ma tant’è. Buona lettura.
Giovanni Lindo Ferretti. Da Lc a Ratzinger
Giuseppe Caliceti
Liberazione 14 giugno 2005
Prima o poi qualcuno dovrà scrivere qualche tesi di laurea e ricerca approfondita sulle parabole politiche e esistenziali che hanno portato alcuni ex militanti di Lotta Continua a riprogrammarsi in età adulta nei modi più originali e disparati. Comunque quasi sempre “al centro” della vita politica e massmediatica italiana. Alla lunga serie di casi interessanti, si aggiunge l’ultimissima metamorfosi del cantante Giovanni Lindo Ferretti, raccontata la scorsa settimana su Il Foglio: quella che da Lotta Continua porta ai papaboys, dagli ex Cccp Fedeli alla linea ai Prg (Per Grazia Ricevuta) e all’invocazione all’astensionismo al referendum predicato da Ruini e Ratzinger. Ferretti ha sempre avuto una sua forza carismatica sia sopra che sotto il palco, è sempre stato un apprezzabile “bastian contrario” emiliano di razza pura, un maestro indiscusso della provocazione e del marketing artistico e para-avanguardistico. Un vero e proprio situazionista ante-litteram, potremmo dire semplificando al massimo – senza per altro voler mettere in mezzo in alcun modo l’altro fondatore dei Cccp Massimo Zamboni. Perciò, sentendo il guru dichiarare a modo suo la scelta di non andare a votare per rimanere beatamente sull’Appennino a contemplare i propri cavalli, chi lo segue e lo conosce appena un poco, non è rimasto troppo stupito. Voglio dire: è un cantante, non è la prima volta che alza un po’ il tono. Basta pensare alle sue posizioni a favore della guerra nella ex-Jugoslavia o in Iraq. Quello che lascia perplessi è il suo ritratto di chi invece è andato a votare: «Sono così eccitati e moderni e benpensanti. E noi (gli astensionisti) così dimessi e un po’ bacchettoni, un po’ sfigati e tanto, tanto oscurantisti. Loro godono e noi peniamo». Loro godono? Di che? Voi penate? Perché? Ferretti si diverte con le parole: «Vuoi mettere l’oscuro, profondo, umido e spaventosamente irrazionale di una figa contro lo smagliante palcoscenico di un laboratorio scientifico, l’abbaglio dei neon e la perfetta precisione di un bisturi affilato in asettico brodo: vero desiderio. Mica quel residuo arcaico di un cazzo turgido, arraffone, impreciso e grossolano, si spera, comunque, grezzo». E chiosa: «Tra la superstizione religiosa, quella politica e quella scientifica, è quest’ultima, adesso, la più folle, la più pericolosa». Insomma, da una parte lo splendore della Natura Grezza Animale Genitale e dall’altra la Chincaglieria Scientifica Cialtrona Merdosa: diciamo la verità, neppure il grande poeta Antonio Delfini che voleva portare il surrealismo a Modena, (quello che scrisse «Diamo fuoco al piano padano», come cantarono poi i Cccp), quello che scrisse un “Manifesto per il Partito Conservatore e Contadino Comunista”, sarebbe potuto arrivare a tanto! Ferretti lo sfida in una gara di immaginifica lirica visionaria: «Dall’alto vi penserò affollare, laggiù nel plumbeo violaceo livido delle piane, i seggi elettorali dei vostri esangui, sterili, politicamente corretti, desideri». Scorretto o corretto di fronte a chi, Giovanni? Ecco, questo mi pare il punto. Siamo in una democrazia, seppure imperfetta. Ognuno è libero di votare ciò che crede meglio o di non votare, per carità. Ma appare perlomeno strano atteggiarsi ancora una volta (basta!) da “politicamente scorretto” abbracciando in toto le tesi della Cei («Sono assolutamente d’accordo con la Cei») e di alcune delle cariche più importanti dello Stato e dell’attuale Governo italiano. Tanto che, nell’ottica di un ex Lotta Continua come un Giovanni Lindo Ferretti o di un altro “compagno” come Giuliano Ferrara, parrebbe che oggi, paradossalmente, questi ex lottatori sinistri conservino l’orgoglio di essere “politicamente scorretti” – soprattutto rispetto a una cultura di estrema Sinistra da cui provengono, immagino prendendo posizioni filo-Cei, filo-Governative. Meglio se un po’ oltranziste e ieratiche. Allora faccio i miei complimenti a Ferretti perché ancora non si è sentito irrimediabilmente attratto dal fascino “carismatico” e “comunicativo” – specie se come presidente del Consiglio sei il proprietario quasi unico di un sistema informativo nazionale e cavalchi con assoluta noncuranza il tuo conflitto di interessi – di Un Unto dal Signore Made in Italy come Silvio Berlusconi.
Cerreto Alpi è un borgo di poche case arrampicato su un crinale dell’Appennino, nel punto esatto in cui convergono Toscana, Emilia e Liguria. A pochi chilometri da qui, sulla statale che porta a La Spezia, c’è il passo del Cerreto, uno dei percorsi preferiti dalle decine di ciclisti che incontriamo sulla strada. Da queste parti, è un susseguirsi di strade intitolate alla Liberazione, alla Resistenza, a qualche martire partigiano; ogni frazione ha i suoi santi pagani. Siamo ancora in provincia di Reggio, ma il dialetto degli abitanti tradisce inflessioni e risonanze meticcie.
L’ultima indicazione ce la dà un vecchio del bar del paese che, soccorrendo il silenzio stralunato della ragazza del bancone, ci dice: “Cercate Ferretti, il cantante? In fondo a destra”.
Giovanni Lindo Ferretti, 51 anni, cantante, scrittore, promotore culturale, allevatore, ex operatore psichiatrico, un passato di militante in Lotta continua, è la voce storica del punk filosovietico dei Cccp prima, dei Csi (Consorzio suonatori indipendenti) poi, e ora dei Pgr (Per grazia ricevuta). Una delle figure più autorevoli (e contraddittorie) del panorama culturale italiano degli ultimi venti anni, cui tanti adolescenti degli anni Ottanta, scampati alla lobotomizzazione craxiana e ciellina, devono la vita.
Giovanni ci accoglie sulla soglia di casa in compagnia della mamma e dello zio. L’informalità dell’abbigliamento gli conferisce una strana aria da montanaro punk, cui alla gentilezza dei modi fa da contrappunto la profondità tagliente dello sguardo. Tutti e tre vivono insieme da qualche anno, da quando Giovanni ha deciso di tornare nel suo paese natale e di ristrutturare completamente il vecchio casolare, per farne il suo rifugio familiare e personale. Non c’è traccia di plastica nella struttura e nell’arredamento della casa: i materiali usati – pietra, legno, ferro e cemento arenario levigato – disegnano un profilo caldo e funzionale all’abitazione. Al primo piano, c’è l’appartamento di Giovanni. Dalle finestre della casa, osserviamo divertiti le movenze di “Tre” (da Tre di Tre, pezzo d’annata della rock band dei Marlene Kuntz), uno degli splendidi cavalli allevati dalla famiglia Ferretti. “Questione di radici e memoria”, spiega, mentre, gustando del buon vino rosso, ci apprestiamo ad ascoltare in anteprima l’ultimo lavoro musicale dei Pgr, “D’anima e d’animali” che uscirà il 2 luglio per la Universal. Un ottimo pretesto per una lunga chiacchierata senza confini sulla musica, la politica, la pace, la guerra, la tecnica e la terra.
Come nasce questo disco?
Il disco nasce come reazione all’ultimo concerto dei Pgr dello scorso dicembre, quando ci siamo accorti che quella storia non funzionava: troppo complicata, non viveva più. Venivamo da un periodo difficile, Francesco Magnelli e Ginevra di Marco (rispettivamente, ex tastierista ed ex voce del gruppo) se ne erano andati e avevamo qualche problema. Non era facile ricominciare: l’ultimo disco era stato concepito attorno al pianoforte di Francesco e alla voce di Ginevra. La mia parte era divisa con Ginevra; senza di lei mi sembrava impensabile qualsiasi cosa. Sono ripartito dal piacere della musica, nel senso più ampio del termine; mi son detto: ‘Io sono il padrone delle parole: se trovo le parole giuste posso raccontare il mio mondo e i suoi cambiamenti’. La prima canzone racconta il passato, il ricordo più bello dei Pgr; di seguito, sospinto da un’idea premusicale, ho deciso di raccontare la complessità del mondo partendo da una tamorra, che invece segna l’inizio del presente. In questo modo, ho scritto tutte le canzoni in fila, come una storia che tiene un filo dall’inizio alla fine.
Dopo aver costruito le parole, Gianni, Giorgio, Pina e Cristiano (gli altri componenti del gruppo) sono arrivati qui, abbiamo imbandito la tavola, abbiamo mangiato e ci siamo ubriacati come bestie. Ad un certo punto gli ho detto: “Adesso vi leggo il disco che voi dovete fare”. Loro hanno sistemato i loro strumenti, e con un piccolo registratore ad una traccia, in otto giorni, con gran divertimento e gusto nello stare insieme, abbiamo composto il disco.
Al primo ascolto, il disco esprime una gran voglia di suonare e di cantare, senza inutili orpelli: un forte desiderio di presa di parola. Quanto delle tue scelte di vita personali entrano in queste canzoni?
Tutto. La scelta del luogo in cui suonare racconta già molto di questo lavoro, in cui è evidente una grande energia. In precedenza, in questa casa era stata composta solo la canzone “Inquieto” (una perla rintracciabile nel disco dal vivo “Inquiete”, registrato live dai Csi nel 1995, in un concerto per Videomusic), mentre fuori, nell’aia, era stata pensata e cantata “Amandoti”, per i Cccp. Un disco suonato e cantato qui dentro non me l’ero mai immaginato, abbiamo sempre cercato altri luoghi. Ero troppo stanco per spostarmi. Era gennaio e dissi agli altri che solo qui avrei potuto comporre.
“Orfani e vedove” poteva nascere solo in questa casa, perché io sono un orfano figlio di una vedova: occorreva essere qui per dire delle cose sgradevoli.
C’è una frase della canzone che dice “non posso non amare il popolo ebraico”…
“Ero comunista del Pci emiliano, il miglior buon governo cittadino, il miglior governo cittadino. E’ per me un dovere amare il popolo ebraico, lo stato d’Israele”: è il verso che mi ha creato più problemi di tutto il disco perché due terzi della sinistra è in realtà antisionista, come un dato di fatto, al di là di qualunque pretesa ideologica.
Ma non c’è una differenza tra antisionista e antisemita?
Non sono così raffinato dal punto di vista politico per discernere così precisamente. Per parlare di “Politica” avrei bisogno di due giorni senza bere un bicchiere di vino, perché altrimenti mi faccio prendere dalla passione, che è il contrario della politica.
Qual è il modo migliore per amare il popolo ebraico?
Sono tanti quanti le persone che lo amano. Tieni conto che nella mia vita ho avuto un solo processo penale, da giovane, quando facevo l’estremista. Sono stato fortunato, non sono mai stato un criminale, ma capita che per una svista della fortuna ti ritrovi in storie che non ti appartengono. Ebbene, una volta venni denunciato per vilipendio dello stato ebraico, perché stavo affiggendo, illegalmente, dei manifesti per Al Fatah. Con mio grande scorno, venni difeso gratuitamente da una persona che stimavo molto, l’avvocato Finzi, l’ultimo grande ebreo di Reggio Emilia. Con imbarazzo gli dissi che io avevo fatto ciò in cui credevo profondamente. Lui mi rispose che con il tempo avrei compreso che il mondo è molto più complesso di quello che pensavo. Il mio amore per il popolo ebraico nasce da letture su letture; per il mondo musulmano nutro e mantengo vivo un profondo rispetto.
Ma non è la cifra di un mondo impazzito quello che definisce “antisemita” anche chi difende le case palestinesi dai bulldozer israeliani?
Quella è una lotta politico-nazionale e territoriale, in cui ognuno ha le sue ottime ragioni. E’ impossibile non accettare le ragioni altrui. E’ una guerra combattuta per una patria e per un posto in cui vivere tranquilli. Il vero problema è l’Europa e la sua cattiva coscienza. L’Europa ha pensato e messo in atto la distruzione del popolo ebraico, obbligando gli ebrei a difendere la loro terra. Israele non ha mai dichiarato una guerra reale, ha sempre difeso il diritto d’esistenza. Il mondo musulmano ha mosso guerra più volte, ma le ha perse tutte, e di questo se ne deve fare una ragione. Il popolo palestinese ha le sue grandi e buone ragioni ma la storia, da quelle parti, è una cosa complessa e va affrontata con un compromesso che salvi le necessità vitali di tutti i contendenti. La ragione perché politicamente mi sono distaccato dalla Palestina riguarda il giudizio su Arafat; lo ritengo un malfattore, che resiste imperterrito da trent’anni, che ha manovrato tanti di quei soldi da fare paura e che ha creato corruzione e fondamentalismo in una terra da sempre laica, civile, complessa …..
D’altra parte, è pur vero che i peggior nemici dell’occidente sono stati inventati e foraggiati dai governi statunitensi e inglesi. Anche in Palestina, ci sono ottime ragioni per ritenere il governo israeliano responsabile dell’iniziale crescita di Hamas, in contrapposizione alla leadership di Arafat.
Parliamo di una storia complicata, non riducibile ad una chiacchiera.
Sono passati quasi venti anni da “Socialismo e barbarie”: quanto è ancora “sazia e disperata” la tua Emilia?
Beh, è cambiata di molto. Sono arrivate un sacco di genti nuove che hanno rimescolato la nostra vita: disperati, criminali, gente qualsiasi, gente per bene, ognuno alla ricerca di una nuova chance di vita. Quando io cantavo “Emilia paranoica”, avevamo davanti una società effettivamente sazia e disperata. Aveva ragione monsignor Biffi nella sua definizione. Due aggettivi che fanno riferimento a due ordini diversi: il primo attende alla vita quotidiana, ad uno stato di soddisfazione materiale; colui che ti definisce sazio, fa onore a te, alla tua storia, a chi ti governa. Vuol dire che nella tua terra tutti hanno da mangiare, tutti vivono un benessere accettabile. Cazzo, si tratta di un grande complimento! Quanti posti al mondo possono definirsi sazi? Definire l’Emilia sazia, beh, era il miglior complimento che il vescovo più reazionario della regione poteva offrire al Pci. I comunisti sono riusciti in quel che i preti hanno sempre fallito. “Disperata”, invece, si riferisce ad un atteggiamento proprio dell’anima e non del corpo. Alla fine, un’intelligenza clericale ammetteva una doppia sconfitta: i bisogni primari erano soddisfatti dal governo locale; l’anima, inquieta e malmessa, era il fallimento della “competenza” dei preti.
L’”Islam punk” dei Cccp rompeva i tradizionali confini anglo-americani, spostava i confini ad est e nel sud del mediterraneo, rivelando il suo centro nel cuore dell’Emilia. Che resta, ora, di quella scelta e di quell’attitudine?
Senza quell’inizio, qualsiasi pensiero venuto dopo non avrebbe alcun valore. Ma quel mondo non esiste più. Ora ti dirò una roba orribile: quando è crollato il Muro di Berlino, noi da subito ci siamo sentiti orfani. Finché c’era il Muro, tutto era chiaro, si poteva reggere, c’era una chance. Il “socialismo reale” ha avuto delle opportunità incredibili e le ha perse tutte. Fino a quel momento, pensavamo di non buttare via il bambino con l’acqua sporca. In realtà, ci accorgemmo che l’acqua era zozza e che il bambino era un feto imbalsamato, un morticino. Bisognava buttare anche la bacinella. Per verificarlo, dopo lo scioglimento dei Cccp, abbiamo attraversato l’Unione Sovietica, la Siberia, fino ad arrivare in Mongolia. In questo paese, caduto il comunismo, la gente ha ripreso i costumi, i riti, ha rialzato gli altarini buddisti come se nulla fosse accaduto. Tutti i pensieri si sono messi in discussione. Per ricostruire una via d’uscita, andai in Jugoslavia, martirizzata da tutti i problemi e i nodi irrisolti della storia europea; lì incontrai il peggio della coscienza cattolica, di quella pacifista e di quella di sinistra. Il Muro di Berlino era stato lo specchio, la Jugoslavia la condizione materiale della tragedia.
Nel 1999, in piena guerra del Kosovo, fece scalpore un tuo intervento a favore dei serbi.
Ognuno può dire la sua piccola verità e io non voglio convincere nessuno. In quell’occasione, mi schierai con i serbi in base alla personale conoscenza di quella storia, di ciò che lo precede, consapevole degli di scenari che si aprivano. Conoscevo la Jugoslavia e sapevo cosa fosse il Kosovo. Lì si scontravano tre nazionalismi: croato, serbo e musulmano di Bosnia-Erzegovina. Fra i tre, i serbi erano i migliori, per quanto è possibile essere migliori in un mondo infame, fondato sugli odii, sull’ostracismo, sulle ripicche quotidiane. Cinquant’anni di comunismo titino avevano garantito un periodo di pace che, al di là della collocazioni politiche, nazionali e religiose, è stato poi rimpianto da tutti. Un modello che aveva congelato differenze e attriti, in perfetta continuità con le altre esperienze dei regimi socialisti che, pretendendo di risolvere alla radice i problemi della condizione umana, non li avevano neppure sfiorati. Imploso quel mondo, sono riaffiorate le stesse tensioni e gli stessi problemi di mezzo secolo prima.
17/07/2004 20.31
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marok-marok
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I serbi erano la componente più grande della Jugoslavia, quella che ha pagato di più, da ogni punto di vista, perché la Jugoslavia esistesse. Appena lo scenario è cambiato, sono stati fatti oggetto di una campagna di criminalizzazione promossa e sostenuta dall’intero occidente (prima di tutto dalle sinistre europee) e dal Vaticano, i quali hanno appoggiato le forze fondamentaliste islamiche in Bosnia e in Kosovo, e le formazioni cattoliche reazionarie in Croazia. Delle tre “etnie”, i croati erano i peggiori, anche perché i meglio difesi. Dal punto di vista ideologico e religioso, godevano del sostegno del papa, che puntava alla nascita di un piccolo stato cattolico integralista; dal punto di vista economico, erano foraggiati dalla Germania, che spingeva per allargare l’influenza del marco e per avere uno sbocco al mare. I bosniaci-musulmani erano i più poveri e i più diseredati, e i meno musulmani del mondo. Gli arrivarono tanti di quei soldi, dai waabiti, dall’Arabia Saudita e da altre fazioni islamiche, che divennero fondamentalisti per “corrispondenza”, ma non sapevano nemmeno cosa fosse l’Islam. I serbi hanno tentato di tenere unita una cosa in cui due componenti fortissime foraggiavano soldi e armati. Non ressero alla pressione e anche loro seguirono gli istinti più bassi e brutali, in Bosnia e in Kosovo.
Questa follia nel cuore dell’Europa si presentava come un tragico ossimoro. Nel momento in cui i processi di globalizzazione rompevano i confini e le frontiere tradizionali, si rinfocolava il peggior lascito del novecento: l’orrore degli stati-nazione.
Questo è davvero incredibile. Ma siccome mi definisco “geneticamente di sinistra”, provo a guardare i miei errori e a leggere i pregi altrui. Avere dei nemici onorevoli ti costringe a dare il meglio di te. L’orrore del mondo comunista è stato questo: crollato il sistema, a parte l’esperienza della Toscana, Umbria ed Emilia Romagna, tutto era invariato come settant’anni prima, con le sue tragedie e orrori. L’Europa stessa si è dimostrata solo una evocazione; l’impero di Dante Alighieri è l’Europa che tutt’ora idealizziamo. Adesso abbiamo la moneta, ma non un’idea di Europa.
Quali sono i confini della tua Europa?
Dal Portogallo agli Urali. L’Europa di De Gaulle, del cristianesimo. Poi ognuno tiene per quella cui è più legato: c’è l’Europa della Vandea, degli illuministi, dei repubblicani, degli austro-ungarici. Ma un’idea di Europa deve comprendere anche il Mediterraneo: la Magna Grecia fu la prima idea di Europa, che si è poi consolidata con l’Impero romano e il cristianesimo. Quindi se mi dicono che Alessandria d’Egitto o Beirut sono Europa, io ci credo senza alcun dubbio.
Una volta dicesti che Kreuzberg, a Berlino, era il cuore della nuova Europa: l’incontro tra il punk e la cultura turca.
Quando in Europa c’erano pochi immigrati, Berlino era già la città con il numero maggiore di cittadini turchi al di fuori dalla Turchia. Bisognava fare i conti con un fenomeno che iniziava a cambiare il volto e la storia del continente. Viviamo in un mondo senza barriere, la gente passa, che tu lo voglia o no. Chi governa deve favorire, in positivo, e contenere, in negativo, una mutazione in atto che fa paura. Questa storia crea un sacco di problemi ma anche tante soluzioni. I mondi vanno avanti così. Questi piccoli paesi del crinale erano paesi celtici; hanno retto tutto l’Impero romano e le invasioni barbariche. Poi sono arrivati i longobardi e hanno dovuto patteggiare, al 50 per cento. Conviene far sposare i figli e le figlie, e tentare di costruire una nuova comunità che dopo duecento anni ti permette di superare il problema. E’ ovvio che all’arrivo tu cerchi di ammazzarli tutti, loro cercano di ammazzare te, e ad un certo punto decidi che la guerra è finita, e pensi al futuro. Ma questo fenomeno porta con se tanti effetti positivi: sangue nuovo, intelligenze nuove, che fanno ricrescere la vita. Un mondo chiuso in se stesso muore, e anche alla svelta. Reggere le mutazioni è il dovere della politica.
17/07/2004 20.32
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marok-marok
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Nello scontro di civiltà della guerra fredda, voi contrapponevate la “plastica” dell’occidente all’”acciaio” dell’est, scegliendo quest’ultimo. Una scelta perdente.
Sicuramente ha vinto la plastica. Non lo dico con piacere, ma è andata così. Cambiato lo scenario, è cambiata anche la considerazione delle singole parti. E si scopre che anche la plastica è molto più complessa e contraddittoria. Gli errori ed orrori di questa guerra infinita lo stanno dimostrando. Una guerra in atto che vede contrapposte una parte minoritaria ma non indifferente dell’Islam e l’intero occidente. Un conflitto che non ha la sua origine nell’11 settembre; quella è stata solo una battaglia. La guerra, secondo me, ha inizio simbolicamente con l’abbattimento dei due grandi Budda in Afghanistan. Senza che si levasse una voce autorevole al mondo, i talebani hanno minato e distrutto due cose che li sovrastavano dal punto di vista storico, e che non creavano problemi a nessuno. Era un atto di guerra che ci introduceva in un altro mondo. Senza dimenticare, naturalmente, che Al Qaida, inventata, finanziata e foraggiata per combattere i russi in Afghanistan, è il prodotto mortale dell’apprendista stregone: l’occidente.
Nella tua storia artistica e personale, si coglie un’ambivalenza di fondo. Da una parte, una capacità di prefigurazione, quasi visionaria, delle grandi trasformazioni culturali, sociali, di stili di vita, scolpite da liriche indimenticabili – “Il passato è afflosciato, il presente è un mercato”, “Via dall’eternità, dai cicli e dai progetti, dal sol dell’avvenire”, “Maledirai la Fininvest”, “Occidente luogo da cui non giunge suono, luogo perduto ormai” -; dall’altra, la difficoltà di seguire questi cambiamenti, di stare al passo delle evocazioni.
Ognuno prova fare quel che può! Non ho ricette né soluzioni per nessuno. In realtà, il mondo è un po’ più complesso: penso che esista uno spazio che attiene alla cultura, uno alla musica, uno alla poesia e uno alla politica. Non esiste nessuno spazio che li contenga tutti. Ognuno è giudicato dalla parte che fa. L’importante è che io continui ad essere onesto con me stesso, a guardar le cose per come io le vedo, probabilmente non sono in grado di fare di più. Io non salvo la vita a nessuno. Per una serie di accadimenti fortuiti e per la mia volontà, campo da venticinque anni scrivendo canzoni, c’è tanta gente che mi segue e mi stima, alcune volte è d’accordo con me altre volte no, comunque mi riconosce una dignità che ho avuto modo di dimostrare nel tempo. Non reputo a me stesso un valore eccelso, mi sento dentro una condizione assolutamente normale. Forse ho avuto la capacità di trasformare in un condensato di poche parole le cose che tanti trovano interessanti per la comprensione della realtà. Ma non è detto che io possa o voglia far dell’altro. Spesso ho pensato di dedicarmi alla politica, un altro grande mio amore, ma dovrei abbandonare il mestiere di cantante. E non sono sicuro di guadagnarci, né io né gli altri…
Continuiamo nel gioco delle citazioni: come facevi a cantare “Meriti molto di più di un posto garantito, che non avrai” e poi scegliere, nel 1987, la tessera del Pci, un partito impermeabile a quelle parole che sancivano un cambiamento di scenario epocale?
Perché quel partito, comunque, capiva il senso della storia. Il Pci ha garantito alla mia terra – una zona poverissima di braccianti, carriolanti, mezzadri, pastori senza terra – uno sviluppo e una cura della comunità affatto scontati. Quando dico che “sono geneticamente di sinistra”, lo affermo perché vivo su un crinale tra la Toscana e l’Emilia Romagna, cioè il cuore della sinistra italiana. Non è una sinistra ideologica, è una sinistra capace di governare un territorio, di far aumentare in maniera inverosimile il benessere, di rendere un luogo sazio. Poi non è in grado di renderlo felice, ma questo non è il compito della politica, che invece deve togliere la fame. La felicità, aimè, ognuno se la deve guadagnare rispetto a quello che è. Non c’è un modello, la tua felicità potrebbe essere il mio inferno. Invece, il fatto che mangiamo tutti e due a sazietà, rende tutto più semplice. E questo, i comunisti, lo hanno garantito nelle regioni che da sempre governano.
17/07/2004 20.32
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marok-marok
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Sembra quasi una facoltà “antropologica”?
Sì, nel senso più alto del termine. Non c’è dubbio che se qui si è affermato un modello che in gran parte del mondo si è rivelato un abominio, significa che qualcosa, da queste parti, ha fatto la differenza. Nel dopoguerra, gli emiliani si sono legati ad un’ideologia, il marxismo-leninismo, che viveva in una perenne dissonanza dal reale. Noi non ce ne accorgevamo, perché la nostra storia materiale era diversa, segnata dalla ricchezza sociale e dal benessere. Rispetto alla capacità di governo, l’Emilia è stata perfetta. In seguito, davanti alle trasformazioni globali – il fenomeno delle migrazioni in primo luogo – il sistema ha cominciato a franare sotto il peso delle sue perfezioni. Io, da ragazzino, ero di Lotta continua, mica del Pci. Ma quel mondo ci apparteneva; si erano affermate conquiste fondamentali, nei servizi, nell’educazione, nella tutela sociale. La nostra scuola era davvero pubblica. Io sono stato operato quattro volte e se mi dicessero “Ti mandiamo a curare a Dallas”, gli dico (Giovanni fa il gesto dell’ombrello) che stanno fuori, io scelgo Reggio Emilia. Meglio della mia sanità non ce n’è al mondo. (A questo punto, Giovanni si alza e va a prendere una “reliquia” custodita gelosamente in un angolo della stanza e, orgogliosamente, ce la mostra).
Oggi posso permettermi di essere anticomunista ma questa è la bandiera del Pci emiliano, uno stendardo da processione liturgica. Qui, qualche donna, lo ha tessuto a mano, come si poteva tessere una tovaglia per l’altare della madonna. Quel simbolo fa parte della mia storia. Una storia che ora non c’è più, ma che non posso e non voglio dimenticare.
Un mondo morto e sepolto.
Sì. Ad un certo punto, ci accorgiamo che mentre un mondo viene giù, emergono novità e urgenze dirompenti. Nel giro di pochi anni, Reggio Emilia, cittadina benestante più di ogni immaginazione, si trova al centro di un flusso straripante di nuovi occhi, colori, facce e culture, provenienti da chissà quali mondi, giunte qui per rifarsi una vita. Non è mica semplice ricostruire lo stesso equilibrio di quando tutti si conoscevano. Non ci sono stati atteggiamenti negativi, Reggio si è confermata la città a più alta integrazione, con il maggiore numero di matrimoni misti d’Italia. Da secoli, siamo abituati all’uguaglianza. Il comunismo nasce con Napoleone e la rivoluzione francese. In questa casa, una mattina, all’inizio delle campagne napoleoniche – parliamo di una famiglia da secoli insediata su questi monti – un giovane va giù in cucina dai suoi vecchi e dice: “Mamma ascolta: vado ad arruolarmi nell’esercito di Napoleone Buonaparte, vado a combattere per la rivoluzione francese”. La madre gli prepara la bisaccia, la biancheria, il padre gli dà un po’ di soldi, e finalmente parte. Si fa tutta la campagna e, per fortuna, torna a casa. Queste sono le mie origini che hanno modellato le generazioni a venire. Una parte della mia famiglia, ad esempio, proveniva da una tradizione cattolica di destra. All’inizio degli anni settanta, si sedettero intorno al tavolo e decisero che, in nome del buon governo locale, da quel momento, alle elezioni amministrative, si votava tutti Pci.
Da un po’ di tempo, coltivando la passione per la musica popolare, lavoro piacevolmente con Ambrogio Sparagna. Mi diverto da matti e ci prendiamo per il culo vicendevolmente. Una volta gli ho chiesto come fosse possibile che due persone con radici storiche tanto diverse potessero andare d’accordo. Mentre da queste parti si faceva la rivoluzione francese, lui era sanfedista; quando noi eravamo partigiani, lui era già stato liberato dagli alleati; a lui piace il sole e il mare, alla mia famiglia piace il freddo e la nebbia. La musica fa di questi miracoli: se lui mi fa un giro musicale, io so già cosa cantarci sopra. Ci sono alcune strane plaghe in Italia, in cui io mi sento a casa mia, in cui ritrovo un mondo complesso e ricco fatto di vecchi, bambini, animali, campi da coltivare, riti e cerimonie di comunità. E’ il caso del Salento. Anche lì, con le amministrazioni storiche di sinistra si sviluppa un rapporto poco ideologico, attento al miglioramento delle condizioni di vita di tutte le persone, al di là dei ceti sociali, delle capacità e delle intelligenze singolari.
Il modello, però, non è stato solo buona amministrazione e sano pragmatismo. E’ una cultura che si è fatta stato, che non ha compreso i nuovi bisogni emergenti, è la frattura del 1977, è la Bologna dell’assassinio di Lorusso e della distanza, anche fisica, di due concezioni divergenti della politica e della società.
Nel giorno dei funerali di Francesco, io stavo nel corteo del movimento contro il Pci. Io ero un estremista, Francesco era un mio amico, abitavamo vicino; in quel periodo ero malato e lui, studente di medicina, mi faceva le punture. La mattina, poi, andavamo a distribuire il nostro giornale davanti all’università. Ma questo non impedisce, ora, di riconoscere un valore importante a quel modello, con i suoi limiti e le sue ricchezze. Purtroppo, non si può governare senza divenire stato, senza gestire la polizia, la forza pubblica, riscuotere le tasse. Noi confliggevamo con quel mondo, non per cancellarlo ma per renderlo migliore. “Contraddizioni in seno al proletariato”, dicevamo. Nel giro di un decennio, un’ondata di nuova umanità – sik, marocchini, algerini, cinesi – ha fatto saltare ogni equilibrio precedente, seppur contraddittorio, aprendo uno scenario di un mondo tutto da scoprire.
Negli ultimi anni è apparso sulla scena un movimento globale che critica radicalmente il modello di sviluppo liberista, centrato sul saccheggio e lo sfruttamento delle risorse naturali e delle persone. Un movimento che si oppone all’uso dissennato delle biotecnologie, come nel caso degli Ogm. Tre anni fa, durante un reading a Roma, a piazza Vittorio, rimasi sbigottito dalla tua difesa a oltranza di una tecnica considerata, ormai da tutti, pericolosa se non propriamente nociva per l’uomo e la natura. Sei ancora convinto di quell’affermazione?
Si tratta di un problema aperto. A tutt’oggi non so scegliere. Vedi, la tecnica è il mondo contemporaneo. In questo periodo sto leggendo un saggio del filosofo Severino sul rapporto tra tecnica e Islam, che secondo me è folgorante rispetto a quello che sta succedendo. Al contrario del mondo in cui sono cresciuto, io sono un grande sostenitore della scienza e della tecnica. Dopodiché, io allevo cavalli arcaici e vivo in una casa in campagna con i miei vecchi. Se penso a un sogno da realizzare, desidererei la colonizzazione dello spazio. Se potessi, investirei quasi tutti i soldi del mondo nella conquista dello spazio. Se ci fosse la tecnologia che mi permettesse di costruire una capsula intorno alla mia casa, con i miei cavalli, i miei vecchi, i bambini, i miei amici, che mi permettesse di sganciarmi dal mondo e di volare su un pianeta distante tre milioni di anni luce, io ci andrei subito. Sento tanta gente che dici di curarsi con le erbe, con il cibo macrobiotico, ecc. Ascolta: io fumo cinquanta sigarette al giorno (e sono considerato un criminale dallo stato che campa sui miei soldi), da cinque anni bevo buon vino rosso, mangio pane, olive, formaggio, prosciutto e carne cruda, insomma una complessità in atto. Con le terapie naturali, io sarei morto a quattordici anni. Nella mia vita ho avuto quattro grosse operazioni, l’ultima per un tumore ad un polmone. Io sono vivo grazie alla chirurgia occidentale. Poi, è vero, faccio di tutto: prego la madonna, mando giù le pillole dei buddisti, faccio meditazione. Quando ci sono dei problemi, delle disgrazie, bisogna intervenire, assumendosi delle responsabilità. Quindi, se tu puoi salvare una popolazione grazie ad una tecnica, io non riesco a dire di no. Comunque, voglio discuterne, perché non mi convincono le posizioni pregiudizialmente contrarie. Per me il sabato è stato fatto da dio in favore dell’uomo, la natura è a favore dell’uomo, non è l’uomo a favore della natura. Io sono un essere umano, non è detto che non fossi una pianta prima e che non diventi un sasso dopo. Quando sarò sasso, farò il sasso. Ma fino a quando sarò un uomo faccio l’uomo, con tutti i miei limiti e sbagli. Non posso fare dio. Quando Bertinotti inaugurò il congresso di Rifondazione dicendo “Noi siamo omosessuali e lesbiche, palestinesi e israeliani…” e così via, io ho spento la tv. Solo dio può dire questo. Un uomo deve accettare un limite. Tutti i coglioni sono capaci di parlare di un mondo più bello, ma il mondo è quello che è. Si può migliorare un casino, si fanno anche le rivoluzioni, però lo sai che non costruisci il paradiso in terra. I problemi ricominciano sempre.
Parlavamo di Ogm e della necessità di un controllo…
Giusto. Ma non si può giudicare anticipando l’esperienza diretta. Da queste parti siamo sopravvissuti perché i gesuiti portarono le patate in Europa. Dopo la scoperta delle americhe, sopravvivemmo ad un periodo di grande carestia, grazie a questo tubero allora sconosciuto. Ma la prima generazione fu sterminata perché era solita mangiare le patate quando erano ancora troppo piccole, in particolare il gambo che usciva dal terreno. Il prezzemolo è un veleno, ma duemila anni dopo è diventato un grande piacere della tavola: io non cucino senza prezzemolo. Questo per dire che io non posso decidere che tutto quello che so è giusto e quello che non conosco è sbagliato. Davanti alle innovazioni della scienza e della tecnica, serve un processo di responsabilità e chiarezza, che ponga ogni cittadino in una condizione di conoscenza e di libera scelta.
Poche regole ma molto chiare. E se tu sgarri e rischi di distruggere il mondo, io ti taglio la gola, e non in senso figurato. Il sabato pomeriggio, in piazza, chi ha sbagliato, zac! e si taglia la gola. Come nella rivoluzione francese, quando le donne facevano le maglia e invitavano, senza pensarci troppo, a tagliare la testa di qualche decina di conti. Ci saranno state pure un paio di brave persone in mezzo, ma, cazzo, sono sempre conti! Abbiamo fatto i mezzadri per trecento anni: vaffanculo, adesso noi vi tagliamo la gola…
Vedo che le maniere spicce, da queste parti, non tramontano mai. Va a finire che Pansa qualche ragione ce l’ha.
Io sono un grande amico di Giampaolo. Quando sono andato alla presentazione, a Reggio, del suo ultimo libro “Sangue dei vinti”, gli ho fatto una domanda: “Secondo te la mia terra è stata così severa e poco magnanima con i vinti?”. Secondo me, rispetto a quello che abbiamo patito, siamo stati bravissimi. Potevamo ammazzarne almeno il dieci per cento in più. Venti anni di dittatura e una guerra inverosimile: ebbene, se io so che quei tre là hanno torturato a morte mio padre, pensi che non li ammazzo appena posso? Non sarei nemmeno un uomo d’onore se non lo facessi.
Un tuffo all’indietro: nel 1985, in un concerto al Leoncavallo, distribuiste un volantino in polemica con il Virus (l’occupazione milanese all’avanguardia nella cultura punk), criticando, scandalosamente, il mondo dell’autogestione.
Qualsiasi bottegaio vorrebbe autogestire il proprio lavoro e non pagar le tasse. Allora, noi difendemmo questa piccola ragione – solo noi potevamo farlo – davanti alle altrettanto giuste ragioni degli autogestiti. In realtà, il mio rapporto con questo pezzo di società è molto complesso. Ci sono persone che valgono moltissimo, ci sono truffatori, c’è di tutto. Continuo a non trovarla una soluzione sociale complessiva, la difenderei nel suo piccolo. E’ uno spazio che ha ragion d’essere perché produce e serve a tantissime cose. Se qualcuno pensa però che il problema sono loro, non ci sto e li difendo strenuamente. In alcuni casi, come per il “Rivolta” di Marghera, ci troviamo benissimo e ci torniamo a suonare volentieri.
Fin dai tempi dei Cccp sceglievate altre comunità a quelle dei centri sociali; ad esempio le feste del primo maggio con i sindacati, come il famoso concerto del 1987 con la Fiom di Torino.
Non c’è dubbio, quello era il mondo che sentivamo nostro. Pensa che di questi tempi il sindacalista che più apprezzo è Pezzotta della Cisl, figuriamoci… Ogni volta che lo guardo e lo sento parlare mi ricorda, il tipo di sindacalista che io apprezzo, che ha il coraggio di dire quello che non si dovrebbe dire. E’ piccolo, brutto, malfatto, sgradevole, un vero sindacalista che difende il portafoglio dei lavoratori, che sta davanti ai picchetti e poi tratta con il governo, che non fa demagogia politica, ma pensa a portare qualche risultato.
Sì, ma quando tanti “salariati” diventano sempre più precari e meno garantiti, tanto che Pezzotta nemmeno li riconosce, che cosa occorre fare?
Quando i mondi cambiano non è che tu puoi pretendere da qualcuno che sa fare bene gli interessi del mondo precedente, di fare altrettanto bene ciò che non conosce o per il quale non è pronto. Pezzotta, evidentemente, non è pronto. Io l’apprezzo per il suo, il mondo ora va ripensato e ripensarlo non è un’impresa da poco. La stessa logica del sindacato è di per sé contro il mondo nuovo, una società sempre più spezzettata e divisa.
A metà anni novanta, anche attraverso il progetto “Materiale resistente”, è cresciuta un’urgenza fortissima nei confronti della memoria storica e delle radici di questa terra. In un pezzo del nuovo disco fai riferimento ai nonni e alle nonne, alla necessità di coltivare i legami tra generazioni.
Da queste parti, come si suoldire, teniamo tutti famiglia. Ci hanno allevato. Abbiamo dei genitori con cui, normalmente, non andiamo d’accordo. Abbiamo dei nonni che, normalmente, sono il piacere della nostra famiglia. Si tratta di un valore legato a queste terre; per queste ragioni, appena ho potuto, sono tornato a vivere da queste parti. Anche da questo punto di vista, il Pci ha svolto un ruolo fondamentale, ha mantenuto viva la memoria. Comunque, siamo figli e nipoti di qualcuno che ha combattuto duramente per essere quello che siamo. Tanto tempo fa scegliemmo di non essere servi, di essere uomini liberi. A volte è andata bene, altre volte male. Noi non siamo pacifisti senza se e senza ma. Esistiamo perché abbiamo preso le armi. Questi pacifisti e questi mondi che tu mi racconti, di cui colgo la complessità, ma che in realtà io temo e per questo me ne tengo lontano, se li dovessi analizzare come pensiero logico, la filosofia pacifista – cattolica, comunista, anarchica – ricalca quella dell’Uomo Qualunque del dopoguerra. Io mi faccio i cazzi miei, io non ti disturbo, tu non disturbarmi. E no, noi siamo figli di partigiani. La pace senza se e senza ma nella sinistra non ha diritto di esistenza. La sinistra esiste perché, ad un certo punto, ha preso le armi in pugno, dicendo: “Adesso basta”.
Qual è il tuo rapporto, ora, con il mondo statunitense e che giudizio dai di quello che molti definiscono “Impero”?
Come ho già detto, fino all’89 sono stato filosovietico. Il mondo era diviso in due imperi e per quanto sapessi che in Unione Sovietica mi avrebbero ucciso, io tenevo per loro. Nell’illusione che fosse sempre possibile una società non subordinata all’economia e allo sfruttamento. L’idea, dal punto di vista intellettuale e ideologico, mi stimolava un casino. Finché è stato possibile, ci ho creduto. Crollato quel mondo, ho iniziato a conoscere il mio avversario, gli Stati Uniti. Comunque, vivendo la storia pragmaticamente, non mi sono mai dimenticato che noi siamo liberi grazie agli anglo-americani. Mia nonna ascoltava sempre Radio Londra e sperava che i bombardamenti fossero più lunghi e intensi possibili, perché più bombardavano e più la guerra finiva alla svelta. Si poteva morire, ma, cazzo, stavamo in guerra e ci giocavamo tutto. Ma ora che ci penso, il mio rapporto con quel mondo, affonda nei ricordi e nella memoria della mia famiglia. Qualche secolo fa, alcuni discendenti della famiglia andarono in America. Tutti i miei nonni sono stati lungamente negli Stati Uniti, facendo almeno una stagione come emigranti. Qualcuno c’è anche morto. Dal seicento, l’America ha rappresentato lo sfogo per le menti più folli della casa. La mia famiglia è sopravvissuta al fascismo perché l’ultimo giovane uscito di casa, un tale di nome Archimede, ci lasciò il suo patrimonio. Una figura su cui, prima o poi, farò un film. All’inizio lavorò come operaio nella costruzione delle fogne a Chicago, in seguito andò a fare l’allevatore di bestiame verso la costa occidentale e alla fine gli prese la passione per la caccia di grizli, e per questo andò in Alaska. Ma come dice un antica leggenda mongola, “Tu uccidi 48 orsi ma il 49esimo ti uccide”. E così fu. Con la sua eredità, la mia famiglia è sopravvissuta dieci anni sotto il fascismo.
Dall’11 settembre in poi io ho cambiato ogni pensiero sull’America. L’Urss non c’è più, il comunismo è finito, io sono orfano e, siccome non mi faccio adottare, rimango per conto mio, ma devo confrontarmi con quello che è successo. L’Impero in senso politico, a seconda dei punti di vista, ci potrà essere o potrà confermarsi soltanto se gli Usa vinceranno la guerra contro il fondamentalismo. Esiste un Impero economico ma è un Impero tecnico, e la tecnica può morire per un coltellino al collo della persona più importante che c’è. Occorre veder come finisce la guerra, magari finisce in un altro modo e ci ritroveremo con trentacinque regni.
Non sarebbe il caso di disertarla questa guerra di specchi riflessi?
Quando Bush è stato eletto pensavo che fosse la persona più stupida della terra. Dopo l’11 settembre, dopo quel colpo terribile, pensavo che forse era meglio di quanto credessi. Adesso mi rendo conto che lui non è niente. Gli americani sono meno di ciò che noi abbiamo bisogno che siano. La conduzione della guerra in Iraq è stata spaventosa per mancanza di conoscenza, di intelligenza, di capacità. Quando escono fuori le foto delle torture, pornografia allo stato puro, ecco che ti accorgi che forse l’occidente si merita di morire. Il problema che la guerra esiste, non è una macchinazione di chissà chi, anche se conosciamo benissimo genesi e responsabilità. Ma questo non basta più: in occidente nessuno accetta questo dato e chi l’accetta è così stupido che lo peggiora. Se gli Usa perdono noi non esistiamo più. Voi molto prima di me! io campo molto più di voi perché sono molto più arcaico. A noi ci basta sposare la pronipote di Bin Laden e campiamo per altri cinquecento anni, voi non avete nemmeno una famiglia, vi tagliano la gola appena arrivano.
Scenari cupi, dunque.
Niente di peggio di quello che abbiamo già vissuto. Se ci pensi, l’Europa ha vissuto trent’anni di pace augustea duemila anni fa, cinquant’anni di pace dopo la seconda guerra mondiale. I figli nati in questo periodo hanno perso la ragione storica perché convinti che la pace è un dato di fatto.
Mia nonna ha visto sette guerre in tutta la sua vita.
C’è una sorta di lucida rassegnazione nella tua reazione davanti a questa guerra.
Io ho accettato un tumore ai polmoni, un’operazione allo stomaco, una alla peritonite e devo dire che questa guerra non è giusta, perché bisogna essere tutti sani e belli? Urlare “pace-pace” è come gridare “salute-salute”. Sì, va bene, ma gli ammalati cosa cazzo fanno? Sai cosa hanno fatto i pacifisti cattolici e di sinistra a Sarajevo? Hanno fatto l’embargo delle armi, cosicché per tre anni la città è stata bombardata dai cecchini, mentre gli assediati non potevano difendersi.
Ma allora, cosa faresti se fossi un ragazzo al tempo della guerra infinita?
Se qualcuno ha una storia alle spalle che riconosce ancora, gli consiglierei di tornare a casa. Questo paese, dagli anni ’50 ad oggi, è stato spopolato in tutta la sua dorsale appenninica, per problemi di politica e di economia. Io l’ho fatto, ricostruendo un rapporto familiare: da quando sono nato fino a quarantacinque anni, io e mia madre non ci siamo toccati e ci siamo combattuti alla morte, perché lei voleva tutt’altro da me. Un giorno sono tornato e abbiamo deciso che la guerra era finita. Ora viviamo insieme e mi scambiano anche per il classico mammone italiano.
Uscite dalle città, tornate ad abitare le montagne, costruitevi le famiglie, per quelle che sono, senza alcuna accezione ideologica o morale: parlo di una casa, un focolare, un luogo in cui ci si aiuta, si vive insieme, si fa al meglio il proprio lavoro. Se non avete una casa, cazzo, non fermatevi dove siete, il mondo è tutto aperto. Se non avessi una casa, andrei a vivere in Sudafrica, in Canada, in Cina o in Mongolia. Magari trovo una donna incantevole che mi sposa e tra vent’anni ho tre mila cammelli. Perché restare a vivere in periferia a Reggio Emilia, per uno stipendio garantito, che non avrai?
Buona notte a tutti.
Marta Paola buon giorno! C’era una regola qui di non superare le venti righe nei commenti e di non riportare le enciclopedie fornendo piuttosto un link, uno per volta. Ma va bene comunque: “Il mondo è tutto aperto” direbbe Ferretti.
Gentile Marta Paolo, la domanda che le avevo posto riguardava le condizioni di salute di Giovanni Lindo.
Mi spiace.
Mi spiace per Rutelli che pur non stimo troppo,
mi spiace per Luigi che gl’ho intasato il sito,
mi spiace per Gonzalo che ho male interpetrato.
Giovanni è tornato a casa ma dev’essere operato.
🙂
Questo tuo epigramma, Marta Paola, me ne ha ispirato un altro dedicato ai nuovi governanti che ho appena pubblicato in un nuovo post. Te lo dedico.