“Farsi amico un senegalese, un ghanese, un eritreo, invitarlo a pranzo o a cena e farsi raccontare del suo paese, della vita della sua famiglia, del suo villaggio“: parole di Giovanni Nervo, 94 anni, sveglissimo maestro padovano della Caritas e della carità. Negli anni mi ha segnalato una quantità di “fatti di Vangelo”. Brindo a lui con un bicchiere di Vino Nuovo.
Giovanni Nervo: “Farsi amico un senegalese”
24 Comments
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.
Io l’ho fatto con i mei amici nigeriani.
Quel giorno arrivarono tirati a lucido. Lui, con un bel ginz nuovo di zecca, giacca e cravattino blu, lei…un golfino rosso che spiccava d’incanto sulla pelle nera e la massa di capelli stretti in un fascio di treccine raccolte dietro la nuca. Anche il piccolo Greize [non so se ho scritto correttamente] emozionato e compunto inizialmente, dopo un’ora seguiva i tratti della capigliatura la quale,malgrado la scriminatura soffe tenacemente fissata col gel, i capelli ribelli spuntavano capricciosi dappertutto…
Insomma, fu una bella serata, dove mi parlarono con emozione del loro paese a sud della Nigeria, tanto bello e amato dalla natura incontaminata costellato da tante piccole cascatelle d’ acqua fresca. Mi parlarono della prepotenza delle frange musulmane che vogliono imporre la loro egida con incursioni selvagge…per questo fuggirono. Anzi, approfitto per chiedere – nel caso in cui qualcuno può dare loro una mano- che sono bravissime persone in cerca di lavoro, anche un portierato, la signora ha preso il patentino di badante. Mi chiesero di passare parola, domandare non costa nulla…
buona domenica a tutti.
venia : fosse …
Alla fine, se non accogliamo lo straniero, se non aiutiamo l’orfano e la vedova, saranno proprio le nostre belle parole ricche di amore, croce, carità a condannarci.
parole di un mio paziente ( dell’Angola, molto colto e intelligente )
“qui tutti si sentono in diritto di farmi “la carità”, ma io non voglio alcuna carità,io vivo dignitosamente colla mia famiglia e non ho bisogno di nulla io non so come fare per far capire che non sono un caso pietoso, ma una persona come tutte. Voi non capite credo, cosa è l’orgoglio di un uomo , la dignità di uomo. Anche se sono povero mi sento uguale a voi! Non desidero essere commiserato!
penso che al mio paziente gli piacerebbe di più invitarmi a cena lui
e poter mostrami, orgogliosamente, la sua capacità e grandiosità di accogliere un ospite piuttosto che essere invitato a cena…Non dimentichiamo mai che chi fa il bene, ne trae una orgogliosa e vanagloriosa sensazione, come sono buono come sono caritatevole, chi invece viene beneficato ne trae una specie di umiliazione…
allora io dico non invitare a cena un senegale ma accetare di ESSERE INVITATO A CENA da un senegalese e quindi di essere in posizione di inferiorità sarebbe la vera carità. Sono sottigliezze? solo per chi crede che i senegalesi non abbiano le stesse emozioni , e le stesse idiosincrasie , e le stesse vanità di noi.
Non vedo la differenza tra l’essere invitato e l’invitare. Il vero contatto fra gli esseri si stabilisce anche solo con la presenza; credo che la compagnia sia tanto più piacevole quanto più, tra le persone, viga un sereno rispetto reciproco…Poi, “volere e non volere le stesse cose,è questa, in fondo l’amicizia”, diceva Sallustio.
Questa volta il ruggito del/la discepolo mi piace proprio tanto!
Grazie!
“accetare di ESSERE INVITATO A CENA da un senegalese e quindi di essere in posizione di inferiorità sarebbe la vera carità.”
Può darsi, ma siamo sicuri che un senegalese ci inviterebbe a cena?
Qualche dubbio ce l’ho.
Stando con i piedi per terra, riconosco che le emozioni, e tante altre cose, sono senz’altro le stesse ma le possibilità economiche credo di no.
Condivido
..intanto iniziamo noi…ad aprire la porta, quando le circostanze lo consentono. Senza aspettarci niente in cambio..
http://www.30giorni.it/articoli_id_4666_l1.htm
non compete a voi la salvezza delle anime, contentatevi di fare il meglio possibile il vostro mestiere. Fate regnare la pace.
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350296
Per una volta capisco quello che dice discy !
Nell’invito a cena si può insinuare – anche nostro malgrado – una manifestazione (se non proprio ostentazione) di potere e superiorità nei confronti del ghanese, specialmente se la casa nostra, magari bella e grande, è oggettivamente qualcosa di molto lontano dalle sue realistiche possibilità di vita. La casa è, in fondo, anche il frutto del potere dei nostri soldi -che spesso non sono il frutto del nostro lavoro, ma il retaggio del nostro passato. In questo senso, l’invito a cena può anche involontariamente sottolineare (la nostra capacità e) la sua incapacità di ricambiare, dunque, le nostre differenze.
Ma forse, discy, l’invito a cena presuppone implicitamente la condivisione, che è una condizione dello spirito e che indubbiamente deve guardarsi bene dal rischio sempre presente di cui sopra. Come dice Marilisa per il Ghanese sarà impossibile ricambiare il nostro invito. Riusciamo a farci piccoli – come credo intenda discepolo – invece se ci mettiamo in una condizione tale da sentirci così sinceramente e umilmente di fronte al ghanese da CON- DIVIDERE un momento di familiarità come il pranzo, ma questo può avvenire tanto se siamo noi ad ospitare, quanto se siamo noi ad essere ospitati.
Se pensiamo che, in fondo, le persone si misurano dai soldi e dalle case (e non penso che tutti siamo sempre sinceramente alieni da questi pensieri!), ben può capitare di sentirci inadeguati tanto quando siamo ospiti di persone più povere di noi, quanto quando siamo noi ad ospitare le stesse persone a casa mia. Nel primo caso, tenderemo a sottolineare tutte le differenze che ci separano dalla condizione in cui siamo ospiti; nel secondo caso, è più semplice: basta la casa, parlano le cose.
Forse, però, caro discy, si tratta di una condizione dello spirito.
Io ho gli “amici senegalesi”, è meglio se lo invito io, è meglio se mi invita lui, la casa è grande, piacerebbe a lui invitarmi, adeguati, inadeguati: seghe mentali.
Venne la dispensa, venne l’assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi. Un altro trionfo, e ben piú singolare, fu l’andare a quel palazzotto; e vi lascio pensare che cose dovessero passar loro per la mente, in far quella salita, all’entrare in quella porta; e che discorsi dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo all’allegria, ora l’uno, ora l’altro motivò piú d’una volta, che, per compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. “Ma per lui,” dicevan poi, “sta meglio di noi sicuramente.”
Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa piú semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
(Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XXXVIII)
Scusate, ma non trovate che c’è qualcosa che suona male in tutta questa discussione?
Noi diremmo mai: invitare a cena un marchigiano, un siciliano, un lombardo, un piemontese?.Fortunatamente no ( non piu’?).Diremmo: ho invitato a cena il mio collega, il vicino del piano di sotto, il padre dell’amico di mio figlio, la zia Gertrude. E non ci verrebbe in mente di dir: meglio da me, o da lui, si sentirà in soggezione, mi sentirò in soggezzione ecc ecc.
Com è che qui parliamo in questo modo? Temo che ci sia un problema, scusate se lo dico,ma è un ‘analisi che faccio su di me, di razzismo illuminato.
Siamo animati da buone intenzioni, certamente….ma il linguaggio è rivelatore!
Se siamo ancora a parlare così, significa che abbiamo delle barrere pregiudiziali enormi nelle nostre teste.Almeno per me è così..
E’ lo stesso meccanismo per cui se un italiano ubriaco stira qualcuno per la strada, il TG annuncia” pirata della strada investe un pedone”, ma se l’ubriaco è, faccio per dire, albanese, lo stesso TG annuncia ” ALBANESE UBRIACO investe un pedone”…
Hai ragione Lorenzo, il problema, per quanto mi riguarda non si pone proprio. Nel senso che, quando si condivide il desco con delle persone vuol dire che con queste si è creto -non dico amicizia- ma sicuramente un certo grado di confidenza al di la della provenienza, colore e quant’altro. La confidenza, poi, non si manifesta da un giorno all’altro ma rientra in un cammino di conoscenza. E’ un processo lento, che va per gradi e spesso occorrono anni in cui ci si scruta reciprocamente, si saggia la rettitudine della persona : senza la fiducia non si va da nessuna parte. Inutile girarci intorno, anche in loro ci sono dei forti pregiudizi razziali, culturali, etnici, religiosi. Se lo stesso non si può dire per la generazioni nata e cresciuta in Italia, di certo non può essere lo stesso per chi lascia il proprio paese le proprie usanze e si scontra con un mondo del tutto alieno. Tant’é che un terzo degli immigrati non è per niente soddisfatto della sua condizione dovuta, anche, ma non solo, nel non sentirsi accettati fino in fondo, lamentatano difficoltà a praticare la propria religione, hanno paura di perdere la propria cultura originaria a fronte del diverso sfondo culturale e sociale ecc…
L’accoglienza, l’impatto con lo straniero non è mai stata una cosa semplice…
Ci vuole tanto tempo per creare quell’intesa che fa scattare la solidarietà fraterna, quella che veramente ti esce dal cuore e te li senti fratelli…per il resto, è carità pelosa … che ha pure la sua importanza ma lascia il tempo che trova.
Posso dire della mia esperienza con questa famiglia del sud Nigeria, risalente ormai a una decina d’anni fa-che iniziatò per sbaglio, quando alle due del pomeriggio in pieno Agosto venni svegliata dal pisolino pomeridiano che è un rito liturgico per me, e non appena aprii la porta mi venne volgia di richiuderla immediatamente perché mi trovai dinnanzi questo omone di colore con un borsone -non mi serve nulla, grazie- dissi seccata [ma l’avrei detto anche se fosse stato un italiano] -non si preoccupi: posso avere almeno un bicchiere d’acqua-
Era stremato poveraccio! Un bicchiere di acqua, glie ne diedi una bottiglia, avevo della frutta fresca e gli misi, ricordo, una manciata di albicocche e due pesche nel borsone.
Poi in seguito tornò, non perchè dovessi comprare, ma perché quel gesto per lui aveva significato molto, molto di più di quanto non lo fosse in realtà.
In seguito, quando lui partì per un lavoro a Pesaro venne la moglie: una giovane donna incinta grossa, depressa perché sola in un paese straniero, oberata dal peso della merce…come mandare via una donna incinta, non si può!! E cosi’, piano piano siamo diventati amici. La cosa è venuta da sé, con il tempo. Non da un giorno all’altro, è impensabile, ma con chiunque e per chiunque, a prescindere….
Grazie per il tuo racconto, Clodine.
E’ una storia che trovo molto bella.:)
Non credo di avere fatto nulla di trascendentale, se non prestare soccorso a un povero cristo che stava li li per svenire disidratato…niente di speciale, se non quello che è giusto fare!
Vi siete mai trovati dall’altra parte di quello che state raccontando?
Io sì.Ancora oggi, nel Duemila, anche gli italiani possiamo sentirci “inferiori” senza l’accoglienza giusta o le persone prive di pregiudizi.
E quando mi ritrovai nelle mani un questionario, sul posto di lavoro, alla voce “razza” risposi con la parola “umana”.
Non è una questione di provenienza, di cittadinanza, di religione, di lingua o di colore della pelle. E’, sempre ed unicamente, una questione di cuore. Di gente che apre braccia e mente o che chiude cuore e porte.Non si scappa.
E’ proprio così, cara principessa.Sono cresciuta in una famiglia laica, in cui di religione si parlava poco, forse mai, ma aperta al prossimo a 360 gradi. Una famiglia la quale, seppur numerosa -con tutto quello che comporta essere in tanti a condividere le già esigue risorse- tuttavia generosa verso chiunque avesse bisogno, con la cultura della condivisione, pronta a spezzare anche la mollica, il poco, con chi avesse ancor più bisogno di noi. Ti basti sapere che io sono la quinta figlia in ordine decrescente e ho dormito per quasi un anno fianco a fianco con una bambina Turca della mia stessa età [Leila, ancora ricordo il nome]. Una giovane famiglia di Istanbul, di passaggio in Italia per motivi di lavoro. Diventarono amici con i miei frequentando la “maternità” -sai quei servizi sociali che fine anni 50/60 distribuivano latte in polvere e i primi omegeneizzati mellin!?? -ebbene, mio padre volle ospitarli perché li vedeva sperduti; restarono presso di noi per quasi un anno nonostante tutto fosse esiguo già per noi…In seguito si contattarono, per anni, comunicando a monosillabi, conoscendo a malapena qualche parola uno della lingua dell’altro… incredibile…
@Clodine
Niente di trascendentale. Appunto per questo la trovo molto bella.
@Principessa
Sì, mi è capitato piu’ di una volta di avere a che fare con altri europei per motivi di lavoro e “giudicato” un italiano: scoprendo che non ai tempi delle emigrazioni di inizio novecento, ma ADESSO, questo termine ha una precisa connotazione … non propriamente positiva.
Hai ragione, non si scappa. E’ sempre una questione di cuore.
E talvolta pure una questione di superficialità becera, che viene prima ancora della ragione e non fa nemmeno mettere in moto il cuore.Se penso al modo, sia pure sventato e senza pensare a quello che si sta dicendo, con cui due giovani mamme in relax parlavano vicino a me la scorsa domenica prendendo il sole e dicendo ” la mia filippina” e ” la mia rumena” in modo non diverso dal dire il mio lupo e il mio barboncino…Mi farebbe piacere pensare che non fossero cristiane, ma non mi stupirebbe che se ne fossero pure andate devotamente a messa.Al cuore bisognerebbe dare tempo e modo di ragionare, e non farlo solo con la lingua o con la pancia, o, peggio dei peggi, con l’abitudine stracca …