Parlando ieri alla Cei [vedi post precedente] il Papa ha qualificato come “probabile” un “Sinodo per la Chiesa italiana”, senza dare indicazioni di tempo ma di metodo e osservando che “questo [modo di procedere] prenderà del tempo”. Dunque siamo ancora alla fase del progetto, non ancora operativo. Tenendo conto dei riflessi lenti dell’episcopato italiano, immagino che il Sinodo d’Italia – che vedo urgente – si farà sotto il prossimo Papa. Nei commenti riporto le parole di Francesco su questo e sulla riforma dei processi matrimoniali; e aggiungo due mie note.
Francesco dà per “probabile” un Sinodo d’Italia
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Carente collegialità. Papa alla Cei 1. Mi rallegro che questa assemblea ha voluto approfondire l’argomento [della sinodalità] che in realtà descrive la cartella clinica dello stato di salute della Chiesa italiana e del vostro operato pastorale ed ecclesiastico. Potrebbe essere di aiuto affrontare in questo contesto l’eventuale carente collegialità e partecipazione nella conduzione della Conferenza CEI sia nella determinazione dei piani pastorali, che negli impegni programmatici economico-finanziari. Sulla sinodalità, anche nel contesto di probabile Sinodo per la Chiesa italiana – ho sentito un “rumore” ultimamente su questo, è arrivato fino a Santa Marta! –, vi sono due direzioni: sinodalità dal basso in alto, ossia il dover curare l’esistenza e il buon funzionamento della Diocesi: i consigli, le parrocchie, il coinvolgimento […] e il ruolo dei laici; e poi la sinodalità dall’alto in basso, in conformità al discorso che ho rivolto alla Chiesa italiana nel V Convegno Nazionale a Firenze, il 10 novembre 2015, che rimane ancora vigente e deve accompagnarci in questo cammino. Se qualcuno pensa di fare un sinodo sulla Chiesa italiana, si deve incominciare dal basso verso l’alto, e dall’alto verso il basso con il documento di Firenze. E questo prenderà, ma si camminerà sul sicuro, non sulle idee.
Altalena sinodale italiana. Di un Sinodo per l’Italia parlò la prima volta il segretario della Cei Nunzio Galantino al Sir del 5 novembre del 2015: “Sarebbe bello che la Chiesa italiana affrontasse un’esperienza che da troppo tempo non fa: un Sinodo nazionale”. Eravamo alla vigilia del convegno di Firenze. L’idea fu subito avversata dalla maggioranza dei vescovi e a Firenze non venne riproposta, ma si parò di cammino e di metodo sinodali. Nell’avanzare quella proposta di sicuro Galantino aveva il consenso del Papa, ma anche Francesco s’avvide che non era aria. Di cammino sinodale si è continuato a parlare per tre anni, fino allo scorso gennaio, quando tornò la parola Sinodo: e per primo la buttò là – al modo che fa un esploratore – il gesuita Antonio Spadaro sul fascicolo di “Civiltà cattolica” che ha la data del 2 febbraio, ma che era stato anticipato, come d’uso, qualche giorno prima. Il sostantivo Sinodo poi echeggiò a lungo in interviste e articoli di vescovi (Domenico Pompili, Erio Castellucci, Corrado Lorefice) e in tanti commenti dei media ecclesiali. Il mio “Regno” dedicò alla questione un dossier nel numero del 15 febbraio con il titolo “Il tempo di un sinodo nazionale”. Questa ripresa del dibattito ha infine portato alle parole del Papa che mi paiono chiare: il Sinodo si farà ma ci vorrà tempo. Ed è bene che sia così, altrimenti il magno progetto scadrebbe alle dimensioni di un “convegno” come quelli che da mezzo secolo la nostra Chiesa viene convocando ogni dieci anni (Roma 1976, Loreto 1985, Palermo 1995, Verona 2006, Firenze 2015). Dovrà essere – io credo – un Sinodo nel senso canonico del termine, non un confronto sull’impegno storico e politico dei credenti, come i più degli interventi recenti hanno prospettato. Un Sinodo che avvii la “riforma missionaria della Chiesa in uscita” chiesta da Francesco e dalla quale la nostra comunità ecclesiale è lontanissima.
Rammarico del Papa sui processi matrimoniali. Papa alla Cei 2. Sono ben consapevole che voi, nella 71ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, e attraverso varie comunicazioni,[4] avete previsto un aggiornamento circa la riforma del regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale. Tuttavia, mi rammarica constatare che la riforma, dopo più di quattro anni, rimane ben lontana dall’essere applicata nella grande parte delle Diocesi italiane. Ribadisco con chiarezza che il Rescritto da me dato, nel dicembre 2015, ha abolito il Motu Proprio di Pio XI Qua cura (1938), che istituiva i Tribunali Ecclesiastici Regionali in Italia e, pertanto, auspico vivamente che l’applicazione dei due suddetti Motu Proprio trovi la sua piena ed immediata attuazione in tutte le Diocesi dove ancora non si è provveduto. – Il punto che preme al Papa è soprattutto quello del processo breve, mirato a un rinnovato protagonismo apostolico del vescovo, che ieri ha così richiamato: Il processo breviore ha introdotto così una tipologia nuova, ossia la possibilità di rivolgersi al Vescovo, quale capo della Diocesi, chiedendogli di pronunciarsi personalmente su alcuni casi, nei casi più manifesti di nullità. E questo poiché la dimensione pastorale del Vescovo, comprende ed esige anche la sua funzione personale di giudice. Il che non solo manifesta la prossimità del pastore diocesano ai suoi fedeli, ma anche la presenza del Vescovo come segno di Cristo sacramento di salvezza.
Perchè Francesco è dispiaciuto. La riforma del processo matrimoniale è la più importante tra quelle varate a oggi da Francesco. Va letta insieme all’Amoris laetitia e insieme costituiscono una compiuta reimportazione della pastorale familiare. Per indicare solo un punto: il discernimento sulla possibilità di riammettere ai sacramenti chi si trovi in condizione matrimoniale irregolare va condotto – dice l’Amoris laetitia – “sotto la guida del vescovo”; e il vescovo, stabilisce la riforma del processo, deve tornare primo e anche unico giudice delle nullità. I nostri vescovi temono queste responsabilità. E il Papa è dispiaciuto dell’inerzia che ne segue.
Rif. ore 13.31 e 14.32 – Belle considerazioni
Trovo molto da riflettere su quanto esposto – motivatamente – da Accattoli.