Il terrorista e la vittima s’incontrano dopo quarant’anni. Il “Corriere della Sera” racconta l’incontro. Nei commenti le parole dell’uno e dell’altro.
Ernesto e Fausto: gli spari e l’incontro dopo quarant’anni
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Aiutato dalla longevità. Ernesto Balducchi aveva 24 quando organizzò l’attentato nel 1977. Oggi ne ha 64. La condanna fu a 14 anni. Fausto Silini, allora capo reparto della Breda, di anni ne aveva 54 e ora ne ha 94. La longevità l’ha aiutato a vincere il passato: “Basta, si va avanti, quello che è stato è stato”. E’ stato lui a chiedere l’incontro con un’intervista al Corsera del 27 aprile. Da quell’articolo ho preso le sue parole che riporto nel prossimo commento, da un altro pubblicato ieri ho preso le parole di chi organizzò l’aggressione, che metto nel terzo commento.
Fausto Silini. «Tam! Tam! ta! Ho sentito questo rumore secco e ho visto una faccia giovane davanti a me. Poi mi sono accorto che quel ragazzo nella mano stringeva una pistola. Era nera e lucida. A quel punto ho capito: “Cosa fai, cosa fai?” ho gridato. Solo allora ho sentito il dolore e mi sono accasciato davanti al cancello della ditta. Ed è arrivata, in ritardo, la paura. Il 9 giugno 1977, ore 7, 30 del mattino, il solito giro con l’autobus per arrivare, in orario, in azienda. Non me l’aspettavo. I brigatisti mettevano tutti nel mirino, senza scegliere. Il viso e il nome di chi mi ha sparato l’ho voluto dimenticare. Quando i carabinieri, al tempo, mi costrinsero a scendere in Via Filangeri (il carcere di San Vittore, ndr), nella gabbia, per il processo, ho guardato le loro facce senza neppure vederle. Tra i tanti c’era lui, io invece volevo solo dimenticare. Ho un dispiacere: quel ragazzo, mi hanno detto, si è poi pentito e si è rivolto alla Curia per denunciare un deposito di armi arrugginite nascoste in un tombino. Ma il mio aggressore non ha avuto il coraggio di venire da me. Un gesto che invece mi avrebbe riconciliato con la vita. Aspetto ancora d’incontrarlo».
Ernesto Balducchi. «Ho aspettato troppo, mi vergogno come un cane. Era un incontro irrinunciabile, avrei dovuto farlo prima. Il mio nome in codice era Marco, ero il responsabile militare del gruppo, dopo ogni azione lasciavamo un ciclostile con la rivendicazione. Dai compagni venivo considerato la mente, l’organizzatore. All’attentato contro Fausto Silini non ho partecipato, quel giorno ero in fabbrica. Io lavoravo alla Breda Termo, lui alla Breda Siderurgica. Ma non ho neppure fermato la mano armata e invece avrei potuto farlo: questo è il mio rimorso. Dal carcere di San Vittore scrissi al cardinale Martini per annunciare la consegna delle armi. Ero il portavoce di un gruppo che aveva deciso quel gesto. Il cardinale mi rispose, non me l’aspettavo. Allora ho dato l’incarico e le armi, in segno di resa, sono state consegnate. Quel gesto, come quello di oggi, ha un valore universale. Ho appena incontrato un uomo ferito nel corpo e nello spirito, ma questo momento non deve rimanere confinato alle nostre persone. Deve avere un significato simbolico, ecumenico. Lo ripeto da tempo: il carcere, la pena da scontare, non sono il viatico a tante nefandezze commesse. Le vittime devono diventare protagoniste, in un processo di riconciliazione. Solo così si riqualifica tutta un’esistenza. Oggi è stato Fausto che mi ha regalato un po’ di serenità».