LUIGI ACCATTOLI – testo trascritto dal nastro
Questa vuole essere un’occasione di dialogo con persone che si interrogano sui problemi e le sfide della famiglia, introdotta da uno che ha esperienza della vita di famiglia e che cerca di condurla da cristiano. L’interrogativo che mi è stato posto è se sia possibile un lavoro comune tra famiglie di diverso orientamento ideale e culturale; e se, nel condurre tale lavoro, si possa anche avere un confronto e uno scambio significativi tra la visione cristiana e quella laica della famiglia e della società.
La risposta è sì: ambedue le imprese sono fattibili; difficili certamente e senza garanzie sui risultati, come sempre in ambito familiare ed educativo; ma affrontabili. Più che un’opinione, questa è la risposta di chi ha sempre vissuto al confine tra ambiente cattolico e laico, affrontando quello che significa avere una famiglia numerosa in una grande città: 5 figli e due nipoti, a Roma].
Ovviamente io faccio riferimento alla mia esperienza, che è quella della metropoli mentre voi siete in un piccolo centro. Oggi gli ambienti di vita sono omologati dall’uso massiccio di televisione, internet, cellulari e così si può dire di “essere tutti nella stessa barca”, indipendentemente dal luogo dove si vive. Comunque voi dovrete sempre fare la trasposizione di quello che dico nel vostro ambiente.
Detto questo, se è sicuramente conveniente ovunque cercare la collaborazione tra famiglie di diverso orientamento, tale ricerca nella realtà di una grande città è addirittura obbligatoria, anzi inevitabile, dal momento che ricavare un luogo riparato e protetto dalle “correnti epocali” è ormai pressoché impossibile. Lo può forse tentare un single, non certo una coppia con figli.
Non sarà difficile infatti convenire che la nostra è ormai una società estremamente pluralistica, e quindi l’educazione dei figli in un contesto reso artificialmente omogeneo (tenere i figli sotto una campana di vetro, per intenderci) produrrebbe un luogo di crescita eccessivamente costruito, artificioso direi e non rispondente alla situazione reale della società di oggi. Ciò avrebbe per diretta conseguenza il nascere di grossi rischi nel momento in cui i figli crescono, escono e vengono a contatto con realtà completamente differenti e modi d’essere e di vivere che possono attrarre, deviare e creare ribellioni e incomprensioni.
La pluralità culturale e ideale in cui domani si troveranno a vivere i nostri figli e i nostri nipoti sarà ancora maggiore dell’attuale, che del resto costituisce già una sfida impegnativa per tanti di noi che ci siamo formati in contesti e condizioni sociali ben diverse, dov’erano ancora possibili ambienti educativi relativamente omogenei. Dal momento che al giorno d’oggi il mondo è diventato più complesso, è naturale trovare difficoltà nel gestire la diversità che ci circonda e che costituisce una continua provocazione; sono necessarie accortezze e precauzioni in questa prova, perché la tolleranza non diventi una resa e non si venga sopraffatti dal relativismo incombente sul nostro tempo.
Potremmo guardare al pluralismo come a una specificità della nostra epoca e – citando Papa Ratzinger – in esso potremmo facilmente individuare quel pericolo che egli chiama “dittatura del relativismo”. Siamo effettivamente immersi in un ambiente ideologico in cui il relativo diventa impositivo, e nulla può essere considerato assoluto. Ciò è proprio l’antitesi della tradizione ispirata alla morale cristiana e all’umanesimo classico, che tendono invece ad affermare elementi valoriali in maniera forte, reputandoli validi universalmente.
Magari chi ha una formazione laica vedrà meno impellente questo pericolo, ma non credo che esso possa essere negato in toto o ritenuto irrilevante ai fini dell’educazione della nuova generazione. Ognuno che abbia figli può averne la riprova dalla stessa conversazione in famiglia, quando si tratta di motivare, con i ragazzi, le nostre scelte di vita. Perché debbo rispettare il prossimo, perché mi devo occupare della pace nel mondo, con quale criterio deciderò se sposarmi e fare figli? Un laico non si troverà a svolgere argomenti tanto diversi da quelli ai quali ricorrerà un cattolico.
Ma vediamo prima la possibilità della collaborazione e dello scambio e poi torneremo sulle difficoltà che in essi si incontrano.
Come premessa, come icona di possibile e feconda collaborazione tra orientamenti culturali diversi, propongo di riflettere sulle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: ambedue uccisi dalla mafia a distanza di due mesi l’uno dall’altro, nella primavera-estate del 1992, nella stessa città e svolgendo lo stesso lavoro, ambedue partecipi del “Pool antimafia” della magistratura palermitana. Uno era laico e l’altro cattolico e insieme ci forniscono un esempio di felice collaborazione e di comune destino nel martirio.
La forte vocazione al servizio della giustizia, in entrambi i casi, ha segnato anche le rispettive famiglie e per dunque sono due vicende che ancor di più si avvicinano al nostro vivere comune e al tema che qui vogliamo affrontare. Proprio ieri mi sono trovato a fare i loro nomi e a proporre il loro esempio parlando al Festival biblico di Vicenza, a proposito dei “volti dell’annuncio” nella società di oggi. Falcone e Borsellino sono due “testimoni” (la parola greca vuol dire “martiri”) che attestano in maniera forte alle nostre generazioni – quella dei genitori e quella dei figli – la fede cristiana e la fede nell’uomo.
Falcone è laico, incarna ai nostri occhi il concetto biblico di “giusto”: persona retta, con un obiettivo di giustizia, che porta avanti disinteressatamente la sua missione di servizio all’uomo fino a dare la vita in essa.
Borsellino, cattolico praticante, è la figura del moderno martire cristiano: nella fattispecie egli ci si presenta come un martire della giustizia. In un discorso pubblico in una chiesa di Palermo, durante una veglia in memoria di Falcone, dice: “Noi come cristiani dobbiamo mandare avanti l’impegno che Falcone si era preso come laico”.
Siamo quindi davanti a due figure esemplari, un giusto e un martire, che sono morti di morte violenta affrontata consapevolmente, dall’uno in nome dell’uomo, dall’altro in nome del Vangelo; ma combattendo la stessa battaglia, nello stesso contesto, in piena collaborazione. Questi due personaggi ci segnalano dunque la possibilità di una responsabile collaborazione tra cristiani e laici nella risposta alle sfide dell’epoca e la pienezza – addirittura martiriale – a cui tale collaborazione può arrivare.
Passando all’esperienza personale, dirò che un giorno restai colpito da una frase di Padre Livio (il responsabile di Radio Maria) che nella rassegna stampa mattutina si espresse così: “Quando sfoglio la Repubblica e Il Corriere della Sera sento il sibilo del serpente”. Cavolo, mi sono detto: “Doveva nominare proprio i miei due giornali!” Perché sono stato prima alla Repubblica e poi al Corriere.
E’ questo di Padre Livio – persona simpatica, di cui apprezzo la verve, anche nella diversità di posizioni – un modo efficacemente figurato di descrivere un ambiente lavorativo che è quello della nostra grande stampa in cui c’è una netta tendenza anticlericale e anticristiana, ma nel quale comunque mi è stato possibile lavorare e cogliere occasioni significative di sfida – uso la parola in positivo – e di dialogo.
Per un cristiano trovarsi in un ambiente lavorativo di questo tipo significa essere continuamente soggetto a provocazioni; volersi segnalare come cristiano in un luogo come questo non è certamente promozionale, ma è possibile e fecondo di sviluppi, nel senso – come dicevo – dell’approfondimento delle proprie motivazioni e dello scambio. E’ dunque una possibilità che può essere colta, magari anche con entusiasmo, per mettere alla prova la propria vocazione umana e cristiana nella vita di tutti i giorni.
In quella situazione scendere a compromessi senza mostrarsi apertamente nel proprio essere cristiani vuol dire rimanerne fagocitati e venire costretti al nascondimento e all’insignificanza. Molte persone manifestano la fede nella vita famigliare e personale ma nell’ambiente lavorativo risulta più raro trovare esempi di attestazione del proprio credo: ha il sopravvento un pudore per la pratica religiosa simile a quello che si ha nel rendere pubblico il voto politico, tant’è che solo gli attivisti lo fanno e così è anche spesso la tendenza dei cristiani comuni che facilmente si sentono dispensati dal manifestare la propria appartenenza ecclesiale.
Il contesto pluralistico in cui viviamo oggi è un dato di fatto e una provocazione verso chi, da cristiano, sente di avere un’idea e un credo definiti e dei convincimenti validi in assoluto. Lo stimolo a rendere manifesta la propria vocazione cristiana diviene dunque debole e risulta contraddetto da interessi pratici di quieto vivere e di carriera. Ma può anche essere colto e coltivato e crescere fino a divenire più concreto che mai. Esporsi è sicuramente una sfida piuttosto ardua, ma è necessario accoglierla, altrimenti si diventa succubi della “dittatura del relativismo”.
Le occasioni per coglierla non mancano. Viene il momento della riunione dei genitori alla scuola dei figli: con tanti figli questa situazione si è ripetuta più volte. Le maestre che propongono ai genitori di rinunciare tutti all’insegnamento della religione: “così non si divide la classe”. E lì è il momento di dire “no”, che noi quell’insegnamento lo vogliamo.
Oppure è la questione del crocifisso nelle aule scolastiche – che qualcuno vorrebbe tolto e che può essere difeso per via di convincimento più che di regolamento. Ancora più delicata – se spunta – è la questione del crocifisso nel luogo del lavoro. Oppure sarà semplicemente il momento della preghiera in famiglia, se si ha l’abitudine di pregare prima dei pasti – come facciamo a casa nostra da sempre. E si può presentare questa pratica agli ospiti, o si può nasconderla. Io attesto che è possibile presentarla senza offendere nessuno e anzi ricavandone spesso dei ringraziamenti.
Sono occasioni della vita di tutti i giorni che permettono, se colte, di esprimere apertamente la propria fede. E posso assicurare che le si può cogliere senza divenire asociali, ma in maniera piana e amichevole, mantenendo la propria identità di pensiero senza cedere alla tentazione di scontrarsi e di imporre la propria idea, cercando prima di tutto la comunicazione e il convincimento.
Guardando più ampiamente, all’intera scena sociale e politica, il quadro del confronto non muta ma certo si fa più esigente. Oggi viviamo una condizione in cui il pluralismo delle scelte politiche viene accettato dalla Chiesa. Non si tratta dunque di rifare l’unità dei cattolici in politica, ma di animare cristianamente gli ambienti politici in cui ci si trova a operare: se sei di sinistra cercherai di rendere sensibili i tuoi compagni di strada nelle materie della vita e della famiglia che la sinistra coltiva di meno; se sei di destra ti farai fermento per la penetrazione in quell’ambiente dei valori della solidarietà sociale e della pace.
Il modello per l’atteggiamento fedele e libero che sto proponendo io lo vedo in Giovanni Paolo II: egli ebbe a lodare pubblicamente il movimento per la pace e a felicitarsi con i non credenti che si univano alle giornate di “digiuno e di preghiera” che indiceva a tale scopo; allo stesso modo era un tenace avvocato delle organizzazioni sindacali e spronava – per esempio – i sindacati italiani, che trovava troppo moderati, a battersi per la piena occupazione; dunque non aveva alcuna difficoltà a imparentare la sua azione a quella dei liberals e della sinistra; ma contemporaneamente svolgeva una predicazione altrettanto tenace sui temi “eticamente sensibili” e si mostrava riconoscente a chi faceva valere sul piano politico quelle preoccupazioni. Non ebbe remore a lodare il presidente Bush per le posizioni sull’aborto, dopo averlo tanto criticato per quelle sulla guerra. Si appoggiava alla politica francese per il Medio Oriente, ma era severissimo riguardo alla posizione del presidente Chirac contraria all’inserimento della menzione delle “radici cristiane” nella costituzione europea.
Termino con l’immagine di Giovanni Paolo II appoggiato al bastone che fa visita al nostro Parlamento riunito in seduta comune a Montecitorio il 14 novembre 2002: egli parla di pace, giustizia e gesto di clemenza nelle carceri e gli batte le mani la sinistra; poi parla di vita, famiglia, libertà educativa e gli applausi vengono dalla destra. Ebbene, io dico che è fedele e libero e spariglia i giochi chi le mani le batte sempre e si adopera per mettere in onore l’ispirazione cristiana innanzitutto nel proprio ambiente di vita e di impegno politico. Non usando dunque il richiamo ai valori cristiani per dare addosso ai cristiani dello schieramento avverso, ma per sensibilizzare su quei valori l’ambiente c ristiano e non cristiano nel quale abbiamo migliore cittadinanza.
Questo atteggiamento di coerenza privata e pubblica, che richiede coraggio ma che è realizzabile, ci dovrebbe impegnare soprattutto in quanto genitori, perché i nostri figli – e tutti i figli di questa generazione – non restino in balia di un pluralismo disimpegnato e consumistico ma possano vedere e apprezzare in noi e nelle nostre iniziative una manifestazione chiara, solida e cosciente dei nostri convincimenti, sia cristiani sia umani, tale da fornire un punto di riferimento nell’insieme della vita familiare e sociale. Le sfide si presentano ogni giorno e bisogna essere in grado, nella propria condizione, di riprendere e rilanciare sempre il dialogo con i figli, praticando un continuo adattamento del linguaggio e della tematica in relazione all’età.