Reggio Calabria 27 maggio 2011
L’ultimo mio incontro con Lucio Raffa avvenne al Gemelli, un mese prima della morte. Era magro, concentrato sul domani ormai chiaro, ma era anche sereno. Sereno e forte. Tanto da scherzare con me e con altri amici – che si aggiunsero alla fine della mia visita – rievocando gli anni della Fuci e i compagni di università. Aveva con sé un mio libro: “Ho voluto rileggerlo perché con queste pagine mi hai insegnato qualcosa riguardo alla preghiera e in questi giorni mi fanno compagnia”.
Un’altra conversazione – questa drammatica – che ho avuto con Lucio voglio riferire, a prologo del mio ricordo. Fu in occasione dell’aggravamento di don Domenico Farias, il 17 giugno del 2002, appena a don Domenico scopersero la metastasi alle ossa (morirà il 7 luglio). Queste furono le parole di Lucio, forse le più serie che gli ho sentito dire lungo l’intera nostra frequentazione: “Sono stato sconfitto su tutta la linea, sia come medico, sia come amico”. Egli scrupolosamente veniva monitorando l’andirivieni del tumore alla vescica di don Domenico e aveva escluso – o meglio: non aveva messo in conto – la possibilità di un tale sviluppo.
“Sia come medico sia come amico”: potrebbe essere questo il motto riassuntivo del mio ricordo di lui. Ma voglio riferire anche una terza parola detta a me da Lucio in un momento in cui sembrava dovesse affrontare degli accertamenti diagnostici per un’ipotetica cirrosi epatica –se ricordo bene – e dicendogli io che in quanto medico di sicuro avrebbe saputo guardare con padronanza a quell’eventualità: “In questi casi noi medici siamo più disarmati degli altri. Come chiunque teme un secondo ricovero più del primo, così il medico teme per sé anche a motivo dei ricoveri degli altri che magari è stato lui a decidere. Il medico somatizza i mali di tutti”.
In quella stessa occasione mi parlò della sua severa critica all’arte medica: “Io penso che la medicina debba ancora imparare a trattare la persona umana. Per ora si è impegnata a trattare le malattie, i casi clinici. Un trattamento che miri alla persona dovrebbe avere a cuore di evitarle, per quanto possibile, trattamenti chimici, radiologici e chirurgici”.
Quel suo timore – così fraterno – lo memorizzai bene perché dell’interrogativo sull’opportunità di questo o quel trattamento avevamo parlato spesso nei tre anni della malattia tumorale di Michela Ceccon, la mia prima moglie. Avevo visto all’opera quel suo intendimento a evitare al sofferente trattamenti invasivi. Quando prendeva il braccio di Michela tormentato dagli aghi delle flebo e ci spiegava la possibilità di altra assunzione di quel farmaco, o quando sconsigliava di partire per Milano o per Parigi in cerca di consulti e di cure sperimentali.
Quando viene il suo momento – dopo che il ricovero al Gemelli aveva diagnosticato un tumore al colon con metastasi al fegato e ai polmoni – dice ad Anna che non vuole gli venga praticato nessun accanimento terapeutico e di non farlo intubare né collegare a delle macchine se dovesse andare in coma. Era contrario anche a sottoporsi a ogni forma di alimentazione artificiale, compresa quella di tipo integrativo che si può realizzare con la flebo.
La sua situazione clinica non permetteva interventi chirurgici, ma avrebbe potuto affrontare trattamenti chemioterapici che forse gli avrebbero procurato qualche mese di vita: preferì non averli. Nella scelta di questo atteggiamento ebbe un ruolo – secondo il racconto di Anna – l’esempio che gli era venuto da Leletta (Aurelia Oreglia d’Isola, detta Leletta, terziaria domenicana,1926-1993), che era stata molto decisa nel rifiuto dei farmaci e della chirurgia nel trattamento della sua malattia tumorale. Lucio e Anna avevano conosciuto e avevano in grande stima Leletta, alla quale avevano anche fatto visita nel suo eremo di St Pierre (Aosta). Leletta così aveva commentato nel diario la scelta di sottrarsi a tagli e chemioterapia: “Che gioia anche umana aver fatto marameo agli accanimenti diagnostici e terapeutici di questi medici padreterni”. C’era un lampo di questa ironia nello sguardo che mi rivolse Lucio al Gemelli, dicendomi che sarebbe restato ancora qualche giorno “perché vogliono vedere questo e quello anche se non servirà: i medici sono fatti così”.
Del suo timore nei confronti delle malattie e delle cure – paradossale ma anche provvidenziale in un medico – ho raccolto una testimonianza da comuni amici a casa dei quali si sentì male una volta che era loro ospite per la notte: “Un medico che sembrava molto sicuro di sé, in quell’occasione chiedeva aiuto come un bambino”.
Della dignità conservata da Lucio nel progresso della malattia ha dato attestazione il medico e amico Pino Curatola in una conversazione tenuta qui a Reggio Calabria il 17 dicembre 2009: “Ha dimostrato, da uomo di fede, che si può recuperare un significato a una situazione che appare umanamente disperata e che si può vivere la malattia che ci accompagna alla morte in maniera serena, conservando inalterata la propria dignità, senza precipitare nel buio dello sconforto”.
Dovrei dire ora del modo che aveva Lucio di trattare con i bambini. Era un pediatra, era preparato a farlo. Era un papà e dunque aveva due preparazioni. Ma era anche un uomo che sapeva farsi carico di ogni bambino e di ogni figlio, come si è visto nella vicenda esemplare dell’affido di cui è stato protagonista insieme ad Anna.
Sia l’esperienza dell’affido sia quella associativa a sostegno dell’infanzia l’hanno aiutato ad acquisire una precoce percezione dell’abuso sessuale nei confronti del minori, come documenta una sua relazione a un convegno del 1987 sul tema “Tipologia del maltrattamento infantile”, che si tenne a Castiglioncello su iniziativa del Coordinamento Genitori Democratici. In essa, anticipando di una decina d’anni – per quanto riguarda il nostro Paese – la presa di coscienza collettiva di quel problema, sollecitava da medico “l’attenzione sul riconoscimento medico” della violenza a danno dei bambini: “Così si può contribuire a spezzare il ciclo del bambino abusato che diviene a sua volta un genitore abusante”.
Sul suo modo di trattare i piccoli, ricordo quando veniva a Roma e arrivava a casa nostra la mattina quando i bambini ancora dormivano e si decideva che “desse un’occhiata” e la dava – per quante cose dovesse poi fare al Meic o alla Cei. E c’era il problema dell’approccio al bambino che non lo conosceva e che veniva svegliato per quel contatto imprevisto. Difficile dire la delicatezza con cui sapeva farlo e il secondo piano in cui si collocava, riuscendo sempre a rispettare il ruolo primario dei genitori.
Questo ruolo di medico amico lo svolgeva con tutti: riuscendo quasi sempre a comportarsi da amico con le famiglie che lo cercavano nei suoi ruoli ospedalieri e ambulatoriali, e riuscendo quasi sempre a essere anche medico con gli amici, sia a Reggio Calabria sia fuori. Gli amici reggini a Roma erano tanti – mi metto tra loro – con tanti figli e ultimamente con tanti nipoti. E qui mi sovviene una battuta di uno di noi – amici romani – a proposito del proprio quarto nipote, Giorgio, che nasceva al Gemelli proprio durante il ricovero di Lucio: “che non potè, con suo grande rammarico, vederlo e visitarlo, come avrebbe fatto in tempi normali”.
Sia con i bambini, sia per i problemi di salute più gravi – anche degli adulti – sui quali veniva consultato, il suo ruolo era quello di un consiglio umano, in prospettiva fraterna, su ciò che meglio convenisse. Con naturalezza usciva dal ruolo del medico e si faceva compagno di strada e membro di famiglia. Molti si sono rivolti a lui per l’accompagnamento di malati terminali. E diversi tra loro gli riconoscono uno straordinario equilibrio tra funzione medica e amicale, nell’impegno a risparmiare sofferenze con una saggia conduzione della terapia del dolore sempre a basso dosaggio farmacologico, accompagnata da una generosa attivazione di sostegni parentali e amicali. Qualcuno lo ricorda che gioca a carte con anziani in fase terminale.
Forse a questo punto dovrei dire dei ruoli da lui svolti nella Chiesa e nel volontariato medico e sociale, locale e nazionale. “Tutte le strade portano a Roma” dice il titolo che mi è stato assegnato e con generosità Lucio tante volte si sobbarcava alla fatica di venire a Roma e di andare anche più lontano per partecipare a convegni, assemblee e congressi. Discepolo fedele in questo – insieme all’inseparabile Anna – di don Domenico Farias e di Maria Mariotti, benchè non fosse animato dalla stessa loro passione per la convegnistica.
La pastorale della famiglia, ogni occasione proposta dalla Cei o dal Meic, la formazione al controllo delle nascite con metodo naturale sono i temi ai quali più si applicava. Sui metodi naturali ebbi con lui l’unica discussione di contenuto in tanti anni. Su quel tema egli teneva una posizione allineata all’insegnamento ufficiale (che io invece auspicavo potesse evolvere), come anche sull’omosessualità e sulle coppie omosessuali, per quanto riferitomi da comuni amici. Egli era severo nelle posizioni dottrinali ma riusciva per lo più a darne un’interpretazione caritatevole nell’applicazione operativa.
La vicinanza agli ultimi è stata sempre un criterio delle sue scelte. Di ritorno da un convegno internazionale sulla famiglia, vedendo della gente dell’Africa dice a un’amica che lo accompagna: “Sicuramente con loro ci rivedremo in Paradiso”.
Dirò ancora qualcosa della sua conversazione. Aveva sei anni più di me e l’ho sempre sentito come un fratello maggiore. Immediata era con lui la familiarità dell’approccio. Non faceva pesare né l’età né la preparazione. Non cercava di imporsi per nessuna via. L’affabilità, la serietà e insieme il buon umore lo caratterizzavano. Avresti detto che era sempre uguale a se stesso e sentivi nelle parole la forza tranquilla della sua anima, un’umiltà e una mite ironia che lo collocavano costantemente in una posizione di concreta verità. Medico, esperto di problematiche familiari, credente, volontario e amico con tutti e sempre: la sua vita sinfonica, mai disgiunta tra i diversi ruoli, è il suo capolavoro.
E’ toccato a lui ricordare a nome di tutti don Domenico Farias in occasione della messa di addio. Ma in qualche modo anche don Domenico ha detto la sua sulla parabola esistenziale di Lucio, pur avendoci lasciato prima. Un amico infatti ricorda di aver inteso più volte don Domenico dire – negli ultimi tempi – che Lucio “sapeva invecchiare bene”.
Ho accennato – a un certo punto – alla “mite ironia” di Lucio, molto simile all’ironia di don Farias che si esprime in questa battuta sul buon invecchiamento di Lucio. Dell’ironia di Lucio posso fornire un esempio assai vivo a proposito di don Raimondo Lico: ed era bene nominare anche lui, in un appuntamento così carico di “presenze”. Nel volumetto Ricordi e testimonianze dedicato a don Raimondo (che è del 1977) c’è una pagina di Anna e Pasquale Raffa che così descrive don Lico al primo incontro, subito dopo la sua nomina ad assistente della Fuci reggina: “Ci apparve giovane, bruno e tanto abbronzato, che il viso sembrava una sfumatura della tonaca: il tutto unito a quella sua aria sorniona suonò per noi come una sfida alla serietà della Fuci e subito lo rimproverammo per la leggerezza con cui aveva preso quell’incarico. Ci rispose che era stato fuori in vacanza e ci portò a un vicino bar ad offrirci un gelato”. Don Lico reagisce al rimprovero con “ironia bonaria”, dice ancora il testo di Anna e Lucio. La stessa – oso dire – di Lucio che tutti abbiamo conosciuto.
Lucio in quel suo buon invecchiamento diagnosticato da don Farias veniva anche semplificandosi, mentre si faceva sempre più essenziale la sua ricerca di fede. Ne indico tre segni dei suoi ultimi giorni.
Il primo riguarda un suo commento al film Il grande silenzio di Philip Groening (2005) che vide con Anna dopo il rientro a Reggio Calabria dal Gemelli. In quel film si narra di come un monaco anziano e cieco della Grande Chartreuse guardi con serenità all’avvicinarsi della morte. E Lucio ebbe a dire ad Anna: “Per loro è più facile perché hanno già lasciato tutto e tutti”. In queste parole abbiamo un riflesso – io credo – del lavoro di spoliazione che andava conducendo e del quale ho saputo qualcosa dai suoi stessi occhi, quando gli feci visita al Gemelli.
Il secondo segno è anch’esso un ricordo di Anna – che ringrazio per avermelo confidato – e riguarda una riflessione svolta da Lucio a voce alta, uno degli ultimi giorni risvegliandosi dalla sonnolenza che si era fatta abituale. Non faceva terapia del dolore perché – dice Anna – non aveva dolori, ma una specie di progressivo assopimento dal quale si risvegliava appena qualcuno gli parlava. Ed ecco che in uno di questi risvegli svolge una riflessione ad alta voce che è in sostanza una citazione del versetto 4 della Prima Lettera di Giovanni, che Anna e Lucio avevano meditato insieme: “Se uno riconosce pubblicamente che Gesù è figlio di Dio, allora è unito a Dio e Dio è presente in lui”.
Il terzo segno i più di voi lo conoscono ed è detto nella bella lettera inviata da Anna agli amici dopo la morte di Lucio: “Non avevamo chiesto a Dio la guarigione dal male, ma l’aiuto ad accettare la sua volontà qualunque essa fosse e per Lucio la possibilità di morire con dignità, senza accanimenti terapeutici, pregando e partecipando coscientemente ai Sacramenti e all’Unzione degli infermi, così come è avvenuto. Lucio ha offerto le sue sofferenze e il dolore del distacco per amore della nostra Chiesa locale ed è spirato mentre io invocavo il suo angelo custode affinchè lo aiutasse a superare quella soglia che doveva attraversare senza di me”.
Da quando si erano sposati, Anna aveva sempre accompagnato Lucio in ogni impresa, ma ora lei per la prima volta non lo poteva seguire e poteva solo accompagnarlo con la preghiera.
[…] “Stavolta parlo dell’accanimento dei medici: non in chiave medica o giuridica, che non sono miei campi, ma narrando storie come si addice a un giornalista e la storia di partenza è quella di un amico pediatra di Reggio Calabria che è morto di tumore a 70 anni nel gennaio del 2008, lasciando un caro ricordo in un vasto ambiente del volontariato e della Chiesa reggina. Il ricordo di Lucio ravviva in me quello di altre tre storie che alla sua si legano e che riguardano il patriarca Athenagoras, il cardinale Benelli, la terziaria domenicana Leletta. Storie che invitano a guardare con cautela ai ‘protocolli’ medici ma prima ancora a ciò che da essi noi ci attendiamo“: è l’attacco lento di un mio articolo di un qualche impegno appena pubblicato dalla rivista “Il Regno”. Lo trovi nella pagina COLLABORAZIONE A RIVISTE, elencata sotto la mia foto, con il titolo L’accanimento medico e i santi con i quali lo discuto. Chi voglia sapere di più sul primo di quei “santi”, cioè Lucio Raffa, vada alla pagina CONFERENZE E DIBATTITI e chiami quella del 27 maggio Ricordo di Lucio Raffa medico amico (1937-2008). […]