Presentazione di un volume di Piero Giustozzi
su don Ezio Cingolani (1910-1948)
Montecassiano – Palazzo dei Priori – sabato 25 aprile 2015
Sono grato dell’invito a partecipare al ricordo di don Ezio Cingolani, protagonista della carità in tempo di guerra e di dare una mano a comprendere la specificità di memorie comunitarie come questa e le ragioni della loro parziale dimenticanza. Ho letto con interesse l’indagine appassionata di Piero Giustozzi, caro amico della prima giovinezza: non conoscevo don Ezio e poco sapevo della resistenza nel maceratese.
Ho trovato arricchente il profilo del vescovo Aluigi Cossio: una figura singolare, d’uomo colto e cosmopolita, che bene impersona l’intreccio tra lunga convivenza con il regime mussoliniano e improvvisa urgenza di prenderne le distanze che caratterizzò l’ufficialità ecclesiastica di quel periodo. Condivido l’opinione di Giustozzi che la figura di Cossio andrebbe approfondita, come andrebbe indagato l’altro polo dell’attitudine ecclesiastica verso il regime, direttamente incidente sulla formazione di don Ezio: quella fucina di antifascismo che fu il seminario regionale di Fano.
Il mio ruolo – qui – è quello del raccordo di questa vicenda con la scena nazionale della reazione cristiana all’occupazione nazista. Unito a questo mi preme un altro richiamo: della memoria di don Ezio a quella amplissima dei testimoni cristiani del ventesimo secolo, tra i quali vanno acquisendo rilievo quelli che hanno operato nei due conflitti mondiali.
Don Ezio è presentato da Giustozzi come “eroe senz’armi e senza medaglie della resistenza civile”. Sempre Giustozzi ci informa che sul piedistallo del busto in bronzo che gli fu dedicato davanti alla chiesa di Sambucheto in origine c’era la scritta “apostolo della libertà”. Un “eroe nel vero senso della parola” è la qualifica che ne offre il partigiano Florindo Pirani, ispiratore della collocazione del busto. “Non mi consta che si sia occupato di politica” e “non fu combattente” afferma il vescovo Aluigi Cossio in due lettere scritte una prima e una dopo la morte del nostro prete.
In questa varietà di qualifiche sta uno degli aspetti problematici più interessanti della vicenda. Una difficoltà che si incontra con la storia di tanti preti fiancheggiatori dei partigiani, come anche – specularmente – con quelli che ebbero ruoli nelle milizie fasciste.
Per fortuna la narrazione dei fatti è più semplice della loro interpretazione. “Don Ezio – scrive Giustozzi – ha rischiato la vita con i suoi gesti caritatevoli, pur di aiutare e salvare partigiani, renitenti, disertori, soldati sbandati, prigionieri evasi dai campi di concentramento, militari delle forze alleate”. Egli non morì per quei gesti ma essi furono simili a quelli di altri che morirono nel compierli e che noi oggi consideriamo martiri della carità: una qualifica attribuita la prima volta da Paolo VI a Maximilian Kolbe, nel proclamarlo beato (1971), e che oggi è di uso comune nella pubblicistica testimoniale.
Ma fu solo carità quella di don Ezio? “L’insegnamento ricevuto nel seminario regionale lo spinse a opporre al cadente fascismo una tenace resistenza”, scrive ancora Giustozzi. Una resistenza che arrivò alla diretta collaborazione con gruppi partigiani per i quali gestì spostamenti e occultamenti di una radio ricetrasmittente e reperì rifugi per persone ricercate dai nazifascisti.
Anche per questa attività – che non fu di “combattente”, ma certo di sostegno ai combattenti – possiamo ricorrere a una qualifica testimoniale fornita da un Papa, Giovanni Paolo II, che parlò delle vittime della resistenza al nazismo come di “martiri della dignità dell’uomo”: “Essi affrontarono la morte da vittime inermi, offerte in olocausto o difendendo in armi la propria libera esistenza. Resistettero non per opporre violenza a violenza, odio contro odio, ma per affermare un diritto e una libertà per sé e per gli altri, anche per i figli di chi allora era oppressore. Per questo furono martiri ed eroi. Questa fu la loro resistenza” (messaggio Urbi et orbi della Pasqua 1985).
Non è casuale che questa memoria di don Ezio venga pubblicata a settant’anni dalle vicende che ce lo segnalano come testimone della carità e della dignità dell’uomo: solo oggi infatti disponiamo del necessario distacco generazionale da quei fatti e della libertà di spirito per una loro interpretazione rispettosa dei convincimenti di quanti ne furono protagonisti. Per il contesto civile si pensi al “Giorno del ricordo” delle vittime delle foibe istituito nel 2004, per la Chiesa ai primi riconoscimenti canonici di martiri della seconda guerra mondiale: Odoardo Focherini (2013) e Giuseppe Girotti (2014) salvatori di ebrei, il seminarista Rolando Rivi ucciso da partigiani comunisti tra Modena e Reggio Emilia (2013).
Di un’altra maturazione dei tempi dà conto Giustozzi riguardo ai tanti anni che sono stati necessari per mettere a fuoco la figura di don Ezio: “Soltanto di recente alcuni studiosi, anche di sinistra, si sono resi conto di un vuoto di memoria storica, dando parte della colpa ai cattolici che hanno scritto poco di quel periodo […]. C’è pure da sottolineare che storici e studiosi di sinistra hanno trascurato questo aspetto della resistenza per la marcata avversione del clero al comunismo”.
Curando una pubblicazione sulla strage di Farneta (12 certosini fucilati nel settembre del 1944 perché ospitavano in Certosa – a otto chilometri da Lucca – un centinaio di ricercati) mi sono reso conto che il primo ostacolo a fare memoria dei sacerdoti che diedero la vita per nobilissimi motivi negli anni della seconda guerra mondiale è in questa doppia e speculare censura del mondo ecclesiastico e di quello della sinistra.
Il “Martirologio del clero italiano” (pubblicato dall’Azione Cattolica su incarico della Cei nel 1963) censisce 729 nomi: ma registra anche i caduti in battaglia e gli uccisi dai bombardamenti, dalle mine e nell’affondamento delle navi. “I religiosi caduti nelle file della resistenza o uccisi dai tedeschi nel corso di azioni di guerra” censiti dall’“Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza” (Milano 1985, p. 574) sono 202. Antonio Fappani e Franco Molinari (in “Chiesa e Repubblica di Salò”, Torino 1981, p. 210) hanno proposto queste cifre: “158 i preti massacrati dai tedeschi, 33 quelli uccisi da fascisti o da nazifascisti, 108 quelli uccisi da partigiani comunisti o presunti tali, 15 da ignoti”. Rispetto a questo bacino sono poche le figure del clero entrate nella memoria collettiva: fino a ieri la Chiesa era restia a valorizzarle e la cultura laica refrattaria a recepirle.
Forse il vescovo Aluigi Cossio non sapeva che don Ezio era stato a modo suo un “combattente”, oppure ne era informato e proprio per questo non volle che la sua memoria fosse fissata su pietra all’interno della chiesa di cui era stato parroco. Sono grato a Piero Giustozzi per averci fornito gli elementi conoscitivi necessari a collocare la storia di don Ezio nel giusto quadro politico ed ecclesiale. Un quadro che don Ezio e i suoi compagni di seminario volevano mutare e che il vescovo Cossio voleva tenere fermo. Una mutazione che forse solo oggi possiamo considerare realizzata, se solo oggi riusciamo a rievocarla con accurata e serena pietas.
Luigi Accattoli
Nota. Delle categorie “Martiri della carità” e “Martiri della dignità dell’uomo” tratto nel volume “Nuovi Martiri” (San Paolo 2000). Il conflitto storiografico sui fatti di Farneta (Lucca) l’ho ricostruito nel volumetto “La strage di Farneta” (Rubbettino 2014). L. Acc.