Tre sono i sentimenti con i quali nel tempo ho guardato al padre Romeo Panciroli e con i quali oggi lo porto con me: uno professionale che fu di apprezzamento e insieme di non appagamento, un secondo di sintonia non detta nella comune vicinanza a Papa Montini, un terzo di gratitudine esplicita per la sollecitazione a guardare alle giovani Chiese. “Per capire il Conclave devi parlare innanzitutto con i cardinali che vengono dal Sud del mondo”, mi disse durante la Sede Vacante del 2005.
Ho conosciuto il padre Panciroli dopo la sua nomina a direttore della Sala Stampa Vaticana, che è del giugno del 1976: io ero da sei mesi il vaticanista della “Repubblica” nascente. Quando lasciò la Sala Stampa, alla fine del 1984, ero da tre anni al “Corriere della Sera”. I contatti professionali in quegli anni sono stati frequenti, quasi quotidiani, ma non divennero mai amicali: l’amicizia arrivò più tardi. La mia impressione era che da portavoce vaticano si facesse scrupolo di non entrare in confidenza con interlocutori che guardavano alla Chiesa dall’esterno e magari con spirito polemico. Io non ero tra costoro – ed egli lo sapeva – ma lavoravo per testate che lo tenevano sul chi vive.
Volendo abbozzare un inquadramento storico del suo servizio alla Santa Sede prestato per oltre un quarantennio potremmo segnalare che egli viene introdotto nella cerchia montiniana lombarda e romana dal conterraneo Sergio Pignedoli (1910-1980, cardinale dal 1973), con il quale collabora per alcuni anni a Roma e in Africa; e opera fattivamente in quella cerchia a partire dagli anni del Concilio, in stretto contatto con il segretario particolare di Paolo VI Pasquale Macchi (1923-2006, arcivescovo dal 1988), applicandosi in particolare a quattro settori del rinnovamento conciliare: l’aggiornamento della figura papale e dell’Appartamento Pontificio, il rapporto della Chiesa di Roma con i media e con l’arte contemporanea, i viaggi internazionali dei Papi, il dialogo con l’Islam.
Tra gli impegni svolti dal padre Romeo quello di portavoce del Papa è stato il più rilevante dal punto di vista della risonanza pubblica, o quantomeno quello che l’ha reso famoso, ma non è stato il più duraturo quanto all’eredità che ha lasciato. Se la figura papale impersonata da Paolo VI fu così salda da durare un mezzo secolo (a mio parere solo con Francesco abbiamo un suo vero superamento), la figura di portavoce papale interpretata dal padre Panciroli ebbe invece una gittata minore e presto oscurata dal protagonismo del successore, lo spagnolo Joaquin Navarro-Valls, che aveva un’esperienza diretta del giornalismo internazionale e che si trovava perfettamente a suo agio davanti alle telecamere, ai microfoni e ai taccuini dei colleghi di un tempo.
Credo di poter dire che il padre Panciroli da portavoce mirasse a narrare il Papa con la stessa inventiva con la quale una volta – da missionario comboniano – si era applicato alla narrazione delle missioni, specie attraverso documentari televisivi e filmati; ma rispetto a quella divulgazione ad intra, egli era meno preparato all’interlocuzione ad extra con i corrispondenti dei media commerciali che a partire dal Vaticano II (1962-1965) avevano preso a interessarsi tumultuosamente alle vicende vaticane.
Aveva una preparazione di prim’ordine sulla problematica teorica della comunicazione ecclesiale: prima che gli venisse affidata la Sala Stampa aveva lavorato in posizione di responsabilità al documento “Communio et progressio” (1971), che segna una tappa nell’apertura della Chiesa all’informazione multimediale. Ma forse nel rapporto con i giornalisti la pratica conta più della teoria e il padre Romeo che era stato audace nel proporre quell’apertura risultò poi timido nell’esecuzione della stessa, o almeno così apparve a noi giornalisti. Era difficile, per esempio, convincerlo dell’opportunità di porre alle autorità della Santa Sede i quesiti conoscitivi agitati – a torto o a ragione – dai media. “Posso assicurarla che qui la questione non è vista così’” era una delle sue risposte abituali, formulate sempre nel tono mite e fermo che gli era caratteristico.
Non gli fu difficile ampliare l’attenzione della Santa Sede – per quanto era di sua responsabilità – all’insieme dei media e in risposta allo svolgimento quotidiano dell’attualità giornalistica internazionale, portando questa attenzione molto più avanti rispetto alle modalità già sperimentate dai precedenti portavoce Vallainc (1966-1970) e Alessandrini (1970-1976). In questi ampliamenti egli era favorito dall’esperienza cinematografica – che l’aveva portato più volte in Africa – e dall’essere stato già in varie sedi diplomatiche come collaboratore di Pignedoli.
Personalmente gli sono grato per le conversazioni professionali che ebbe la pazienza di intrecciare con me che pure gli facevo domande, a nome dei lettori dei miei giornali laici, sui temi spinosi delle finanze vaticane, della morale sessuale, della possibilità delle dimissioni papali, che iniziarono a essere dibattute quando Paolo VI compì ottant’anni, nel settembre del 1977 e il vicedirettore dell’Osservatore Romano, don Virgilio Levi pubblicò un articolo intitolato “Perché il Papa non si può dimettere”. Io contestavo quell’affermazione appellandomi alla storia e al Diritto canonico ed egli – che era buon amico di don Levi – un giorno mi rispose: “In passato ci sono state rinunce di Papi e in futuro potrebbero tornare a esserci ma oggi non sono possibili”.
Come nunzio in Liberia, Gambia, Sierra Leone, Guinea e poi in Iran era più facile telefonargli e avere da lui qualche notizia, o l’interpretazione d’un fatto. Una volta potei intervistarlo per il “Corriere della Sera” sull’Iran del presidente riformatore Mohammad i Khatami e sulla venuta di Khatami dal Papa nel marzo del 1999. Questo fatto è significativo della sua riservatezza di portavoce e di nunzio: in trent’anni di frequentazione, l’intervistai una sola volta. Fu un colloquio interessante che riletto oggi lascia intravedere la costruttiva passione con cui il nunzio Panciroli si era dedicato all’impresa del dialogo con l’Islam.
Il padre Romeo negli ultimi tempi – da quando aveva lasciato ogni incarico per ragioni di età ed era un “nunzio a disposizione della Segreteria di Stato” – si era fatto più affabile e volentieri confidava agli amici i suoi convincimenti.
Indimenticabile l’ultima conversazione che ebbi con lui al ristorante i Quattro Mori, nella vicinanza del Vaticano, alla vigilia del Conclave del 2005, meno di un anno prima della sua morte. Io facevo domande sul futuro Papa ma lui, prima e dopo di avermi parlato di ciò che stava avvenendo nelle Congregazioni generali, voleva che gli raccontassi di me e dei figli: “Che donna è la tua moglie? Come crescono i tuoi ragazzi?”. Ancora gli sono grato per quel vivo interessamento.
Significativa fu anche la battuta che fece mentre camminavamo verso il ristorante tra le mani tese di donne questuanti, in parte zingare, in parte latinoamericane: “La Sicurezza Vaticana ci ha detto di non dare nulla perché dietro c’è una mafia. E’ diventato difficile fare l’elemosina”. E chiedeva: “Tu come ti regoli?”.
Sulla figura di Ratzinger come futuro Papa – di cui parlammo quel giorno – non sapeva decidersi: “Meriterebbe il Papato – diceva – ma non so come lo prenderebbero le giovani Chiese”. Capii da quelle parole che in fondo il padre Romeo era sempre restato un missionario e in ogni stagione aveva avuto, in qualche modo, il cuore laggiù. “Ieri mattina – raccontava – ho accompagnato per via della Conciliazione e in Basilica il cardinale di Addis Abeba: vedessi come era commosso. Non finiva di guardare quella moltitudine che faceva la coda per vedere il Papa. Vorrei che ci fossero qui i miei fedeli, diceva. Io penso che questi uomini che vengono da lontano anche quando saranno nella Sistina avranno gli occhi pieni di quella folla e si lasceranno guidare dal cuore”.
Sono certo che la “Chiesa in uscita” di Papa Francesco sarebbe piaciuta al comboniano Panciroli, ma forse il buon Romeo non avrebbe spontaneamente gradito la parziale fuoriuscita del Papa delle periferie dal Palazzo Apostolico. Nell’introduzione al volume L’Appartamento Pontificio [Editalia 1971] aveva scritto a premessa che “la Cupola di San Pietro e il Palazzo Apostolico hanno il valore di riassumere la universalità dei credenti in Cristo”. Egli dunque attribuiva a quel Palazzo un’importanza superiore a quella che gli riconosce il primo Papa eletto dopo la sua partenza da questo mondo.
Il padre Romeo aveva realizzato in vita un buon equilibrio interpretativo del rapporto tra la dinamica centrifuga della missione alle genti e la preoccupazione centripeta del Papato; e aveva collaborato all’aggiornamento della Santa Sede alle dimensioni nuove del mondo, mirando a un rafforzamento della sua proiezione “ad gentes”, ma forse non immaginava che proprio su questo fronte di lì a poco le cose avrebbero ripreso a correre più veloci che mai. In quella stessa introduzione al volume fotografico sul Palazzo Vaticano aveva così riassunto il segno della ristrutturazione dell’Appartamento Apostolico avvenuta con la sua collaborazione nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso: “Non è più una reggia, oggi è veramente la casa del Padre”.
L’intuizione era giusta e credo che se fosse ancora tra noi il padre Romeo, in definitiva, non si dorrebbe del fatto che quella “casa” – ch’egli aveva contribuito a sboccare da una storia che era restata ferma troppo a lungo – ora viva un altro e più audace mutamento nel segno della missione, che sempre fu il suo.
Luigi Accattoli