Chiesa superiore di San Claudio
Sabato 13 aprile 2019 – ore 17.00
Questo libretto è un appello perché si scavi a San Candido e perché non si smetta troppo presto dallo scavare, com’è già avvenuto. E non solo questo: l’autore chiede che scavando non si trascuri nulla di ciò che sappiamo e di ciò che non sappiamo di questa straordinaria memoria dei tempi che furono. Per quello che conta, io l’appello lo condivido.
Le mura di San Claudio a casa loro tra il grano e il granturco: è l’immagine che sempre a me torna dalla prima volta che la vidi. Avevo vent’anni, c’era il sole. Quelle torri del colore del fieno mi parvero degne di un re.
Ci tornai tre decenni dopo e potei vederne ogni angolo, ammesso al cantiere dei restauratori. Sbirciai le scale a chiocciola all’interno delle torri, che permettevano di salire dalla chiesa inferiore alla superiore come si fosse dentro a un castello e si passasse dal cortile dei villani al piano dei cavalieri. San Claudio è così, a ogni pilastro spunta una leggenda.
Vi ero tornato perché di San Claudio avevo letto in una pagina arguta di Vincenzo Cardarelli, che era vissuto a Roma ma aveva scritto con giusto orgoglio “sono marchigiano anch’io”, dunque proprio come me che qui sono nato – nella campagna tra Recanati e Osimo – e vivo a Roma. Quella pagina del volume di viaggi “Il cielo sulle città” (1939) narra la familiarità dei contadini piceni con le rovine di Helvia Recina, con il Castello della Rancia e – appunto – con la chiesa di San Claudio al Chienti. Annota che i mezzadri della Mensa arcivescovile di Fermo si “giovavano” della parte superiore dell’edificio “come di una soffitta e di un ripostiglio per gli attrezzi agricoli” e ciò facendo non intendevano certo profanare “la loro chiesetta romanica”.
Leggendo, tra l’ammirazione per la bellezza della prosa d’arte mi saliva una critica: ma Vincenzo che dici, “chiesetta romanica” l’alma San Claudio? Se ha due torri non può essere una chiesetta! Io discuto con gli autori che leggo.
Mi è poi capitato di vedere foto d’inizio Novecento dove le absidi e i pagliai che a esse si accostavano familiarmente erano tutti dello stesso colore. Quelle immagini mi hanno riconciliato con il conterraneo Cardarelli che aveva colto la continuità connaturata tra i campi e l’alta San Claudio. Ecco l’aggettivo giusto, Vincenzo, tu che sei maestro dell’aggettivo: l’alta San Claudio!
I contadini di qui sempre l’hanno cercata – la loro chiesa – per accendervi una candela ed ecco che ora un figlio di questa terra, più attrezzato, pone in bell’ordine tutte le domande e apre la strada agli archeologi che, si spera, ripuliranno e leggeranno le pietre che la terra ha conservato.
“Qui conviene scavare” dice il responsabile di una missione archeologica dopo i sondaggi su un terreno promettente, monitorate le foto aeree, censite le pietre affioranti: ecco, questo lavoro esplorativo del mio amico di prima giovinezza Piero Giustozzi viene a formulare quella valutazione di convenienza. Con buona pace – ancora – dell’acuto Cardarelli che pur guardando con intelletto d’amore alla San Claudio dei contadini aveva concluso che questa non era una terra propizia “per chi voglia andarci a frugare il passato”. Contemporaneo in tutto il caro Cardarelli ai restauratori che ripulirono i muri, i portali e le torri ma solo per un momento posero mente alle pietre che qua e là affioravano sotto gli aratri e i badili.
Giustozzi è lo storico di famiglia che ama il luogo e non cessa di girare intorno alle pietre di sopra che si sono conservate perché care agli oranti e a quelle di sotto che sono giunte a noi perché sconosciute ai predatori. Ma è anche lo storico laborioso che cerca negli archivi e se trova cartelle vuote si chiede perché non sia stata conservata memoria di fatti che pure sono noti per tradizione orale, di persone vive fino a ieri.
E’ infine – il mio amico – lo storico non accademico, meglio disposto a prendere in esame anche le voci e le ipotesi azzardate: “Vanno comunque verificate”, osserva saggiamente. A svolgimento del sottotitolo “Misteri e sparizioni” il libretto dà conto di narrazioni restate senza riscontro scritto e di carte trafugate. Riferisce l’ipotesi d’uno studioso creativo, Giovanni Carnevale, che San Claudio sia da identificare con Aquisgrana e che qui sia stata un tempo la tomba di Carlo Magno.
Può essere che tanta storia sia andata perduta? Di certo le cose che furono sono più di quelle dei libri. A Giacomo Leopardi, che era di queste parti, “fieramente” si stringeva il cuore – confida nel canto “La sera del dì di festa” – “a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia”.
Secondo il tenace Giustozzi le orme bisogna cercarle, facendo tesoro dei minimi segni che arrivano dal passato. Il libretto narra che un giorno qui si trovò, rifacendo una pavimentazione, un guerriero sepolto con la sua spada, che poi sono scomparsi, prima la spada e poi il guerriero. Ovvero trafugati. E informa che intorno a San Claudio ci sono vaste fondamenta che sono state un giorno scavate e poi ricoperte. Riscaviamo – conclude – ma stavolta andiamo più in profondo e più a largo.
Il mio amico ha il sentimento del luogo dove vive. Somiglia in questo a quei contadini che erano capaci di sentire le vene dell’acqua che scorreva sotto i loro piedi e di indicare con sicurezza il punto dove scavare il pozzo.
Come il sensitivo dei pozzi, Giustozzi ha camminato a lungo la terra dove vive. E’ lo storico umile che si appassiona a una pietra. Conoscendo di San Claudio tutto quello che si vede e si racconta, ora afferma che intorno a quelle absidi è ora di riprendere a scavare. Sarà bene ascoltarlo.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it