Presentazione del libro
“Invisibili eroi” di Cecilia Vedana
[Ed. L’Erudita, Roma 2013, pp. 113, euro 12.00]
organizzata dalla FIDAF – via Livenza 6 – Roma
nel corso di un appuntamento in memoria del titolo di “Dottore in Scienze Agrarie”
attribuito a Giovanni Paolo II dall’Accademia polacca delle Scienze Agrarie
27 novembre 2013 – ore 17, 30
Questo è un incontro a più temi e dunque dirò tre parole: una sul Papa polacco e l’agricoltura, un’altra sulla “santità diffusiva” di Karol Wojtyla, una terza sul libro che presentiamo.
Il Papa polacco e l’agricoltura
Pensando a Giovanni Paolo II in rapporto al lavoro dei campi mi viene alla mente la pagina 71 del libretto autobiografico Dono e mistero. Nel 50° del mio sacerdozio [Libreria Editrice Vaticana 1996] nella quale narra l’arrivo nella parrocchia contadina alla quale fu inviato subito dopo l’ordinazione: «Camminavo tra campi di grano con le messi in parte già mietute, in parte ancora ondeggianti al vento. Quando finalmente giunsi nel territorio della parrocchia di Niegowic mi inginocchiai e baciai la terra. Avevo imparato questo gesto da San Giovanni Maria Vianney».
I campi di grano tornano più volte nelle sue memorie e nelle poesie. In una poesia c’è questa veduta campestre, che certamente deve qualcosa – per quel grano che si fonde con la luce – al Van Gogh meno tormentato, quello innamorato dei campi della Provenza: «Quando penso “patria” odo ancora il fruscio della falce / che tocca un muro di grano / divenuto tutt’uno con la luce abbagliante del cielo» (K. Wojtyla, Il sapore del pane. Poesie, Libreria Editrice Vaticana 1979, p. 120). Quel “muro di grano” nel dialetto della campagna marchigiana tra Recanati e Osimo, nella quale sono nato, è chiamata “fitta” e mi fa pensare a come sia stato coeso nei secoli l’immaginario popolare tra la Polonia, le Marche, la Provenza. E oltre.
Più tardi, chiamato a Cracovia per occuparsi dei giovani, il giovane Wojtyla fonda un gruppo che denomina «Srodowisko» [ambiente], per mettere i ragazzi a contatto con la natura, che considera un canale privilegiato per arrivare a Dio: «Sole e stelle, acqua ed aria, piante ed animali – dirà il 27 maggio 1984 a più di cinquemila giovani durante la visita pastorale a Viterbo – sono doni con cui Dio ha reso confortevole e bella la dimora che nel suo amore ha preparato all’uomo sulla terra».
La santità diffusiva di Giovanni Paolo II
Nel volumetto di Cecilia Vedana, dove una decina dei 27 racconti hanno il Papa polacco sullo sfondo, Giovanni Paolo ci viene incontro come figura archetipa o comunque simbolica fatta oggetto di una qualche attenzione da parte della più diversa umanità: e così è stato per tanti – oso affermare – nella realtà dei decenni a cavallo del XX° e XXI° secolo, per persone dei più diversi paesi e delle più varie condizioni che sono state ridestate alla fede, o quantomeno alla speranza, dalla testimonianza umana e cristiana di questo Papa. Il suo specifico è stato di essersi presentato al mondo come un uomo pienamente appartenente alla sua epoca eppure pienamente capace di mettersi in Dio.
In occasione della proclamazione a beato di Giovanni Paolo II – che il prossimo 27 aprile sarà proclamato santo – ebbi a condurre un’indagine sull’irradiazione della sua “santità diffusiva”, o santità “che converte”, come conclusi con il chiamarla [Convertiti da Karol. Inchiesta sulla santità diffusiva del beato Wojtyla, “Il Regno attualità” 12/2011], raccogliendo una quarantina di testimonianze di persone che nella sua figura, nella sua predicazione, nella sua reazione alla sofferenza avevano trovato un aiuto a vivere o a credere. Non credenti o cristiani dubbiosi, non praticanti, conviventi, divorziati risposati e altri sono stati raggiunti in qualche modo dalla sua “santità”; e questa stessa attrazione in definitiva attesta – per via di intuizione d’artista – la nostra Cecilia nelle storie che gli dedica e delle quali sono protagoniste venditrici di fragole al mercato di Cracovia, ragazzi, mamme e bambini, sposi polacchi, funzionari di partito che per un momento della loro vita spensierata o tribolata si voltano verso di lui.
Il segreto è nella “parola scambiata”
Il terzo spunto di questa mia divagazione è più complesso e riguarda la scrittura di Cecilia, ovvero il tipo umano, l’idea d’umanità che la sua arte narrativa tende a comunicare. Il segreto di questa scrittura lo chiamo “parola scambiata”. Lo faccio in analogia al motto “Parola data” che l’arabista francese Louis Massignon (1883-1962) ha posto a titolo di una raccolta di saggi [tradotti in italiano da Adelphi nel 1962: un libro che sarebbe bene leggessero i denigratori dell’islam] dove nella fedeltà alla “parola data” egli individua un basilare riconoscimento d’umanità tra gli appartenenti alle religioni monoteistiche e – in definitiva – all’intera specie umana.
In similitudine alla sintesi dell’umano individuata da Massignon, noi potremmo indicare una chiave di lettura di Invisibili eroi nella parola offerta e scambiata – o solo desiderata, o rimpianta – dai suoi personaggi. Essi spesso affidano al commercio della parola la più preziosa, la prima e l’ultima carità di cui sono capaci, o della quale sono in attesa.
Tra i 27 racconti quello emblematico della parola scambiata – cioè giocato tutto, imperniato su di essa – è “Il cappotto” (pp. 78ss), dove la spessa estraneità tra Mohammed e Bepi, fatta di secoli e di denaro, si scioglie nelle parole che si scambiano in una sera di neve ghiacciata, in una “città sul Piave” che intuiamo sia la Belluno dove Cecilia è nata: “Parlano tra uomini, come solo tra uomini accade” (p. 82). Lo scambio del “cappotto verde” di Bepi e dei “calzini grigi” che Mohammed va vendendo segue e prolunga quello scambio di parole.
Oppure a pagina 93s dove una “mamma canguro” – una turista tedesca che ha il bimbo nel marsupio – strappa infine una parola amica a Sara, ostinata a piangere la sua tristezza che non vuole parole: “E’ ora che ti scaldi la pappa”.
Arina che dice solo “mi dispiace molto” al “matto di piazza San Polo” e con quelle poche sillabe lo consola nella sua infelicità divenuta pazzia, che blocca ogni parola in chi l’incontra (48). Nessuno può dire che cosa possa venire da una parola scambiata tra gli umani.
A pagina 43 c’è un dialogo a gesti – che si faranno parola – attraverso i vetri dell’auto sotto la pioggia, in una Berlino di tutti i muri, tra una figlia senza padre e un padre senza figlia le cui storie si direbbe combacino come le due parti di una moneta spezzata. Quante vite che si spezzano – cioè si separano – anche in città senza muri armati e divisori, e sotto piogge meno metaforiche.
A pagina 58 c’è la domanda azzardata da cui nasce un matrimonio di periferia, umile ma capace di unire due solitudini e forse di salvarle. Ma è tutto il volumetto che può essere letto seguendo questo il filo dello scambio di parole. Dalle bambine ammutolite per l’emozione che infine a pagina 20 riescono a gridare “viva il Papa” (qui è un tocco autobiografico, confessa l’autrice di questo omaggio a Giovanni Paolo), al ragazzo dello sbarco a Lampedusa che non conosce una sola parola di italiano e a pagina 70 saluta con un “ok” che “spunta tra le sue dita stanche” i coetanei che l’osservano sbarcare, ammassati ai bordi di una piazzetta che dà sul molo.
A pagina 53 c’è forse la più preziosa di queste sillabe scambiate ed è una parola non detta, di un impiegato di Banca che infine si ripromette di conversare con il portiere dell’agenzia in cui lavora, al quale nessuno – e neanche lui – rivolge mai la parola, ma quando Giuseppe Maria fa per avvicinarglisi al ritorno dal fine-settimana lui, il portiere Gildo, non c’è più, forse è morto, forse momentaneamente assente, forse andato in pensione, non viene chiarito, ma è chiaro come tante occasioni d’umanità noi le perdiamo senza avvedercene; questo io credo ci voglia dire cristianamente la nostra scrittrice: “Sì, questa volta si sarebbe fermato. Avrebbe scambiato due parole con lui”.
Così ho letto i racconti di Cecilia, alla ricerca di una parola amica, un segno dell’umano dato e ricevuto. Con gratuità e gratitudine.