Mi assegno il compito di abbozzare un passaggio guidato tra il tema del riconoscimento dell’umano proposto quest’anno dal Premio Castelli e quello del convegno che chiama a discutere del carcere secondo umanità.
Parto dall’affermazione che è l’esperienza dell’incontro che rende possibile il reciproco riconoscimento dell’umano e che restituisce la consapevolezza della propria dignità a chi teme d’averla perduta, o si vede trattato come se l’avesse perduta.
Il carcerato porta il segno di una condanna sociale che lui per primo può percepire come esclusione dall’umano. E’ una percezione errata, in contrasto con i principi base del nostro umanesimo e non perseguita dal nostro ordinamento, per il quale “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (articolo 27 della Costituzione italiana). Ed è una percezione che va combattuta promuovendo appunto l’esperienza dell’incontro.
Il riferimento è a ogni tipo di incontro realizzabile nella condizione del carcere e ipotizzabile a sua modifica: dei detenuti con i familiari, con i volontari, con gli educatori, con le vittime del proprio comportamento. In appuntamenti individuali e in momenti di socialità condivisa.
I partecipanti a tutte le edizioni del nostro premio hanno sempre espresso, nei modi più vari, lo stesso anelito: che la nostra società avverta l’opportunità di riconoscere e valorizzare – come via primaria per l’umanizzazione del carcere – il contatto dei detenuti con la società circostante. Anche nei testi premiati e ascoltati stamane, durante l’assegnazione dei premi, era presente quell’anelito.
Sappiamo quanto sia difficile oggi “visitare i carcerati” come pure è comandato dal comune senso di umanità prima che dal Vangelo. Il nostro Premio si inscrive tra le tante iniziative miranti a dare seguito a quel comandamento del “visitare”: tante, disseminate per il Paese e condotte da varie aggregazioni e da singoli; ma pur sempre poche, pochissime rispetto al dramma dell’umanità reclusa. Ben pochi ad oggi nella nostra società hanno coscienza che tra le pene aggiuntive che gravano sui detenuti – quali il sovraffollamento, la lentezza della giustizia, la mancanza delle condizioni minime di vivibilità degli ambienti – quella della difficoltà di comunicare con l’esterno è di certo la più invasiva.
L’incontro con il reietto ha una chiara matrice evangelica. Tocca il lebbroso e lasciandosi toccare dalla prostituta, parlando con la samaritana, mangiando con i pubblicani, Gesù insegna a vincere le separazioni che stabiliscono indegnità morali e impurità legali. Da quel comportamento superante le indegnità viene la regola d’oro che è affermata da Paolo nella “Lettera ai Galati”: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina” (3, 28).
Sull’esempio di Cristo, il cristiano non ritiene nessuno escluso o perduto e quando vede che un “fratello” è ritenuto tale egli si sente chiamato a muoversi per il suo recupero.
Attenzione, tuttavia: l’esperienza dell’incontro non restituisce la dignità, ma la sua percezione. La dignità di figlio di Dio – o, per dirla laicamente: di appartenente alla comune famiglia umana – non è perduta mai da nessuno, neanche dall’omicida. Essa permane, ferita magari e oscurata, ma intera, in chi è ritenuto indegno e persino in chi si ritiene indegno. L’incontro la evidenzia, la onora, la valorizza, ma essa permane inalienabile in ognuno, nonostante ogni traviamento.
La colpa non cancella la dignità del colpevole: da questo insegnamento centrale della tradizione ebraico-cristiana potremmo trarre spunti di arricchimento per molti capitoli della nostra attuale ricerca di una via più umana nel rimedio alle devianze sociali.
Per l’impegno a ottenere una moratoria universale nell’applicazione della pena di morte, in vista di una sua completa abolizione sul pianeta.
Per l’aspirazione a un effettivo superamento della pena dell’ergastolo, che ci appare oggi lesiva del rispetto della persona umana in misura equivalente, in linea di principio, con la pena di morte, in quanto come quella considera irrecuperabile il reo e ritiene inefficace ogni pedagogia carceraria che si proponga di far valere la finalità rieducativa della pena. Salutiamo la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che tre giorni addietro ha fatto obbligo all’Italia di rivedere la legge sull’ergastolo ostativo, come una provvidenziale occasione – credo di poterlo affermare a nome della maggioranza dei presenti – per riproporre il nostro impegno in vista del superamento della pena dell’ergastolo. Nella revisione della legge sarà certo necessario tener presenti le esigenze di contrasto alla mafia e al terrorismo, che sono all’origine delle norme da modificare, ma la modifica potrà costituire un buon passo avanti nella umanizzazione del carcere che noi perseguiamo.
Per ogni battaglia mirante all’umanizzazione del sistema carcerario. Il rispetto della dignità umana esige un trattamento del detenuto dignitoso e umano.
Per la ricerca di pene alternative al carcere. Che dovrebbe condurci a ritenere il carcere una misura estrema e di emergenza, da limitare il più possibile e da non concepire mai come sistema sanzionatorio autosufficiente, che realizza in pienezza la sua funzione isolando gli asociali dalla società, mentre la via regale e unica al vero recupero dell’asociale è quella di una più adeguata socializzazione.
Per l’impegno – che caratterizza gli ambienti associativi che danno vita al Premio Castelli e che hanno promosso questo convegno – a realizzare un più diffuso e capillare rapporto tra carcere e società e in particolare tra il mondo del volontariato e l’universo carcerario.
Una costante provocazione a prendere sul serio il comando evangelico della “visita ai carcerati” – dal quale viene il volontariato carcerario cristianamente ispirato – ci arriva oggi da Papa Bergoglio e dalla sua dichiarata predilezione per i carcerati intesi come i più poveri tra i poveri. E’ una priorità che egli afferma fattualmente e in parole all’interno della scelta degli “scartati” che guida la sua azione pontificale.
Francesco vede nei carcerati i più gravi tra i feriti della vita e vorrebbe farsi vicino a ciascuno di loro, come a rovesciare l’idea “ricevuta”, che spesso risulta dominante anche negli ambienti ecclesiali, che vede nei carcerati le persone più lontane e anche più nocive rispetto alla convivenza sociale.
La preferenza di Papa Bergoglio per i carcerati si esprime con le lavande dei piedi nelle carceri, che ad oggi sono state cinque su sette: nel riformatorio minorile di Casal del Marmo, 2013; a Rebibbia, 2015; nel carcere di Paliano, 2016; a Regina Coeli, 2017; nel carcere di Velletri, 2018. Ma si esprime anche, più di frequente, con visite alle carceri o incontri con i carcerati in occasione dei viaggi in Italia e nel mondo, o in particolari celebrazioni in San Pietro.
L’idea di vicinanza che lo guida in tali incontri, l’ha espressa in maniera esemplare incontrando il 23 ottobre 2013 i Cappellani delle Carceri Italiane: “Cari Fratelli, vi ringrazio, e vorrei approfittare di questo incontro con voi, che lavorate nelle carceri di tutta Italia, per far arrivare un saluto a tutti i detenuti. Per favore dite che prego per loro, li ho a cuore, prego il Signore e la Madonna che possano superare positivamente questo periodo difficile della loro vita”. E ancora: “Dite con i gesti, con le parole, con il cuore che il Signore non rimane fuori dalla loro cella, non rimane fuori dalle carceri, ma è dentro, è lì”.
Queste parole del Papa ci servano di monito e di incoraggiamento.
Luigi Accattoli
presidente della Giuria