Convegno Associazione laicale eucaristica riparatrice
Loreto – Auditorium Giovanni Paolo II – Giovedì 16 settembre 2010 – ore 08,30
Quello della mensa è forse il momento più importante nella vita della famiglia. Analogamente lo stare a mensa con il Signore, la domenica, nell’assemblea della grande Chiesa, è per la famiglia, piccola Chiesa, il momento fondamentale, quello che le fornisce l’alimento e il calore necessari alla vita. Senza la celebrazione domenicale la famiglia cristiana è come sperduta, senza madre e senza patria, nel nostro mondo secolarizzato.
«Sine dominico non possumus: Senza la domenica non possiamo vivere» è stato il bellissimo titolo del XXIV Congresso eucaristico nazionale, che si è fatto a Bari dal 21 al 29 maggio 2005. Questa espressione dei martiri di Abitene è stata posta a tema del Congresso per richiamare i cristiani d’oggi – tiepidi con la domenica e a volte anche con l’Eucarestia – all’eroica testimonianza di quanti, in ogni epoca, furono pronti a dare la vita per non perdere il contatto con il Signore e la sua mensa domenicale.
Che cosa avvenne ad Abitene? Era una città dell’Africa “proconsolare”, nell’attuale Tunisia. Nel 303 l’imperatore Diocleziano scatena una persecuzione contro i cristiani ordinando che “si dovevano ricercare” le “divine Scritture” perché fossero “bruciate” e si doveva “proibire di celebrare i sacri riti e le santissime riunioni del Signore” (Atti dei Martiri, I).
Ad Abitene un gruppo di 49 cristiani si riunisce settimanalmente in casa di uno di loro per celebrare l’Eucaristia domenicale. È una piccola ma variegata comunità cristiana: vi è un senatore, Dativo, un presbitero, Saturnino, una vergine, Vittoria, un lettore… Sorpresi durante una loro riunione in casa di Ottavio Felice, vengono arrestati e condotti a Cartagine davanti al proconsole Anulino per essere interrogati.
«Perché hai accolto nella tua casa i cristiani, contravvenendo così alle disposizioni imperiali?» chiede il proconsole a Emerito, che ha ospitato anch’egli una celebrazione. Emerito risponde: «Sine dominico non possumus»; non possiamo, cioè, né essere né tanto meno vivere da cristiani senza riunirci la domenica per celebrare l’Eucaristia. Il termine del latino cristiano dominicum qui ha un triplice significato: esso indica il giorno del Signore, ma rinvia anche a quanto ne costituisce il contenuto e cioè alla sua risurrezione – che in quel giorno viene ricordata – e alla “cena” che in suo nome in quel giorno viene celebrata.
Per noi oggi – nel mondo secolarizzato – non è questione di martirio, ma di scelte controcorrente. Sia come singoli sia come famiglie dovremmo esercitarci a una piena acquisizione di una cultura della celebrazione eucaristica domenicale che ci metta in grado di difenderla dalle sfide dell’epoca.
Sull’esperienza di padre di famiglia indico gli elementi che mi paiono più importanti per un avviamento dei figli alla “gelosia” per la domenica, cioè ad amarla in modo particolare, tanto da non sacrificarla – per quanto è possibile – a nessun idolo: siano essi il lavoro, il divertimento, le vacanze esotiche e quant’altro può esserci oggi proposto dalle industrie dello sport, del divertimento e del turismo.
Il cristiano dunque è geloso della domenica, «giorno di gioia e di ri¬poso»: così la descrive il Vaticano II nella costituzione Sacrosanc¬tum Concilium. Deve esserne geloso: cioè deve diventarlo, o tornare a esserlo. Ma attenzione: non tanto della domenica come giorno li¬bero, riposo collettivo, festa di popolo, ma soprattutto della dome¬nica come «giorno del Signore», cioè come giorno dell’assemblea eucaristica, da cui parte e verso cui converge (fonte e culmine), in unità di tempo e di luogo, tutta la vita cristiana.
Gli altri aspetti della domenica vengono dopo: sono importanti ma non essenziali. È necessaria, al cristiano, l’assemblea eucaristica, come ben avevano inteso quei nostri “padri” di Abitene. E deve organizzare la sua vita, deve educare sé e i suoi figli in modo da poter dare a quell’assem¬blea – sempre – la precedenza su ogni altro impegno. Il resto gli è utile, ma non necessario.
Se uno è geloso della domenica non si accontenta della messa del sabato sera, quando questa antici-pazione non è inevitabile. Quando dico “gelosia” intendo un particolare attaccamento, indico la percezione che per i cristiani la partecipazione domenicale alla celebrazione eucaristica non è solo importante, ma è una felicità. E l’attaccamento – si sa – va oltre le regole.
Il cristiano non ha – per la domenica – i divieti che l’ebreo ha per il sabato e non è costretto all’obiezione di coscienza che i suoi fratelli maggiori attuano in difesa del sabato. Egli può accettare che gli vengano chieste prestazioni di varia na¬tura in giorno di domenica, ma non può accettare che gli venga impedita la partecipazione all’assemblea eucaristica. Per una piena garanzia da tale impedimento egli difende – per quanto può – la domenica come giorno festivo ogni volta che essa viene in questione in campo politico e legislativo, ma anche nell’organizzazione della vita pri¬vata e non la monetizza, non la scambia con nessun altro bene.
La presenza dei figli dovrebbe raddoppiare la gelosia della domenica come «giorno del Signore» da trasmettere loro: perché abbiano un appuntamento fisso con la Chiesa, perché crescano con l’immagine e la memoria di questo tempo libero per la lode a Cristo e l’incontro con i fratelli. Immagini e memoria che agiranno, domani, più efficacemente e più a lungo della nostra parola.
Dovrà trattarsi di una trasmissione per contagio: perché certo non si può imporre nulla ai fi¬gli in quest’epoca. Nulla si può comandare ai maggiori, ma la parte¬cipazione all’assemblea eucaristica non va imposta neanche ai mi¬nori. Su questi agirà la nostra opera di persuasione, sui più grandi il richiamo. Su tutti l’esempio gioioso, da cui solo può venire il con¬tagio.
Dovremmo tendere all’obiettivo di vivere insieme, in famiglia, il giorno del Signore e di andare tutti, finché è possibile, alla stessa celebrazione eucaristica. Discutere nella settimana gli impegni che possono contrastare questo obiettivo. Prevedere l’anticipo o la po¬sticipazione della partecipazione alla messa per chi non può an¬darvi con il resto della famiglia.
Nella famiglia che va a messa tutta insieme vedo anche uno stimolo a una partecipazione corale alla vita della comunità, nella quale ogni membro della famiglia dà il suo apporto: chi sa cantare, chi suona uno strumento, chi disegna, chi è bravo a leggere, chi sa parlare in pubblico e così via. Ci dovrebbe essere una specie di gara a stimolare i piccoli, comprese le femmine, al servizio dell’altare e i grandi a leggere e a partecipare alla processione offertoriale. E chi non sa fare nulla di speciale, potrà dare una mano a pulire, spostare, attrezzare, infiorare, raccogliere le offerte, distribuire fogli e libretti.
Crescendo l’età dei figli, questa possibilità di andare a messa tutti insieme diminuisce. Tale diminuzione dovrà essere compen¬sata da una crescita della conversazione familiare in materia: in modo che, se l’atto si fa distinto, almeno la sua eco comunitaria non venga meno. E nascerà il delicatissimo compito dell’educazione dei figli adolescenti a una gestione responsabile del sabato sera. Non solo per i pericoli che corrono, con rientri troppo tardivi, ma innan¬zitutto per la necessità che siano svegli e partecipi all’appunta¬mento con la liturgia domenicale.
Se un figlio va ospite di domenica, preoccuparsi che partecipi alla liturgia con la famiglia ospitante, o che quantomeno proponga questa partecipazione. Educare i figli al recupero della liturgia do-menicale della Parola, se non si è stati a messa. Evitare impegni con famiglie o ambienti che non sentono il dovere cristiano di porre al centro della domenica la partecipazione alla mensa eucaristica. Anche questo sarà un segno di una vera gelosia per la domenica.
Ho parlato – come è giusto – da padre di famiglia e dunque di ciò che possono fare le famiglie per una piena fruizione della celebrazione eucaristica domenicale, nel nostro mondo secolarizzato. Ma mi permetto anche un’idea su ciò che potrebbero fare le guide della comunità, i sacerdoti e i vescovi. Forse potrebbero stimolare la comunità a prolungare il momento conviviale eucaristico in altre convivialità, da organizzare con l’apporto di tutti, il più frequentemente possibile e le più ampie possibili. Se le nostre comunità ritrovassero la convivialità, sarebbero più calde, accoglienti, festose. E verrebbe stimolata la partecipazione di chi in chiesa non sa come ci si muove, ma in una tavolata si trova perfettamente a suo agio. Quella partecipazione si ripercuoterebbe poi nell’assemblea eucaristica, che ne uscirebbe anch’essa arricchita.
In ordine a questa convivialità prolungata e tornando al ruolo delle famiglie, suggerirei loro di andare sempre nella stessa chiesa e sempre alla stessa messa, di arrivare con un po’ di anticipo e di prendere un po’ di tempo per trattenersi dopo. Di invitare degli amici a partecipare a quella messa. Di andare insieme – dopo – a prendersi un caffè, di proporre al parroco di attrezzare un locale dove fermarsi a conversare e – magari – a leggere il giornale. Di adoperarsi a far crescere, intorno alla mensa eucaristica, uno spirito, un calore e una cultura di famiglia, che risulti attrattivo per i più giovani e per gli ospiti occasionali.