Sarà una presentazione narrativa – giornalistica – basata sulle mie inchieste riguardanti il perdono nei fatti di mafia e di terrorismo ma anche negli omicidi comuni, che ho condotto per i tre volumi “Cerco fatti di Vangelo” (il primo pubblicato dalla SEI nel 1995, gli altri due dalla EDB nel 2011 e nel 2012).
Rapida presentazione di nove storie di perdono e più ampia di una decima, riguardanti tutte il perdono per l’uccisione dei parenti.
Giovanni Bachelet che dichiara a nome della famiglia di perdonare i terroristi che hanno ucciso il suo papà Vittorio, pur riconoscendo la necessità che la giustizia faccia il suo corso (1980).
Stella Tobagi che perdona gli uccisori del marito Walter e li visita in carcere e fa da testimone per le nozze di uno di loro (1980).
Bianca Taliercio per il padre Giuseppe (1981), Agnese Borsellino per il marito Paolo (1982).
I casi di perdono nelle vicende del terrorismo e della mafia sono molto più numerosi, mi limito a richiamare questi per il loro carattere esemplare. Ma uno può obiettare che si tratta di famiglie particolari, preparate, non rappresentative della nostra comune umanità. E allora cito altri casi in cui il miracolo del perdono è attestato in famiglie del tutto comuni e di fronte a delitti della criminalità comune.
Le sorelle di Pietro Maso, che uccide i genitori nel 1991 e loro – Laura e Nadia – che non l’abbandonano nel suo carcere ma lo frequentano e contribuiscono alla sua redenzione.
Margherita Coletta, una delle vedove dei carabinieri morti a Nassiriya (2003).
Recentemente su questa frontiera abbiamo conosciuto Carlo Castagna: il “papà Castagna” di Erba, marito padre e nonno di tre delle quattro vittime di quella strage (2006), che afferma l’intenzione di perdonare appena apprende il fatto e la conferma quando vengono arrestati e condannati i colpevoli.
Teresina Natalino di Lametia Terme che ha parole di pietà per il tunisino responsabile della morte del marito che ha travolto con la sua automobile (2010).
Carolina Porcaro, di Sovico, Monza, che fa leggere un suo appello a rapporti non violenti tra i giovani durante la messa di addio per il figlio diciottenne ucciso da un coetaneo in una rissa da bar (agosto 2011).
E’ dell’estate 2014 la costituzione a Grosseto di un’associazione per il recupero di ragazzi violenti fondata dalla vedova di un poliziotto e dalla mamma del ragazzo che l’uccise nel 2011: le due donne si chiamano Claudia Francardi e Irene Sisi.
Il fatto che merita una più ampia narrazione è quello di cui è protagonista Romolo Rampini di San Giovanni Incarico, Frosinone, che fa una preghiera di perdono alla messa di addio dei genitori e della sorella uccisi da un pazzerello del paese nel 1984; e che io ho avuto modo di rintracciare e di intervistare per il mio volume Cerco fatti di Vangelo 2 (EDB 2011). Egli a distanza di 26 anni conferma la scelta compiuta allora e afferma che quella scommessa sulla parola di Gesù l’ha accompagnato in tutti questi anni e su di essa intende basare le scelte educative che viene compiendo nei confronti dei figli.
L’attestazione del perdono nella nostra vita pubblica è un dono dello Spirito per la nostra epoca. Frequente oggi più che in passato. Dunque un dono rivelatore che può aiutarci a intendere la nostra situazione spirituale. Un dono che ha aiutato la nostra società a non imbarbarirsi nelle prove difficili che ha affrontato con il terrorismo, l’esplodere della criminalità organizzare, il montare della criminalità comune e di quella minuta legata alla droga e all’immigrazione.
Quando sentiamo domandare nei telegiornali, da giornalisti rozzi, “lei perdona” insieme alla deprecazione per quella banalizzazione di un cammino e una decisione che esige tempo e silenzio – insieme dicevo a quella ragionevole reazione dovremmo anche avvertire il significato di quella domanda grossolana: essa non verrebbe posta se quel giornalista ignorantissimo non avesse percepito che il perdono è evento raro e dirompente. E quella percezione egli l’ha avuto perché i cristiani d’Italia hanno rimesso in onore con la loro testimonianza il comandamento evangelico del perdono nell’Italia di oggi.
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C’è un potere nel perdono
scelto da Luigi Accattoli | 10 febbraio 2014
“Dopo la morte di mio padre è arrivata la rabbia, forte come un’onda d’urto. Mamma per prima ha scelto il perdono. Non c’è impotenza nel perdono, ma un grande potere. E’ stata mamma ad arrivarci. La fede ci ha consentito di seguirla”
di Caterina Chinnici
Caterina Chinnici – figlia primogenita di Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia nel luglio del 1983 – racconta nel libro È così lieve il tuo bacio sulla fronte (Mondadori 2013, pp. 129, euro 16,50) la storia della sua famiglia prima e dopo quell’attentato. Nel capitolo decimo narra la “scelta difficilissima” del perdono, anzi della “promessa del perdono” che va “rinnovata ogni giorno”. “È arrivata la rabbia, forte come un’onda d’urto” si legge alle pagine 94-97 da cui prendo le frasi essenziali: “Mamma per prima ha scelto il perdono. Non c’è impotenza nel perdono, ma un grande potere. Continuare a subire quello che è accaduto senza poter far nulla: questa è rabbia. Nulla la cura, nulla che venga dall’esterno. Così, però, non si può vivere. La rabbia è un castigo: ha sempre fame, chiede attenzione, in cambio non restituisce nulla. È anche lei una mala pianta: soffoca le cose buone, allontana da Dio, da se stessi. A papà non sarebbe piaciuta. Aveva accettato di mettere a repentaglio la propria vita e scelto di vivere fino in fondo il suo impegno civile: ora toccava a noi accettare la sua morte. È stata mamma ad arrivarci. Grazie alla sua fede, al suo immutato sguardo buono, comprensivo, sul mondo e sulla gente. Ci ha detto che le persone che hanno deciso e determinato la morte di papà evidentemente non potevano avere umanità. La fede ci ha consentito di seguirla”. Un abbraccio a Caterina, magistrato come il papà, coraggiosa come il papà e come la mamma.
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Teresina Natalino: “Quel marocchino io lo perdono”
“Sì, io lo perdono. Se fosse vivo, Fortunato direbbe lui stesso ai suoi ragazzi: adesso calma, non cercate la vendetta, non seminate odio e discordia nel paese. Sapete, io in classe a Gizzeria ho tanti alunni marocchini, tanti bambini che spero presto di rivedere e di poter riabbracciare. Ecco voglio adesso dir loro che il mio bene non è mutato e tornerò in classe senza rancore, con la voglia intatta di dialogare ancora. Noi eravamo una grande famiglia. Unita, anzi unitissima. Abbiamo cresciuto figli (Alessandro e Chiara, ndr) nella fede cristiana. Ed è per questo che dico che la morte oggi non è riuscita a spezzare questo vincolo, io credo anzi che Fortunato dal cielo continuerà ad accompagnarci ogni giorno che resta nel nostro cammino terreno. Adesso mi aspetto che la giustizia faccia il suo corso, naturalmente, perché io credo nella legge e credo che vada sempre rispettata. Però quello che m’importa veramente non è tanto che il ragazzo marocchino venga punito, quanto piuttosto che egli capisca, che si renda conto, che impari qualcosa da tutto il male che ha fatto. Non conta la pena. Conta l’educazione”.
Sono parole di Teresina Natalino, moglie di Fortunato Bernardi, insegnante di ginnastica ucciso insieme ad altri sei ciclisti domenica 5 dicembre 2010, a Lamezia Terme, da un immigrato marocchino di 21 anni che li ha travolti con la sua automobile.
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Lollò Cartisano e il carceriere che chiede perdono alla famiglia
“Sono uno dei carcerieri di vostro marito io sono di fronte a Dio pentito devo dire una cosa importante per la mia coscienza mi sono pentito della mia azione ho fatto voto con Dio dopo della mia salute [dopo che la mia salute se n’è andata] ho capito tante cose della vita e capisco la vostra sofferenza quindi non riesco a tenermi questo peso voglio che almeno potete avere le ossa di vostro marito”: è l’attacco di una lettera che uno dei carcerieri di Lollò Cartisano – fotografo di Bovalino, sequestrato il 22 luglio 1993 e mai più ritrovato – scrive alla vedova del rapito per chiedere perdono e indicare il luogo della sepoltura. Non ne conosciamo l’autore, dalla lettera si comprende che era malato, forse morente, e invocava il perdono di Dio e degli uomini. La sua lettera è un documento della pietà cristiana ai nostri giorni: come essa possa risvegliarsi nel cuore di un fuorilegge e dare un segno di sé anche a chi quel fuorilegge ha colpito a morte.
Quella lettera andrebbe letta nel dialetto dell’Aspromonte in cui fu scritta a macchina, con tante cancellature ed errori di battitura, senza segni di interpunzione, da qualcuno che non sapeva scrivere a macchina e non sapeva l’italiano: “Sono unu ricarcereri i vostru maritu io sono difronte a diu pentitu ra me azzioni o votato con diu…”. La riporto tradotta, mettendo tra parentesi quadre alcune note interpretative.
Dopo il brano riportato sopra, la lettera così continua: “Questi giorni sono andato nel posto a vedere il punto preciso dov’era ed ho scavato in quel punto preciso e ho trovato le ossa di vostro marito ed ho preso un osso per essere più sicuro e ho graffiato [fatto un segno] sopra una pietra e l’ho messa al posto dov’era voglio da voi una promessa che mi mandate un messaggio sul giornale che mi avete perdonato anche per come abbiamo trattato voi signora che una cosa ingiusta Dio solo può sapere del mio pentimento volevo anche dirvi che io sto rischiando assai perché sto facendo di testa mia voglio dirvi però che non abbiamo fatto del male a vostro marito tutto ad un tratto ci è morto non per colpa nostra ma fu una disgrazia avevamo paura e l’abbiamo lasciato con poca terra di sopra dopo poco tempo siamo andati lì vicino e l’abbiamo sotterrato per bene e allora vi dico dove si trova dovete salire da Natile vecchio [paesino alle pendici dell’Aspromonte, nell’entroterra reggino] andate a Pietra Cappa [Comune di Sal Luca, capoluogo della ‘ndrangheta] scendendo verso il mare percorrete 300 metri circa dovete seguire [una] striscia [di terreno] e dovete arrivare ad acqua dabatu [una località?] e dovete arrivare ad una scaletta che attraversa la striscia e vedrete una busta di plastica attaccata là vicino ad un filo di ferro spinato arrivato là vi dovete affacciare come per guardare i rocchi di san pietro [una località?] vedrete che ci sono illici e broeri [lecci e brughiera] voi dovete proseguire illici illici e broeri tagliati con l’ascia fino ad arrivare ad un ramo di broera secca messa là tra due lati [riparata] da viti e vedrete là vicino pietre tra cui una grossa pietra che è coperta di muschio là sotto ci sono le ossa di vostro marito io però vi supplico di perdonarmi quando vi vedo a Bovalino ne voi ne i vostri figli oso guardarvi in faccia e vi dico di perdonarmi”.
Seguendo le istruzioni del pentito l’ispettore di Polizia Raffaele La Bella trova le ossa di Lollò il 25 giugno 2003: «Ero in ginocchio per terra. Scavavo con le mani. Non avevo altro. Poi, improvvisamente, sento che la terra diventa più morbida. Capisco che ci siamo. Ed ecco comparire un osso. Avevo trovato il corpo di Lollò Cartisano. Ero già in ginocchio e allora mi sono fatto il segno della Croce e ho pregato».
Un mese dopo, il 23 luglio, alcuni quotidiani – tra i quali Avvenire – pubblicano una lettera di risposta di Deborah Cartisano intitolata Carceriere di mio padre vorrei perdonarti:
“Cameriere di mio padre, io vorrei incontrarti (…). Tu ci chiedi perdono, davanti a Dio e davanti agli uomini. Non ci è stato restituito nostro padre vivo, ma ora tu ci restituisci, insieme con le sue povere ossa, una certezza nuova: quella che la sua vita non è stata immolata invano. La sua vita, unita a questi dieci interminabili anni del nostro patire, è stata offerta perché nel cuore stesso di un carceriere di ‘ndrangheta potesse nascere questa sete di perdono. Il coraggio di chiedere perdono. Questo coraggio comporta una vera forza di conversione, per condurre a un reale cambiamento di vita, che porta ad assumersi le proprie responsabilità di fronte a Dio e di fronte alla legge. Questo coraggio ti permetterà di poter guardare negli occhi i tuoi figli, di liberarli dal giogo della affiliazione mafiosa. E non dovranno più vergognarsi per te. Mi piace pensare che mio padre, prima di morire abbia parlato con te, che le sue parole siano penetrate in profondità nella tua anima, che durante questi dieci anni abbiano maturato intimamente la tua capacità – oggi – di chiedere perdono (…). lo prego Dio intensamente di riuscire a perdonarti dal profondo del cuore. So che la forza del perdono è la sola che può produrre conversione. Voglio arrivare a dire: Sì, io ti perdono, ed è per me anche una sofferta, intensa consolazione il riuscire a perdonare”.
La lettera del carceriere non è stata mai pubblicata per intero. Io ne ho avuto una fotocopia dalla famiglia Cartisano tramite il collega Antonio Maria Mira. Mi ha aiutato a tradurla Pasquale Vilardi, reggino doc. La lettera di Deborah la si può leggere qui, introdotta da una riflessione del vescovo Giancarlo Bregantini. Le parole dell’ispettore La Bella le ho prese da Avvenire del 24 luglio 2011.
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Emilia Catalano: “Per i mafiosi chiedo il perdono di Dio”
Emilia Catalano è la mamma di Agostino Catalano, caposcorta di Paolo Borsellino, ucciso a Palermo con il magistrato e altri quattro agenti di scorta il 19 luglio 1992. Questo è l’appello che rivolge agli uomini della mafia quando ha quasi 80 anni, nell’aprile del 2004, nella cattedrale di Palermo, durante la “Pasqua dello studente” presieduta dal cardinale Salvatore De Giorgi:
“Oggi con la stessa emozione e con le stesse lacrime che hanno bagnato il mio dolore lancio il mio appello a tutti coloro che sono armati di odio, di vendetta, di bombe: arrendetevi all’amore di Dio, affidate la vostra vita a Gesù che è risorto. Convertitevi, voi criminali, voi che non avete il timore di Dio. Basta con l’odio, ritornate ad avere un cuore semplice e buono, ritornate al cuore di Maria. Mettetevi nelle mani di Dio e confidate nel suo perdono. Per i mafiosi di tutti i tempi chiedo il perdono di Dio, perché solo lui può mettere pace nei loro cuori e nella loro vita.”
Intervistata da Avvenire, Emilia parlò allora del suo impegno pedagogico, nelle scuole e nelle associazioni, per allontanare i ragazzi dalla seduzione mafiosa: “Da casalinga sono diventata battagliera”. “Per quanti sforzi faccia – disse ancora – non mi riesce bene dire ‘vi perdono’. Agostino ha lasciato tre figli che erano orfani di madre e che non hanno ancora superato il trauma subito. Il perdono dovrà arrivare da Dio e io spero in cuor mio di ricevere anche questo grande dono. Se si pentissero davvero, allora Dio li perdonerebbe. Non dimentichiamoci che il Signore ha perdonato chi lo ha messo in croce. Ma ci vuole la conversione del cuore”.
L’intervista e l’appello sono nell’Avvenire dell’11 aprile 2004 a p. 11: “Hanno ucciso mio figlio. Chiedo perdono per loro”.
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