Convegno pastorale diocesano – Jesi
Seminario di via Lotto – sabato 2 ottobre 2010
Sono stato chiamato qui a raccontare la mia “sintesi”: la mia sintesi cristiana, cioè la mia idea della fede, il mio modo di “tenere insieme o vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo”: sono parole del documento della Cei di inizio decennio, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, riprese dal depliant del convegno. Proverò dunque a dire il mio modo di “tenere insieme”, se pure vi riesco.
Quel documento continua dicendo che “solo così [cioè tenendo insieme e facendo unità in Cristo] i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita”.
E’ già un’imprudenza aver accettato questo invito. Mi sono fidato della intuizione di don Mariano e del vescovo che mi hanno invitato. Anche nella vita ecclesiale – come in quella di famiglia – bisogna fidarsi e affidarsi.
Vedendo l’ordine degli invitati – e che io ero terzo dopo Giorgio Campanini e Paola Bignardi – ho capito che a me spettava andare al largo, verso il mondo profano, verso i non credenti. Il “Cortile dei gentili” come si dice oggi su sollecitazione di Papa Benedetto.
Infatti io ho sempre lavorato e vissuto “in partibus infidelium”, come si diceva una volta – e cioè nel mondo “laico” e “laicista” della grande stampa italiana: sei anni alla Repubblica e 27 anni al Corriere della Sera. Parto dunque da un’immagine sintetica dell’esperienza eucaristica – per usare il linguaggio di questo convegno – nel mio ambiente di lavoro.
Quando c’è un funerale di un collega e ci troviamo in chiesa in un centinaio di redattori del Corriere della Sera – è un fatto che ho osservato più volte – a fare la comunione siamo una decina. Ad avere il crocifisso al muro, dietro la scrivania, c’ero solo io. Una volta insieme a me – e già prima di me – c’era Barbiellini Amidei.
Ecco allora la prima questione: come si fa a “fare unità di tutto in Cristo” se la nostra situazione è così lontana da un’esperienza eucaristica – e, più in generale, da una scelta cristiana – socialmente riconosciuta?
Mi soccorre il fatto che la parola chiave che mi è stata affidata – nella formulazione delle tre conversazioni – sia “libertà”. Devo dunque valorizzare, per quella sintesi, la libertà che mi è stata donata. Non ho binari fissati, devo aprirmi un cammino, devo essere creativo.
Libertà è parola proibita dopo Lutero, che nel 1520 pubblicò il libello – che è un grande testo cristiano – intitolato De libertate christiana. Il cammino ecumenico ci permette oggi di riappropriarcene. In particolare dopo che il beato Giovanni XXIII chiudendo la prima sessione del Vaticano II, l’8 dicembre 1962, esaltò la “santa libertà dei figli di Dio”: Sancta libertas filiorum Dei.
Noi cristiani comuni possiamo essere apostoli nel mondo secolare solo nella libertà. Dobbiamo sapere che solo lo Spirito – che soffia dove vuole – può darci la forza di vivere la nostra vocazione alla libertà senza smarrirla. Ciò vale sia per la vita pubblica, nella quale siamo chiamati a dare ragione della nostra fede, sia per la vita di famiglia: di una famiglia che comunque crescerà in un ambiente secolare e per la tenuta cristiana della quale sarà necessaria una continua libertà creativa, perché c’è da far fronte a nuove insidie.
Vediamo un primo aspetto – che chiamerei comunitario, o istituzionale – di questa libertà del cristiano comune.
Dall’esperienza eucaristica – tutti siamo d’accordo – deve venire una coerenza di vita, che è detta anche “coerenza eucaristica”. Questo termine è stato recepito dall’esortazione apostolica di Benedetto XVI Sacramentum caritatis (2007) che al paragrafo 83 afferma che la coerenza eucaristica richiede “la pubblica testimonianza della nostra fede”, specie “nelle decisioni a proposito di valori fondamentali”, che elenca così: vita, famiglia, libertà educativa, bene comune.
L’obiettivo di questa insistenza sulla “coerenza eucaristica” è che non vi sia contraddizione tra ciò che si professa quando si è a mensa con i fratelli e con il Signore – la domenica – e gli altri momenti della vita personale, familiare e sociale. Ed ecco la tentazione, in tanti ambienti di Chiesa, di cercare una specie di regola del nove, e di provocare l’autorità ecclesiastica a farla propria e a farla valere con pubbliche sanzioni e allontanamento dalla mensa eucaristica di chi trasgredisca: se tu fai questo non puoi fare la comunione. Se sei a favore della guerra, diranno i cristiani di sinistra. Se sei a favore dell’aborto, diranno quelli di destra.
Questa disputa c’è stata a lungo e c’è ancora negli USA, si è svolta con violenza in queste ultime settimane nelle Filippine e l’abbiamo avuta fugacemente anche in Italia, nel 2005, quando un giornalista chiese al vescovo Rino Fisichella, allora rettore della Lateranense e membro del Sinodo sull’Eucarestia (lo stesso da cui è venuta l’esortazione Sacramentum caritatis che ho citato prima): “Mi dica se il presidente Casini [allora era presidente della Camera], divorziato e risposato, e l’ex presidente del Concilio Prodi, favorevole al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, possono fare la comunione”. La risposta fu: “Il presidente Casini non la chiede e non potrebbe riceverla, l’ex presidente Prodi ha diritto di chiederla e di riceverla”. Mentre dunque per la disciplina del matrimonio vigono dei canoni obbliganti, le scelte politiche sono affidate alla responsabilità laicale.
La coerenza eucaristica impone a ogni partecipante alla mensa del Signore di adoperarsi per la promozione della famiglia e più in generale del “bene comune” di cui la famiglia è gran parte. Ma non detta il decalogo delle scelte politiche necessarie a tale promozione. Qui entra in gioco la “liberta” del cristiano: “Esperienza eucaristica e libertà del cristiano”, dice il nostro titolo.
Solo chi è nell’impegno politico e parlamentare può decidere, sotto la propria responsabilità, che cosa giovi e che cosa non giovi, quale strumento legislativo e quale procedura parlamentare si debbano mettere in atto per realizzare il bene comune: non lo può dire un prontuario stilato da teologi o vescovi. La comunità – attraverso i teologi e i vescovi – può indicare i valori e le finalità, ma il modo per dare attuazione a quelle indicazioni non può che ricadere sulla libera scelta delle persone, che rischiano in essa la propria responsabilità, non quella della comunità.
La questione è più saggio svolgerla in positivo, piuttosto che in negativo. Dall’esperienza eucaristica viene un input ispiratore di fraternità, uno slancio comunionale al quale dare attuazione nella costruzione della città terrena. Venendo da quella mensa tu, cristiano, sarai impegnato a estendere quella convivialità nel mondo e nell’umanità circostante. Dovrai cioè farti promotore di una convivenza informata – per quanto possibile – ai principi e ai sentimenti di quella convivialità.
Dovrai tendere a portare quel seme di convivialità nel mondo e nella storia, fino a quando saremo a mensa con il Signore nel Regno dei Cieli. Non dovremmo mai dimenticare che non siamo stabiliti qui, ma qui siamo in cammino, di passaggio, pellegrini.
Ma in pratica come dovremmo muoverci? Creativamente, dicevo. Provo a indicare una modalità concreta per quanto riguarda l’agire politico, nella partecipazione all’una o all’altra delle formazioni che caratterizzano la vita pubblica italiana.
Io questa “avventura” cristiana nella polis l’intendo così – e qui è un poco la mia “sintesi”, quello che mi era stato chiesto di “narrare” in questo convegno: mi farò portatore di coerenza eucaristica innanzitutto nella mia parte politica, nei luoghi dove meglio sono conosciuto e apprezzato.
Con l’Eucarestia in petto si può andare ovunque. Anzi: dobbiamo andare ovunque, assumere – se del caso – ogni responsabilità, ed essere lievito cristiano in ogni pasta umana di cui veniamo a essere parte.
Si tratta, in altre parole, di lottare innanzitutto per fare cristiani i circostanti, che parlano il nostro stesso linguaggio, che con noi condividono il grosso delle opzioni culturali, sociali e politiche; e non per bastonare, con il Crocifisso o con la Bibbia, i cristiani di altro orientamento.
Lievito dunque in ogni schieramento. E poi dialogo e tempesta di cervelli – Brainstorming, si dice oggi – sul “bene comune”, tra tutti i cristiani di ogni schieramento. Confronto aperto di tutti con tutti, su ogni tema, per cercare che cosa si possa fare nel concreto – non sulle alleanze e le decisioni politiche, che si prendono in altri luoghi, esterni all’ambito ecclesiale.
Nella comunità ecclesiale ci si consulta, ci si confronta, si studiano cristianamente le questioni. Poi ognuno sarà libero di prendere la sua decisione, sulla propria responsabilità, nelle sedi dell’azione politica. E potranno essere decisioni diverse tra loro, ma saranno almeno informate della diversità. Oggi invece nella comunità ecclesiale si evita la discussione, per paura delle divisioni – ed è un male, un indebolimento della testimonianza, un peccato di omissione.
Nella professione – e oggi nella conduzione del mio blog – come gioca la libertà del cristiano comune ispirata all’esperienza eucaristica? Io mi sono sempre proposto – e mi propongo tutt’ora – quella stessa funzione di lievito che descrivevo per la vita sociale e politica. Rendere comprensibile – nel linguaggio e nella sostanza – la vita cristiana al mondo secolare; e rendere comprensibili al mondo ecclesiale le obiezioni e le difficoltà di comprensione, ma anche i valori, del mondo secolare.
Si tratta insomma di parlare ogni linguaggio per raggiungere tutti, parafrasando un passo famoso delle lettere dell’apostolo Paolo. Siamo portatori di parole antiche che dobbiamo cercare di ridire in parole nuove. E siamo spettatori – e anche partecipi – di nuove esperienze dell’umano che dobbiamo raccordare, per quanto possibile, ai sentimenti che furono di Gesù.
Infine che ci può dire la coerenza eucaristica per la vita amicale e familiare? Vedendo la difficoltà dei miei figli – che sono cinque – e dei loro fidanzati e fidanzate e amici sfusi, a restare fedeli alla proposta cristiana che hanno ricevuto, in famiglia conduciamo da ormai sette anni una lettura continuata dei Vangeli che si chiama “Pizza e Vangelo” [perché prima si mangia una pizza e poi si legge il Vangelo], con incontri quindicinali.
Il mio suggerimento è di proporre e riproporre sempre ai nostri figli e ai giovani in generale la figura di Gesù e la sua parola, senza dare per scontata l’adesione di fede. Credo che tutti dovremmo avere più coraggio nel parlare a chi si allontana e a chi è stato sempre lontano.
Nel parlare ai giovani propongo questa avvertenza: come Paolo era preoccupato che la congerie delle osservanze giudaiche non nascondessero la novità di Cristo, così oggi le osservanze ecclesiastiche potrebbero nascondere ai nostri figli l’autentico messaggio di Gesù. Ai nostri giovani dobbiamo proporre il Vangelo e non Fatima, la Sindone o Medjiugorie.
Viene l’obiezione: ma siamo pochi! Dico che in forza dell’esperienza eucaristica non dobbiamo cedere a questa obiezione tentatrice. Già il fatto che due o tre si riuniscono nel suo nome – nel contesto secolare di oggi – è un dono immenso di Dio.