Due atteggiamenti e quattro scelte di vita
C’è un modo cristiano di stare nella crisi?
E’ la domanda centrale del convegno. Proverò ad abbozzare una risposta sulla base di quanto ho ascoltato nell’assemblea di ieri pomeriggio e di quanto mi è venuto dalle sintesi dei lavori di gruppo che ho potuto sentire stamane in Curia, in un incontro dei coordinatori dei quattro gruppi con l’arcivescovo e con i suoi collaboratori.
Dall’insieme di questi ascolti ho tratto la conclusione che sia dominante nel convegno il convincimento che non c’è un’economia cristiana come non c’è una politica cristiana, ma c’è un modo cristiano di percorrere le vie dell’economia e della politica come di ogni altro settore o ambito della vita associata: mirando a servire l’uomo, a servirlo guardandolo nella sua vocazione divina, mai disperando delle sue possibilità e mai acquietandoci all’esistente, ma cercando sempre di far valere – in vista di quelle mete – il principio di non appagamento.
Per essere concreto proverò a riassumere in due atteggiamenti e quattro “scelte di vita” la modalità cristiana di vivere la crisi e di impegnarsi per il suo superamento. Gli atteggiamenti sono quelli della duratura speranza e del non appagamento. Le scelte riguardano lo stile di vita, le dinamiche della solidarietà, le politiche sociali, il governo dell’economia.
Mai disperare dell’uomo
Il cristiano ha fede in Dio e fiducia nell’uomo, fatto a immagine di Dio. “Proprio perché crediamo in Dio siamo condotti a servire e a curare la sua immagine, l’uomo”: ci diceva ieri in apertura dei lavori l’arcivescovo.
Il primo segno di questa sua cura dell’uomo il cristiano lo porrà proprio respingendo la tentazione – ogni tentazione, anche indiretta – a dubitare o a disperare della possibilità offerta all’umanità di affrontare le prove che oggi, come sempre, si trova di fronte. Questo vale anche per la prova della crisi che oggi scuote la nostra società e che percepiamo innanzitutto come crisi della sicurezza economica, del lavoro dei giovani, della pensione degli anziani, dell’assistenza ai bisognosi.
Il cristiano resiste alla tentazione del disfattismo, che specie nel tempo della crisi tende a ingigantire le difficoltà e a delegittimare ogni tentativo di soluzione: come se non ci sia più nulla da fare, come se ogni sforzo personale o collettivo sia inutile e comunque destinato a fallire.
Non ha senso enfatizzare la difficoltà che viviamo: che avrebbero dovuto dire, poniamo, i nostri padri e le nostre madri che sono restati per cinque anni nell’inferno della seconda guerra mondiale?
Principio di non appagamento
Mai disperare e mai acquietarsi all’esistente. Mi piace qui citare un detto di Aldo Moro, che intervenendo nel 1973 al XII° congresso della Democrazia Cristiana affermava che il richiamo all’esperienza di fede dev’essere avvertito – nell’agire politico – come “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente”. Ed è bello poter fare tesoro oggi delle parole più significative di un uomo che ha dato la vita in risposta alla propria vocazione politica e che infine riconosciamo tutti – in una sede come questa – quale martire della dignità della persona umana e dell’umana convivenza.
Il non disperare e il non appagamento vanno visti insieme: di fronte all’attuale crisi planetaria il cristiano riconoscerà, come ogni suo concittadino, che poco dipende da lui e poco può fare per rimediare ai mali di cui è vittima o spettatore, ma quel poco lo indagherà e lo compirà con ogni energia, senza mai rinunciarvi in partenza, con la fiducia che anche da un piccolo seme, o segno, posto in controtendenza possa venire un qualche effetto positivo per l’umanità circostante. Nella Liturgia della Parola che abbiamo appena celebrato, abbiamo ascoltato una “lettura” breve tratta da 1 Corinti 5, 6 che diceva: “Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?” La speranza cristiana può ben svolgere la funzione del lievito, che è poco visibile ma è molto efficace.
Cambiare lo stile di vita
Veniamo alle scelte da compiere. Non scelte politiche o partitiche, che non sono il proprio di un ambito ecclesiale come questo, ma scelte “prepolitiche”, ovvero scelte di vita, che possono valere come orizzonte per ogni legittima e varia opzione concreta e infine partitica o di schieramento. Ne indico quattro che possono delineare nel loro insieme una modalità dello stare da cristiani nella crisi e le elenco andando dal più semplice al più complesso.
La scelta più semplice – alla portata di ognuno e di tutti – è quella attinente allo stile di vita. Lo stile attuale, basato sulla crescita illimitata dei consumi, è improponibile all’insieme dell’umanità ed è insostenibile per il pianeta terra.
Checché ne sia del futuro della Grecia o dell’Euro, e del perché ci troviamo di fronte a queste minacce alla nostra sicurezza di vita, e di chi ne sia la colpa, possiamo stare certi che la crisi non sarà indolore e non lascerà le cose come stanno, né le riporterà allo stato in cui erano in precedenza.
Di sicuro “domani” saremo tutti più poveri, tutti dovremo lavorare di più e consumare di meno. Le trattorie – come le osterie di una volta – offriranno soltanto un menù del giorno e mangeremo quello che quel giorno troveremo cucinato. Non butteremo più il pane di ieri e i forni produrranno, come cinquant’anni addietro, un solo tipo di pane. Reimpareremo a rammendare e riusare in famiglia i capi di abbigliamento. Nessuno che viva di un lavoro o di una pensione abiterà più di due stanze. Torneremo ai costumi alimentari, vestiari e abitativi di mezzo secolo addietro.
Andiamo verso una ridistribuzione planetaria della ricchezza. E’ bene dunque elaborare una pedagogia che aiuti a questa revisione di vita. Per esempio incoraggiando i figli a svolgere qualunque lavoro venga loro offerto, in attesa del lavoro vocazionale al quale aspirano e per il quale hanno investito tante energie negli anni – poniamo – dell’università. Senza pararci dietro alla scusa che “gli immigrati portano alla svalutazione dei lavori manuali”: i nostri figli non avranno “domani” possibilità diverse rispetto a quelle dei cinesi, degli africani e dei latino-americani che ora qui da noi si fanno carico delle mansioni più umili e meno retribuite.
Sviluppare dinamiche di solidarietà
Per far fronte a quel ridimensionamento del benessere che dicevo sarà utile sviluppare dinamiche di solidarietà antiche e nuove: due o tre o dieci famiglie possono fare tante cose insieme risparmiando tempo, spazi, denaro.
Dirò – di nuovo – che per fare questo non c’è una ricetta cristiana bella e pronta, ma c’è sicuramente un’esperienza cristiana da valorizzare. Basterà pensare alle reti di supporto in situazioni di disoccupazione, sottosviluppo, povertà, marginalità, rottura di vincoli familiari: in nessun ambiente come in quello cristiano hanno messo buone radici – negli ultimi decenni – esperienze come le cooperative per il lavoro dei giovani in cerca di prima occupazione, quelle per l’impiego di disabili ed ex carcerati, la “economia di comunione” (praticata dal Movimento dei Focolari), il “commercio equo e solidale”, le “banche etiche”, le “banche del tempo”, le comunità di accoglienza, le case famiglia.
E’ urgente recuperare forme di austerità socializzanti che la recente abbondanza aveva fatto dimenticare. Nel lavoro dei quattro gruppi di studio che si sono tenuti ieri, sono state evocate le cosiddette “filiere corte”, le varie esperienze dei gruppi di acquisto solidale, del chilometro zero, del raccordo ravvicinato “produttore-consumatore”, del banco alimentare. Va valorizzata ogni risorsa del “fare rete” che possa aiutare al recupero di un’idea forte e di una forte partica della convivenza sociale.
Abbiamo pure ascoltato l’esperienza della parrocchia di Valignano che ha saputo rispondere con una convocazione assembleare che ha coinvolto molti alle emergenze della violenza e del degrado di cui fa esperienza il quartiere nel quale è inserita. Si può dunque andare – nella messa in opera del genio della carità – da gesti creativi minimi di singoli e gruppi a convocazioni di intere comunità che nell’edificio chiesa si fanno carico dell’umanità circostante, come tante volte è avvenuto nei secoli e come sempre di nuovo può accadere in modalità di supplenza, per soffio dello Spirito.
Promuovere politiche sociali
Se è lo scatenamento degli egoismi che ha portato alla crisi, il contravveleno lo troveremo nell’attivazione di politiche solidali. Gli esperti ci dicono che qui da noi ha contribuito alla crisi l’abbandono dei principi di realtà e di responsabilità nella vita economica, come anche in altri settori della convivenza umana. Sarà dunque necessario recuperare la percezione della dimensione sociale e collettiva dei problemi che ci troviamo ad affrontare.
Sia nella destinazione delle risorse residue, sia nel decidere i tagli sarà bene avere presente il bene comune e l’orizzonte dei destini collettivi. Dalla crisi “non sortiremo se non insieme”, direbbe don Milani. E che ci direbbe don Milani sull’evasione fiscale? Non potrebbero i cristiani svolgere una pedagogia della responsabilità sociale che aiuti a percepire il dovere di pagare le tasse?
E’ un lavoro che può essere svolto anche nella conversazione quotidiana, evitando di dare per scontato che gli italiani saranno sempre evasori e impegnandosi ognuno a fare opera di convincimento mirata a quella responsabilità. Ogni volta che se ne presenti l’occasione, il cristiano di ciò consapevole potrebbe arrischiarsi ad osservare, ove abbia un qualche ruolo sociale, o una qualche autorità: “Quanto ci verrebbe a costare se facessimo le cose in regola? Non conviene che chiediamo la ricevuta fiscale? Non potremmo assumere queste persone che lavorano con noi per una stagione?” Tali osservazioni le potremmo avanzare a partire dagli stessi ambiti ecclesiali, che sono spesso tra i più renitenti alle regole della trasparenza fiscale.
Allo stordimento individualistico ha anche contribuito un’idea della vita concepita come “l’isola dei famosi”, che pareva aver superato il regno della necessità. Quando dico “principio di realtà” intendo dire che la comunità cristiana potrebbe svolgere un ruolo di richiamo alla serietà della vita, specie nell’educazione dei giovani, che li aiuti a liberarsi dalle chimere dei mondi virtuali che sono state irresponsabilmente proiettate davanti alle nuove generazioni lungo gli ultimi decenni.
Verso un governo mondiale dell’economia
Infine si tratta di spingere per la creazione di un governo mondiale dell’economia. Né parlò per primo Giovanni XXIII nella Pacem in Terris (1963): il prossimo anno questo caposaldo della dottrina sociale della Chiesa compirà cinquant’anni. Il concetto è stato poi ripreso dalla Gaudium et Spes (1965), in più occasioni da Giovanni Paolo II e ultimamente da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate (2009) e da un documento del Consiglio Giustizia e Pace dello scorso 24 ottobre.
Mi limito a richiamare quest’ultimo pronunciamento. Si tratta di una nota intitolata Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’Autorità pubblica a competenza universale: intende offrire «un contributo ai responsabili della terra e a tutti gli uomini di buona volontà» di fronte a una situazione economica che «ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala»; perché in gioco c’è «il bene comune dell’umanità e il futuro stesso», quando “oltre un miliardo di persone vivono con poco più di un dollaro al giorno” e sono «aumentate enormemente le disuguaglianze» nel mondo, «generando tensioni e imponenti movimenti migratori».
La nota ovviamente si rifà alla Caritas in Veritate che parlava di un’Autorità politica mondiale per il governo della globalizzazione. Si dice spesso che la crisi attuale derivi anche dall’ingigantimento del gioco finanziario rispetto all’economia reale, nonché dalla mancanza di regole che governino la globalizzazione dei fattori economici e non li lascino all’arbitrio del più forte: da qui l’importanza di quel governo mondiale proposto dai Papi.
In diversi momenti di questo convegno si è lamentata una sottomissione della politica all’economia: la via per recuperare il primato della politica è in questa utopia – affermata con forza dalla dottrina sociale della Chiesa – della costituzione di un’autorità mondiale che governi l’economia. Qui il magistero della Chiesa può svolgere un ruolo profetico analogo a quello che svolse a suo tempo con la definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” (Nota alle potenze belligeranti del 1° agosto 1917).
La crisi come “tempo opportuno”?
Ci siamo chiesti ieri – con varietà di risposte – se la crisi possa essere considerata un’opportunità. Espressioni simili ha usato più volte Benedetto XVI e nel recente documento – che citavo sopra – del Consiglio Giustizia e Pace si afferma che la crisi “ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno” divenendo così “occasione di discernimento e di nuova progettualità”.
Potremo un giorno affermare che la crisi sarà stata un’opportunità se la risposta che le daremo aiuterà a modificare gli stili di vita, stimolerà le dinamiche solidali e le politiche sociali, darà una spinta alla costituzione di un’autorità politica mondiale di governo dell’economia.
Per quanto attiene all’ordinario della vita citerò un piccolo “fatto di Vangelo” o parabola che ho appreso dalle cronache del terremoto in Emilia, per certo un fatto tragico e terribile, ma che ha pure stimolato risposte positive. Si tratta di una coppia, Carla ed Enzo Belli, farmacisti di San Giovanni Concordia sulla Secchia, che hanno perso Marco, il figlio di 30 anni, morto in un incidente con la moto subito dopo la prima scossa. La chiesa del paese era pericolante e il funerale è stato fatto nel loro giardino il 26 maggio: “Abbiamo chiesto il permesso di poterlo celebrare all’aperto da noi e tutti si sono dati un gran daffare. Hanno portato le sedie, c’era tutto il paese, oltre 1.200 persone”. Si è visto così che c’era spazio per tanti in quel giardino che è un piccolo parco e quando sono tornate le scosse più forti è stato spontaneo aprire il cancello ai compaesani, che sono entrati con tende e roulotte e le hanno sistemate spostando le sedie del funerale che erano ancora là. I bambini giocano sull’erba, alcuni pensionati cucinano per tutti: «Non sappiamo nemmeno quanti siamo diventati con il passare dei giorni ma finchè c’è posto accogliamo tutti. Qua ci sono alberi e ombra, e anche i bambini possono giocare tranquilli». Ecco un caso in cui una prova può essere trasformata in un’opportunità, a seconda della risposta che a essa sappiamo dare.
Conclusione
Affrontando questo problema della crisi la Chiesa che vive in Lucca invade il campo delle questioni profane, in particolare della politica e dell’economia, o svolge un momento suo specifico di evangelizzazione? O, se vogliamo, di nuova evangelizzazione?
L’arcivescovo ci ha ricordato ieri che “il posto dei cristiani è sulla strada”, cioè nel mondo, in mezzo alla storia degli uomini, in solidarietà con ogni loro gioia e speranza, tristezza e angoscia, come dice il prologo della Gaudium et Spes.
Ebbene amo concludere con questo spunto, che ci riporta alle parole di apertura dell’arcivescovo: se i cristiani sapranno essere in prima linea nell’affrontare i problemi posti dalla crisi, se lo faranno attestando il desiderio di mutare l’esistente e testimoniando insieme la giusta fiducia nelle risorse dell’umanità, mostrando – magari per primi – come sia possibile cambiare lo stile di vita, realizzare dinamiche si solidarietà e politiche sociali, spingere per la creazione di un governo mondiale dell’economia; ecco: se faranno questo, i cristiani di Lucca daranno un’efficace dimostrazione di come il Vangelo e la vita secondo il Vangelo possano essere di aiuto all’umanità di oggi come lo furono a quella di ieri.
E questa è indubbiamente opera di evangelizzazione. “Ero smarrito nella disoccupazione in cui mi aveva gettato la crisi dell’economia e mi avete aiutato a reagire e a uscirne”: potremmo aggiungere questo versetto alla Parabola del Giudizio finale.