Genova – Sala del Munizioniere a Palazzo Ducale
Lunedì 6 maggio 2019
Questo mio contributo potrebbe anche essere intitolato “Baget Bozzo o l’elogio della contraddizione”: cioè di quell’aspetto della sua intelligenza del reale e della sua figura pubblica che più attirava polemiche.
Volevo bene a don Gianni e anch’egli me ne voleva. L’ho aiutato nella collaborazione a “Repubblica”, che avviò quand’ero il vaticanista di quel giornale. Ho molto imparato da lui nell’arte della comunicazione, nella quale era grande. Sono stato ospite nella sua mitica casa genovese. Qualche volta ho polemizzato con lui, specie in materia di Islam e ho parlato di lui in morte, lodandolo per i doni che da lui mi sono venuti e che amo interpretare in riferimento alla vocazione orbitante che ho posto a titolo di questo intervento. Essa era sorella della leggerezza, della passionalità e della vivezza d’anima che lo caratterizzavano.
Frequentandolo mi sono convinto ch’egli fosse guidato come da un istinto che lo portava, nel tempo, a cercare l’altra faccia d’ogni pianeta, come chi giri intorno al Colosseo facendo suoi tutti i punti di vista che viene sperimentando. Credo che abbia fatto questo sulla DC, sul Concilio, su Dossetti, sull’Islam. Non sapevi dove l’avresti ritrovato, da un capodanno all’altro. Quell’interminata rotazione gli permetteva di sentire il pro e il contro di una situazione e di un personaggio. Gli regalava anche l’esperienza di spiazzanti bilocazioni: nel 1978 dirigeva ancora “Renovatio” ed entrava nel gruppo di redazione di “Bozze”, qualche anno prima aveva collaborato in contemporanea con il cardinale Siri e con la Pro Civitate Christiana.
Fu stregato da Utopia ma poi divenne suo nemico
Quando più tardi accuserà il cardinale Martini di cedere al fascino di Utopia, non sarà solo ironia la sua: a essa aggiungeva la duplice coscienza di chi aveva amato Utopia – tanto da dedicarle il volume Chiesa e utopia, Il Mulino 1971, dove la diceva “nata dal Vangelo” – e ora la odiava. Lo stesso si può dire per le parole “compassione” e “carità” che – a seconda delle stagioni – esaltava o vituperava. E per pacifismo, non violenza, uguaglianza, ecologia, comunismo, ecumenismo, individualismo, strutture di peccato, ritorno alle fonti.
La sua libertà di parola era sovrana nei confronti di ognuno e di tutti, si trattasse di arcivescovi di Genova o del Baget Bozzo dell’anno precedente. Una volta loda la secolarizzazione “pensata” da Dietrich Bonhoeffer “grande figura cristiana, quasi un padre della Chiesa del nostro tempo” (Il Manifesto 8 9 1979), un’altra volta se ne libera con uno sberleffo: “Il paese ha votato per il capitalismo delle immagini. La secolarizzazione, pensata a sinistra (chi si ricorda di Dietrich Bonhoeffer?), è stata realizzata a destra” (La Repubblica, 1 4 1994).
Dedica il libro I cattolici e la lettera di Berlinguer (Vallecchi 1978) “A Giorgio La Pira che lo Spirito Santo fece profeta di pace”. Ma 23 anni dopo ne L’Anticristo (Mondadori 2001, p. 102) lo squalifica come “il santone di questo mondo postcattolico”. Del resto l’aveva già maltrattato un ventennio prima, proprio per il profetismo, a cavallo del ’60, quando cercava di fornire una rifondazione culturale alla destra cattolica e ovviamente La Pira si poneva oggettivamente come un naturale antagonista di quella ricerca: la vocazione orbitante comporta che l’orbita riproponga negli anni vicinanze e lontananze già sperimentate.
Qui innalza Jacques Maritain: “Vissi il movimento giovanile democristiano come il luogo in cui si sarebbe potuto formare l’homo novus, l’uomo dell’umanesimo integrale di Maritain” (Vocazione, Rizzoli 1982, p. 29); e qui l’abbatte: “Jacques Maritain, il cui umanesimo integrale fu così dannoso per Paolo VI e per la Chiesa” (L’Anticristo, cit., p. 80).
La vocazione a sostenere due ruoli in commedia
Una volta “il cattolicesimo del cardinale Martini è il ripiegamento del Concilio” (La Repubblica 30 1 1985), cioè il povero cardinale ripiega rispetto ai suoi stessi convincimenti conciliari; un’altra è un incendiario: “Pensa al Vaticano II come a un Concilio interrotto, la cui opera deve essere continuata” (Il Giornale 10 9 2001).
La sorte di Martini decide quella di Cacciari. “Il cardinale Martini ha creato il singolare istituto della ‘cattedra dei non credenti’. Gli ha offerto un contributo significativo una singolare figura di filosofo e di politico italiano, Massimo Cacciari. Egli ha fatto dei dogmi del Cristianesimo l’oggetto della filosofia” (La Repubblica, 8 5 1993). Ma quattro anni più tardi “Martini mette i non credenti in cattedra, e vi chiama l’ambiguissimo Massimo Cacciari, che è un eretico senza essere un credente” (Il Giornale 10 3 1997).
Eccoci al tormentone della destra che accusa i papi di essere deboli con la sinistra e viceversa, ed ecco come don Gianni risulta brillante in ambedue i ruoli: “Mentre i teologi del dialogo vengono convocati su un piano processuale e penale, il vescovo scismatico è ricevuto in sede colloquiale, da pari a pari. Il cardinale Ratzinger che non transige a sinistra, cede tutto ancor prima di trattare a destra” (La Repubblica 16 7 1987); “Nei confronti del movimento di Econe si giunse alla scomunica perché esso contestava la dottrina del Vaticano II; ma quando ci si trova di fronte a una contestazione della storia della Chiesa cattolica, quando la somiglianza con le Chiese protestanti raggiunge l’identità, non si deve prendere nessun provvedimento?” (L’Anticristo, cit., p. 79).
Anche la dialettica tra fede e carità don Gianni la vive come un’altalena. “La domanda del Papa ‘pastore’ non chiede di rinunciare al rigore della fede, ma lo tempera nell’applicazione con il primato della carità” scrive su La Repubblica alla vigilia del conclave che eleggerà Wojtyla (7 10 1978). Ed ecco il voltapagina: “Penso che Satana sia riuscito nel suo capolavoro: di sostituire la carità alla fede, di abolire la fede in nome della carità. E con ciò giungere all’odio della Chiesa del passato, che è oggi la Chiesa in Paradiso” (Tempi 1 11 2001).
Nessuno ha sofferto di più per il “mea culpa” giubilare
In un testo intitolato Dio è pubblico (nel volume miscellaneo Dio in pubblico, Queriniana 1978, pp. 141-142) invita a considerare “quanto la Chiesa è cambiata in meglio” rispetto ai tempi della sua giovinezza. Ma due decenni più tardi bollerà come “vergognosi” i “giorni di abbandono della fede, pezzo a pezzo, che viviamo da quarant’anni” (Tempi 1 11 2001).
Nessuno come lui ha sofferto per il “mea culpa” giubilare, prima per ottenerlo e poi per averlo avuto: “Una Chiesa che riconoscesse di essere peccatrice proprio in quanto istituzione, relativizzerebbe in modo giusto e proprio la sua dimensione istituzionale. E solo in quanto si riconosce tale, diviene Sancta Ecclesia Catholica, l’oggetto della fede” (E Dio creò Dio, Rizzoli 1985, p. 179); “Mi sento certo nel Signore di far notare come le richieste di perdono eliminano di fatto una delle note essenziali della Chiesa: la santità, intesa come criterio di riconoscimento storico della Chiesa visibile come Chiesa che produce i santi” (Il Giornale 27 10 2001).
“L’adagio ‘fuori della Chiesa non c’è salvezza’ venne reinterpretato dal Concilio. Fu un grande passo innanzi che pose la Chiesa all’avanguardia del cammino verso l’unità di un mondo obbligato a una sempre maggiore convivenza, ma lacerato ancora da tutte le divisioni del passato”: così afferma convinto sulla Repubblica (3 8 1988). Ma dopo la Dominus Jesus (2000) annuncia trionfante: “Torna il ‘fuori della Chiesa non c’è salvezza’: il Cattolicesimo ritorna il Cattolicesimo” (Il Secolo XIX 7 9 2000).
Se la Chiesa di Roma abbandona l’Occidente
Ecco le due facce del sacerdozio femminile: “Nessuna immagine ci sembra più efficace della donna sacerdote per stabilire un futuro non fondato su rapporti di forza come in passato” (La Repubblica 25 9 1988); “Il sacerdozio è irremissibilmente maschile: solo il maschio rappresenta carnalmente Gesù” (L’Anticristo, cit., p. 74).
Il Vaticano II ha preparato la Chiesa ad affrontare una crisi epocale o l’ha provocata? Don Gianni sostiene ambedue le parti: “Il coinvolgimento della Chiesa cattolica nella crisi della civiltà occidentale sarebbe stato molto più drammatico senza il grande tentativo conciliare di fondare un nuovo linguaggio (…) per dire la fede nel tempo del nichilismo” (Il Manifesto 8 9 1979); “Non c’era crisi nella Chiesa prima del Concilio: è il Concilio che ha determinato la crisi” (L’Anticristo, cit. p. 11).
La violenza è cristiana, no è musulmana: “L’Islam non ha mai compiuto una violenza come quella compiuta dai cristiani sugli indios e sui negri nel segno di un Dio che ha conosciuto la violenza” (E Dio creò Dio, cit., p. 47); “La guerra di religione è entrata nella storia perché l’Islam non distingue tra politica e religione” (Il Giornale 12 9 2001).
Una volta protesta perché “La Chiesa cattolica rimane soprattutto la Chiesa d’Occidente” (La Repubblica 9 1 1980); un’altra volta perché “con Giovanni Paolo II la Chiesa cattolica abbandona l’Occidente” (Panorama 11 10 2001).
Ma la passione per Savonarola non l’ha mai abbandonato
Né vale dire che egli abbia mutato qualche posizione mutando i tempi. La sua collaborazione alla Repubblica – fui io a presentarlo a Scalfari e per più di cinque anni ne rividi gli articoli che i dimafonisti tastierizzavano a fatica, stante la sua dizione avventurosa – dura quasi vent’anni: il primo articolo compare il 12 maggio 1976, l’ultimo il 7 aprile 1995. Aggiungendovi i primi anni ’70 in cui si innamora di Utopia e scrive la storia della DC, abbiamo un quarto di secolo a dominante liberal. Ma prima c’era stato un altro quarto e passa di posizioni antitetiche e dopo – dall’ingresso in politica di Berlusconi – un terzo venticinquennio di ritorno a destra. I suoi anni sono quelli di Ratzinger – era nato due anni prima del futuro papa – che ha avversato come teologo innovatore, ha lodato per il distacco da Concilium, ha prima combattuto e poi sostenuto come prefetto della Fede, ha infine esaltato come papa.
Lo periodizzo per quarti di secolo, ma è una semplificazione di comodo per ottenere un quadro dominabile con una sola occhiata. Giovanni Tassani – il più attrezzato tra gli interpreti del nostro – sostiene in un testo recente che Baget Bozzo “va considerato quinquennio per quinquennio, se non anno per anno” [intervista per una tesi di dottorato, realizzata da Biagio Ferraro il 4 settembre 2015].
Ho svolto questo raffronto tra un Baget Bozzo e l’altro tenendomi sulla sponda ecclesiale del suo impegno, ma lo si potrebbe intrecciare anche per la sponda politica: poniamo in riferimento al Pci o al Psi, o a singoli personaggi come Moro o Gedda. Ho il ricordo di una conversazione su Moro: prima deplorato per il virtuosismo politico e poi riconosciuto grande per lo stesso. Facendogli osservare quel mutamento d’opinione mi disse: “Quando una grandezza si manifesta, va riconosciuta”.
Conosco un solo testo di don Gianni che riflette sulla sua vocazione orbitante. Era richiamato nell’intervista che gli fece Tassani all’indomani dell’elezione al Parlamento Europeo, pubblicata dal “Manifesto” il 23 giugno 1984 con il titolo “Mi piace ruotare. Che male c’è?”. Quel testo conviene vederlo nel contesto: era apparso nel volume intervista di don Gianni curato da Carlo Cardia e intitolato “Questi cattolici” (Editori Riuniti 1979). Eccolo: “Tutta la mia vita, tutto il mio pensiero ha ruotato attorno al problema del rapporto tra cristianesimo e storia, mosso soltanto dalla volontà di capire per testimoniare. Ruotare vuol dire passare attraverso spazi ‘contrari’ ma avere il medesimo centro. Ruotare non vuol dire contraddirsi”. E’ in riferimento a queste parole che ho scelto di trattare a dieci anni dalla morte di questa sua vocazione orbitante e di trattarne con ammirazione e non con biasimo.
Affascinato dal vedere i due lati di una contraddizione
Un riferimento indiretto alla vocazione orbitante è anche in “Vocazione” (Rizzoli 1982), l’autobiografica dell’esperienza mistica di don Gianni: “L’esperienza mi ha insegnato che il principio metodologico dovrebbe essere quello di bilanciare un’affermazione sulla realtà divina sempre con la sua contraria. E ciò vale anche per le esperienze e le azioni umane in quanto riferite al divino”. Perché “in Dio i contrari non sono contraddittori” e “nulla vi è di più fascinoso per la fantasia umana che vedere contemporaneamente i due lati di una contraddizione” (pp. 68 e 142).
E’ un’esperienza frequente di chi conversava con lui a un livello di buon impegno: mentre l’interlocutore restava spiazzato dalle tumultuose addizioni e contraddizioni, lui, don Gianni, appariva affascinato dalla percezione magari improvvisa, o anche momentanea, a guizzo d’occhi, delle due facce di un pianeta.
Non dimentico i meriti di don Gianni, che a dieci anni dalla morte ci appaiono forse più chiari. L’intelligenza, il lavoro assiduo, la capacità di linguaggio, il coraggio di esporsi. L’attitudine a parlare di Dio nella lingua dell’epoca. L’insistenza sul “dono” dei profeti e sulla necessità di riscattarlo nei confronti del sacerdozio: la sua passione per Savonarola non è mai venuta meno. La denuncia del peso che il magistero ha posto sulla sessualità. La rivendicazione della libertà di scelta politica per i cattolici, in anni a essa ostili. La difesa degli omosessuali: il volume “La Chiesa e la cultura radicale” (Queriniana 1978) aveva già un capitolo sulla “condizione omosessuale”. Da allora e per trent’anni la sua sarà un delle pochissime voci cristiane che in Italia diranno parole nuove su questo arduo argomento.
Nessuna operazione sarebbe più arbitraria di quella che presumesse di staccare questi suoi apporti dalla vocazione orbitante, assumendoli in un “fermo immagine” senza indicazione di data e di contesto. Si perderebbe il controluce, l’intima dialettica che connota la sua interminata istruttoria e che la fa comprensibile solo se la cogliamo sullo sfondo dell’intero sviluppo orbitale. Per esempio l’attitudine a parlare di Dio nella lingua dell’epoca – che a mio parere è il più duraturo dei suoi doni – ci apparirebbe monca, unidirezionale; mentre fu autenticamente cattolica, ovvero universale, anche se necessariamente indirizzata a destinatari diversificati, che in una stagione potevano essere i lettori di “Repubblica” e in un’altra quelli del “Giornale”.
Altrettanto – credo – si potrebbe dire per il tema dei temi che è il rapporto tra cristianesimo e storia: non ha solo affermato il convincimento del carattere plurale, anzi molteplice, di quel rapporto, ma ne ha dato una dimostrazione fattuale impegnandosi nei decenni in successive e varie sue sperimentazioni.
Non avesse orbitato e non si fosse contraddetto, non sarebbe stato don Gianni e noi oggi non saremmo qui a parlarne.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it