Sono trent’anni tondi che lavoro nei quotidiani: sei alla Repubblica e gli altri ventiquattro al Corriere della Sera. Ho incontrato gente importante dentro i giornali e per conto dei giornali. Mi sono tenuto aggiornato, ho viaggiato e ho mantenuto i figli e con questi vantaggi credo di aver pareggiato le amarezze di un mestiere veloce fino a risultare spietato. Ma ci sono stati vantaggi indiretti, che portano il risultato oltre il pareggio. Ho appreso l’arte di cercare e narrare storie di vita, che è un modo di amare l’uomo. Ho conosciuto un’etica severa del lavoro e della cittadinanza, che viene onorata anche quando non è seguita. Ho imparato l’umiltà.
Fui assunto perché costavo poco
Sono entrato a Repubblica il 1° dicembre del 1975. Il quotidiano non era ancora in edicola, dove sarebbe arrivato il 14 gennaio 1976 e intanto giocavamo a comporre i “numeri zero”. Ero stato assunto perché “costavo poco”, essendo risultati “troppo cari” i vaticanisti che avevano provato a ingaggiare: Raniero La Valle, Ettore Masina, Giancarlo Zizola. Io costavo pochissimo perché ero disoccupato, dopo il rapido fallimento del quotidiano “Il Foglio” di Ermanno Gorrieri e Luigi Pedrazzi, al quale ero passato nella primavera precedente, lasciando la redazione del Regno, il cui stipendio – 250 mila lire – non bastava più dopo la nascita di Valentino.
Anche il passaggio dalla Repubblica al Corriere della Sera, nel 1981, coincise con la nascita di un figlio, Beniamino, che era il terzo e che di nuovo faceva insufficiente lo stipendio della Repubblica.
Avevo ascoltato Eugenio Scalfari a Bologna, venuto a presentare il progetto del nuovo quotidiano. Gli fui presentato in via Po, a Roma, nei locali dell’Espresso, da Pino Ricci, che veniva da Avvenire e mi aveva conosciuto al Foglio. Decisiva fu la malleveria di Sandro Magister, con il quale avevo collaborato quand’era vaticanista di Settegiorni: “Noi non ti conosciamo – disse Scalfari – ma abbiamo chiesto a Magister, che ci ha detto che sei la persona giusta”.
Allora Sandro ed io marciavamo separati e colpivamo uniti. Poi i sentieri si sono divaricati e scavalcati, ma abbiamo continuato a volerci bene. Oltre a quell’expertise per l’assunzione io gli debbo un soccorso familiare generoso in anni difficili: più volte lui e Anna si sono presi i miei figli in vacanza.
Potrei ripetere a memoria alcuni passaggi – quasi metrici – delle istruzioni che Scalfari dava ai suoi giovani collaboratori nel salone centrale della Repubblica. Ironizzava sui nostri pruriti sessantottini: “Prima dell’assemblea si riunisce la direzione, onde meglio manipolare il dibattito, perché il metodo democratico ci è discaro”.
Dopo Scalfari ho conosciuto – al Corriere della Sera – altri sei direttori: Alberto Cavallari, che mi assunse; Piero Ostellino, che mi affidò una rubrica; Ugo Stille che non finiva di domandarmi: “Ma davvero il papa si oppone alla guerra del Golfo”?; Paolo Mieli, che di nuovo ora dirige il Corriere, ma che l’aveva già diretto – risollevandone la tiratura – negli anni ’90; Ferruccio de Bortoli, tra tutti il più fraterno; Stefano Folli, che aveva la scrivania a sette passi dalla mia prima di essere chiamato a dirigere il giornale di cui era notista politico.
Scalfari e Mieli sono quelli che più amavano e amano – nelle riunioni – svolgere una specie di retorica o poetica del giornalismo: forse Mieli l’ha appresa da Scalfari, essendo stato tanti anni all’Espresso. Amavo quella aulica e autoironica di Scalfari, forse perché ero giovane. Ma di tutti i direttori che ho avuto apprezzo l’incredibile capacità di lavoro, la dedizione alla testata e al ruolo. Io non ne sarei capace. Solo per i figli e la sposa ho fatto o farei quanto ho visto fare a tutti e sette questi colleghi e a tanti tra i loro primi collaboratori.
Quando Tassan Din mi chiese chi comandava in Vaticano
Il passaggio dalla Repubblica al Corriere avvenne mentre il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera era travolto dallo scandalo della P2. Scalfari mi disse: “Salti sulla barca perdente, tra qualche anno supereremo il Corriere“. Il sorpasso avvenne cinque anni più tardi, ma poi il Corriere è tornato primo e – grazie anche a questi scavalchi – lo stress da concorrenza si è fatto bestiale.
Cavallari mi portò a firmare il contratto nella stanza dell’amministratore delegato del gruppo, Bruno Tassan Din, che poco dopo fu arrestato. Mi fece una quantità di domande su “chi comanda davvero in Vaticano, Casaroli o il papa”. Poco dopo sarebbe morto il banchiere Calvi e sarebbe esploso il caso Ior-Banco Ambrosiano.
Non finirei di elencare condirettori e redattori capo di gran nome con i quali ho lavorato in questi tre decenni. O semplicemente colleghi che hanno fatto e continuano a fare il loro lavoro e dei quali sento la voce quando leggo gli articoli.
Andrea Barbato, Gianni Rocca, Mario Pirani, Barbara Spinelli, Corrado Augias alla Repubblica. E Giorgio dell’Arti, Gianluigi Melega, Giovanni Valentini, Piero Benettazzo, Oliviero Bea. Con Oliviero feci l’esame di professionista nel 1977.
Puoi dare del tu ai mostri sacri del giornalismo
Incredibile il numero di colleghi del Corriere che ho incrociato in tanti anni e che sono passati a dirigere o addirittura fondare altri giornali, settimanali, programmi televisivi: da Vittorio Feltri a Maria Latella, passando per Gaspare Barbiellini Amidei, Antonio Padellaro, Giulio Anselmi, Paolo Graldi, Rodolfo Brancoli, Giuliano Ferrara, Gad Lerner.
Delle conversazioni con Giuliano ho un ottimo ricordo: onnivore, sdegnose e affettuose. Recensì con partecipazione la mia opera prima: La speranza di non morire (1988). E’ l’unico, insieme a Giuliano Zincone (che sul Foglio ha appena scritto de Il Padre nostro e il desiderio di essere figli), a essersi interessato ai miei libretti cristiani. Qui forse c’è un insegnamento: è più facile lavorare nella grande stampa che parlare a chi vi lavora.
Ho conosciuto i mostri sacri del giornalismo. Giovanni Spadolini, che veniva la domenica pomeriggio al Corriere a fare due chiacchiere con i “colleghi” e ci dava del tu che voleva ricambiassimo. Faceva domande su aspetti anche minuti della “politica vaticana”.
Indro Montanelli che mi cercava quando aveva da scrivere sul Vaticano e che lesse un mio libro e usò in un editoriale per il “mea culpa” il concetto di “papa missionario” che vi aveva trovato.
Con Enzo Biagi mi è toccato parlare al cardinale Martini quando venne in visita al Corriere, in via Solferino, per la festa di Francesco di Sales – patrono dei giornalisti – nell’anno 2000.
Tra i grandi nomi, quelli che più mi hanno cercato e mi cercano per consulenza sul Vaticano sono Oriana Fallaci, Alberto Ronchey, Sergio Romano.
Al ristorante con Walter Tobagi
Ho fatto l’inviato per il mondo con Sandro Viola e con Ettore Mo, con Antonio Ferrari e con Lorenzo Cremonesi, con Aldo Cazzullo e con tanti altri che non nomino per non tediare il lettore. Sono stato in San Giovanni in Laterano per il funerale di Moro con Giampaolo Pansa nel 1978 e alla Sinagoga di Roma, per il papa, nel 1986, con Elèmire Zolla. Pansa voleva sapere da dove veniva il distintivo della vigilanza vaticana. Zolla era affascinato dal copricapo del rabbino Toaff. Ho conosciuto Walter Tobagi al ristorante durante il conclave dell’agosto del 1978.
Tutti i direttori che ho avuto hanno apprezzato il mio lavoro e non hanno considerato mai una remora che il vaticanista fosse credente. Ma nessuno ha mai saputo o voluto valorizzare l’apporto che avrei potuto dare oltre lo specifico professionale. Di quell’accettazione e di questa limitazione ho parlato tanto con il carissimo Domenico Del Rio. Io realisticamente lodavo l’accettazione. Lui, più creativo, lamentava il limite.
Soltanto Ostellino provò a utilizzarmi oltre la competenza vaticana, dopo che andò a cena da Giovanni Paolo II e sentì da don Stanislaw che anche nell’appartamento papale venivano letti, a volte, i miei articoli. Ma egli lasciò la direzione pochi mesi dopo e la rubrica – che si chiamava Uomini e religioni – fu subito soppressa.
Credo davvero che il paese si è rimescolato – come diceva Aldo Moro – e che quanto scrivo sul Regno potrebbe trovare sbocco sul Corriere. Non riesco a farmi ascoltare ma continuo a bussare.
I “fatti di Vangelo” che mi stanno a cuore e le idee che mi vengono in mente li scrivo nei libri. Se ne parlava poco fa nella parrocchia romana di Santa Chiara con Ferruccio de Bortoli, che amabilmente commentava: “Noi lo facevamo apposta a non pubblicarglieli, per aiutarlo a fare i libri”.
Ai cari colleghi che vivono in Babilonia
Quanto all’etica severa che dicevo all’inizio, la segnalo con queste parole che Agostino di Ippona dedica alla «città terrestre chiamata Babilonia»: essa «ha persone che, mosse da amore per lei, si industriano per garantirne la pace non nutrendo in cuore altra speranza, riponendo anzi in questo tutta la loro gioia, senza ripromettersi altro. E noi li vediamo fare ogni sforzo per rendersi utili alla società terrena. Ora, se si adoperano con coscienza pura in queste mansioni, Dio non permetterà che periscano con Babilonia, avendoli predestinati ad essere cittadini di Gerusalemme: a patto però che, vivendo in Babilonia, non ne ambiscano la superbia, il fasto caduco e l’indisponente arroganza” (Esposizioni sui Salmi, 136,1-2: Nuova Biblioteca Agostiniana, XXVIII, Roma 1977, pp. 397.399).
Purtroppo quasi tutti i giornalisti ambiscono al “fasto caduco” di Babilonia e alcuni lo fanno con indisponente arroganza. Ma considero degno di ammirazione il coraggio con cui danno tanta parte della vita per il lavoro. E qualche volta danno la vita, come è capitato ai colleghi Walter Tobagi, Maria Grazia Cutuli e Raffaele Ciriello, per nominare solo quelli del Corriere.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 22/2005