Le cantonate di Bergoglio e quelle degli accusatori

 

Gli antipatizzanti del Papa argentino segnalano ogni giorno gli errori che viene accumulando: di date, di nomi, di fatti. Ma portano acqua al mare stante l’abituale autocritica di Francesco, che intervistato il 22 gennaio da “El Pais” ha sentenziato: “A volte prendo cantonate”.

Più ampiamente gli viene rimproverato di parlare come un prete di strada, di divagare, di ripetersi. Ma anche questo Bergoglio lo sa e lo vuole: “Mi piace fare il Papa con lo stile del parroco”, ha risposto alla domanda di un bambino nella chiesa luterana di Roma il 15 novembre 2015. “So che io mi ripeto e dico le stesse cose, ma la vita è così” ha riconosciuto il 12 maggio 2016 all’Unione dei superiori generali.

 

“Qualcuno non è d’accordo

e ne ha il diritto”

Questo delle sviste e del linguaggio debole è un aspetto della diatriba su Francesco che potrebbe essere chiarito facilmente – e a vantaggio di tutti – se favorevoli e contrari si proponessero di capire l’uomo e la sua arte comunicativa invece di mirare a colpire la controparte. Che è impresa gratificante ma sterile.

Le cantonate ci sono. Sono di meno rispetto a quelle asserite dagli oppositori ma più di quelle avvertite dai sostenitori. Soprattutto hanno un altro segno rispetto a quello che istintivamente intendono gli uni e gli altri. Un segno problematico e tutto da interpretare, non privo di qualche elemento d’avventura, ma non affatto tragico come gli uni si augurano e gli altri temono.

Non solo l’uomo è consapevole delle cantonate e quasi le ama, ma esse non tolgono nulla di essenziale al suo messaggio e non oscurano la chiarezza del suo programma riformatore: è quanto vorrei mostrare con questo excursus.

Parto dalla consapevolezza del limite – che è la chiave della mia interpretazione – e la segnalo con passaggi di un’intervista a “El Pais” del 22 gennaio nella quale è più evidente che mai.

E’ la più lunga e una delle più confidenziali tra le tante interviste. In essa quella consapevolezza fa capolino dietro ogni argomento. Per esempio Francesco dice di Benedetto che “ha una memoria da elefante anche riguardo ai dettagli” ed esemplifica: “Capita che io dica una cosa e che lui mi risponda: non fu in quell’anno ma in quest’altro”.

E’ qui che usa la parola “cantonate”, patinazos: “Chi sono i migliori portatori del Vangelo? I santi. Lei ha usato la parola ‘rivoluzione’. Il Vangelo è rivoluzione! Io non sono santo e non sto facendo nessuna rivoluzione. Sto adoperandomi perché il Vangelo vada avanti. Però lo faccio imperfettamente, perché alle volte prendo cantonate”.

L’intervistatore chiede se si senta incompreso: “No, no. Credo che a causa dei miei peccati dovrei essere capito anche meno di così. Il martire dell’incomprensione fu Paolo VI […]. Io mi sento accompagnato da ogni tipo di persone, giovani, vecchi… Sì, qualcuno qui non è d’accordo, e ha il diritto, perché se io mi sentissi a disagio perché qualcuno non è d’accordo ci sarebbe nel mio atteggiamento un germe da dittatore. Ha il diritto a pensare che il cammino è pericoloso, che possono venirne cattive conseguenze. Tutti hanno diritto di discutere”.

Più avanti torna su questo chiodo dei “gruppi un poco più fondamentalisti” che non condividono i suoi richiami “alla vicinanza e alla prossimità” e così conclude: “Io predico quello che sento che il Signore mi chiede di predicare”.

 

“Fanno il loro lavoro

e io faccio il mio”

Con analogo spirito di rispetto degli altri e di rivendicazione del suo buon diritto a seguire la propria stella, in altra occasione aveva parlato così di coloro che lo contrastano: “Fanno il loro lavoro e io faccio il mio. Continuo il mio cammino senza guardare di lato” (al quotidiano argentino “La Nacion”, 4 luglio 2016).

Questo è un punto sensibile: Bergoglio non intende il ministero petrino come totalizzante, riassuntivo dell’Ecclesia, ma come un servizio tra altri. Si considera parte, non forma del tutto. Fa il suo lavoro. Predica quello che sente che il Signore gli chiede di predicare, come abbiamo ascoltato poco sopra.

Tornando a “El Pais”, alla battuta finale del giornalista “la vedo contento di essere papa”, risponde: “Il Signore è buono e non mi ha tolto il buon umore”. Sullo stesso tono apre una settimana più tardi il colloquio con la tv statunitense “El Sembrador”: “La ringrazio della visita e ora, se è venuto con la voglia di tirarmi la lingua, ovvero di farmi parlare, domandi pure”.

Una volta i papi non davano interviste. Impegnati ad agire in ogni momento “in persona Ecclesiae”, tenevano a bada le opinioni personali. Poi iniziarono a darle, il primo è stato Leone XIII e via via l’elemento personale ha riguadagnato spazio – nella figura papale – rispetto a quello istituzionale. Wojtyla e Ratzinger sono arrivati serenamente a dare interviste che prendevano interi volumi. Si erano liberati dal fissismo che li voleva infallibili anche nella vita quotidiana ma continuavano ad avvertirne il peso e si autocensuravano, o facevano rivedere i testi ai collaboratori.

 

Il linguaggio diretto

è un segno di vicinanza

Bergoglio non si autocensura e non fa rivedere. Nell’intervista a “El Pais” scambia la Cina continentale con Taiwan, riguardo a una mostra dei Musei Vaticani che cita come esempio di progrediente buon rapporto con Pechino (e invece era stata fatta a Taipei, capitale di Taiwan): errore in cui era già incorso durante una conversazione in aereo, il 2 ottobre, di rientro dall’Azerbaijan. Nessuno glielo fece osservare? Glielo fecero osservare ma se ne è poi dimenticato?

Jorge Mario – con i vecchi amici insiste perché continuino a chiamarlo così – ritiene più importante l’immediatezza del rapporto rispetto alla precisione delle parole. La schiettezza soggettiva rispetto alle implicazioni istituzionali. Dice che per mantenere l’indispensabile serenità è necessario “un sano menefreghismo” (ai superiori generali, 25 novembre 2016). Altre volte aveva confessato d’essere “incosciente” e “indisciplinato”. Non sono metafore. E’ un fatto che se ne frega d’essere preciso.

E’ in questo incrocio tra eredità del passato e prefigurazione del domani che si evidenziano elementi di rischio. Le interviste e le omelie al Santa Marta sono la terra di mezzo dove meglio si manifestano il nuovo e l’azzardo. Non a caso sono il terreno della maggiore disfida: i sostenitori ne vanno pazzi e gli oppositori altrettanto ma per opposti motivi.

Io sono contento delle conversazioni non riviste e delle omelie senza testo scritto. Mi aiutano a cogliere l’uomo. A intendere la sua anima d’apostolo. Lo scatto della sua preghiera che può nutrire la mia. Il suo sogno di Chiesa. E mi pare che la comune umanità ami l’uomo Bergoglio proprio per la possibilità che offre di questa presa diretta. Qui e nei gesti di misericordia di cui è maestro. Il linguaggio spontaneo che egli ama va visto come un segno della vicinanza che predica.

 

Riconciliarci

con la nostra debolezza

Ma non ho difficoltà a riconoscere che l’imprecisione è un difetto e che gli errori espongono a rischi. Continua a dire che il cardinale Schönborn ha lavorato alla Dottrina della Fede e non è vero, e l’errore è innocuo. Ma se scambia per due volte le due Cine la cosa non è più innocente.

Perché abbiamo tanta difficoltà ad ammettere che un papa abbia limiti e difetti? Perché alcuni tra noi si appassionano a elencare gli “errori” di Francesco e chi lo ama perde tempo a cercare – a sua difesa – citazioni che non corrispondono o passi biblici che autorizzino le sue libertà linguistiche? Ha detto “peccati” dove doveva dire “debolezze”. Ha detto che lo Spirito Santo è “furbo” e che Gesù – davanti all’adultera e alle pietre – “fa un poco lo scemo” scrivendo per terra. “Ma siamo matti?”

Il problema più che nei limiti dell’uomo Bergoglio è nella percezione febbrile che ne hanno taluni in platea o sul palco. Firma documenti troppo lunghi e poco lineari. Nelle omelie è più felice ma qualche volta va fuori tema. Per cavarsi d’impaccio dice che non ha letto, non ricorda. Ha un carattere risentito, portato a decisioni trancianti.

Una volta ha detto che “dobbiamo riconciliarci con la nostra debolezza” (a Villa Nazaret il 18 giugno 2016): ecco una chiave per comprendere Francesco e non solo. Dobbiamo riconciliarci con i limiti di ogni persona portatrice di un qualche servizio nella Chiesa, dal sacrestano al papa.

Ma credo vi sia di più in questo gesuita che ha preso il nome di Francesco: non solo l’invito ad accettare il limite, ma anche la convinzione che conviene turbare le immagini di falsa perfezione che continuano ad addobbare la piramide ecclesiastica.

 

Non sono un pastoralista

e dico quello che mi viene

In nessun caso quell’immagine è così alta e così falsa come per il papa. Da qui lo sconcerto che ci prende quando lo sentiamo dire ai vescovi polacchi sulla Chiesa in uscita: “Non so se [questa mia] sia una risposta semplicistica ma io non ne ho un’altra. Non sono un pastoralista illuminato, dico quello che mi viene” (27 luglio 2016). “E’ un documento discutibile” ha detto tornando dal Messico, il 18 febbraio 2016, della dichiarazione con Kirill firmata a L’Avana sei giorni prima, contestata dai cattolici ucraini.

Va presa sul serio l’insistenza con cui da quattro anni ci invita a “dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa”: la prima volta lo disse in un’omelia al Santa Marta, il 16 maggio 2013. Sempre a tal fine ha invitato i giovani a “fare casino”. Lo disse a Rio de Janeiro e ultimamente, nella lettera ai giovani per il Sinodo, è tornato sul concetto: “Fate sentire il vostro grido, lasciatelo risuonare nelle comunità e fatelo giungere ai pastori”.

Si direbbe che qualche volta si metta di persona a “fare casino” per smuovere le acque stagnanti.

Luigi Accattoli

Il Regno 4/2017