Intorno alle cause degli ultimi cinque pontefici
Sono contento che facciano beato papa Wojtyla, ma sono convinto che non serve e qui provo a dire contentezza e convinzione, sperando che lo spirito di Giovanni Paolo il grande mi assista nell’impresa. Seconda premessa: sono anche convinto che le energie che si impiegano per canonizzare i papi – la cui vita oggi è già configurata a prototipo o metafora della santità “canonica” – sarebbero meglio spese per segnalare la santità nascosta e quella sorprendente.
A scanso di incomprensioni facilmente evitabili, dico subito che amo papa Wojtyla. Ho scritto cinque libri e circa tremila articoli su di lui, gli debbo qualcosa anche per l’aiuto a credere e non dubito che sia santo.
Ironia della vita: ho detto una mezza parola sull’aiuto a credere al postulatore, don Oder Slawomir, un giorno che l’intervistavo per il Corriere della Sera e subito mi ha chiesto di scrivergli un promemoria. Dunque, collaborerò alla causa!
Per lavoro ho conosciuto i postulatori delle cause di beatificazione degli ultimi papi, da Pio XII a Giovanni Paolo I e i vescovi Capovilla, Macchi e Dziwisz e non ho da ridire sulla passione con cui gli amici dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna e quelli di Brescia e quelli di Belluno si sono dati e si danno da fare per le cause dei loro papi. Ho scoperto con piacere che c’era gente, nelle mie Marche ma anche a Roma, che si commuoveva per la beatificazione di Pio IX, avvenuta tra le polemiche nel settembre dell’anno 2000.
Dunque nessuno se l’abbia se dico che non serve beatificare i papi. La mia non è lontananza dalla materia e non dubito delle buone intenzioni dei beatificatori, ma credo che non sia del tutto innocente la dinamica psicologica e istituzionale che si è determinata a partire dai decenni 50-60 del secolo scorso, e che ha portato all’idea coatta che ogni papa debba essere almeno beatificato.
Prendiamo i dieci papi degli ultimi centocinquant’anni. Pio IX e Giovanni XXIII sono beati, Pio X è santo, per Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II c’è la causa di beatificazione. Sette papi su dieci sono dunque arrivati, o avviati all’una o all’altra delle due proclamazioni di esemplarità cristiana. Restano fuori appena tre nomi del papato contemporaneo: Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI. Certo tutti e tre meritevoli e ognuno con i suoi cultori.
Se tutti gli altri erano santi, di costoro che diremo? C’è il rischio, a porre la questione in questi termini, che si costituiscano dei comitati per proporre le loro cause! Il cardinale Confalonieri mi parlò una volta del suo papa Ratti come di un “santo incompreso” e con Pio XI visto da vicino aveva parlato di “vertici della perfezione” e aveva pur sollecitato l’avvio di qualcosa come una pre-causa (vedi alle pagine 174 e 175 dell’edizione Paoline del 1993).
Oggi si tende a fare d’ogni papa un santo, ma fino a ieri non era così. Da quando vige il sistema di accertamento della santità attraverso un processo affidato a una congregazione romana (cioè dalla fine del Cinquecento), c’erano appena un papa santo, il piemontese Pio V (1566-1572) e un altro beato, il comasco Innocenzo XI (1676-1689).
Ma anche prima della controriforma c’era grande prudenza nel mettere i papi sugli altari. Per trovarne uno canonizzato prima di Pio V dobbiamo risalire a Celestino V (1294-1296), quello del «gran rifiuto».
Vale dunque la pena di interrogarsi sul senso di questa corsa alla beatificazione dei papi, che è tutta dell’ultimo secolo e anzi degli ultimi decenni. La data d’inizio può essere individuata con facilità: la seduta finale del Vaticano II, quando Paolo VI annunciò l’avvio delle cause di Giovanni XXIII e Pio XII.
Quello fu lo start per la corsa, cioè il segnale della partenza, ma essa era già matura dentro e la maturazione era stata favorita dalle decisioni di Pio XII su Pio X, che fece beato nel 1951 e santo nel 1954: una proclamazione che costituì l’ultimo atto forte di papa Pacelli. Quella canonizzazione fu tra le ragioni che indussero i riformatori conciliari a chiedere – dieci anni dopo – la canonizzazione di papa Roncalli. La richiesta dei novatori fece audaci i conservatori che si mossero a proporre quella di papa Pacelli e le contrapposte “istanze” portarono Paolo VI a introdurre in contemporanea le due cause.
Partite appaiate, quelle cause presero presto un’andatura spaiata e Giovanni XXIII arrivò solo in vista del traguardo. Ma le manovre curiali e la preoccupazione di disinnescare ogni rischio di polarizzazione – che ha caratterizzato il pontificato wojtyliano – hanno indotto a un nuovo accoppiamento giudizioso e fu così che vedemmo Roncalli proclamato insieme a Mastai Ferretti, con sconforto dei giovannei ed esultanza dei “piani” d’ogni numerazione.
Io che forse sono un giovanneo non mi sconfortai per nulla, riuscii anzi a sentirmi grato per ambedue le beatificazioni, pur nella convinzione – che già nutrivo – della loro perfetta inutilità.
La decisione di Paolo VI di avviare le cause dei predecessori ha poi calamitato l’impegno del successore a introdurre la causa di papa Montini, dalla quale è gemmata quella di Giovanni Paolo I. A questo punto era ovvio che si arrivasse – anche senza il grido “santo subito” dei gruppi giovanili del Focolari durante la messa esequiale dell’8 aprile – alla causa per Giovanni Paolo II.
Non ho nulla contro i Focolari, né contro i cardinali che presero spunto da quel grido per sollecitare il “futuro papa” a introdurre rapidamente la causa del papa polacco, ma a me non pare bella questa corsa della gerarchia romana a canonizzare se stessa. Mi rendo conto che parlando così dico qualcosa di odioso sia ai piani che ai giovannei e ai montiniani, nonché agli inermi lucianei e agli innumerabili wojtylianei. Ma così penso e credo di avere dalla mia la nudità dei fatti – papi che segnalano l’esemplarità dei predecessori – e la grande tradizione della Sede romana, che nella storia non ha mai abbondato in canonizzazioni dei propri titolari.
Non c’è dubbio e lo sappiamo tutti che i pontefici di oggi sono figure degne di imitazione e venerazione, ma proprio per questo che bisogno c’è di dichiararli prima «venerabili» eppoi beati e infine santi? Beatificando un suo «figlio», la chiesa lo propone come cristiano esemplare, segnalandolo all’attenzione dei fedeli e del mondo. Ma i papi non sono già segnalati dalla loro missione e – oggi – dalla loro vita?
Un papa è posto sul candelabro fin dall’elezione. Ogni sua parola è raccolta e diffusa, ogni gesto echeggiato fin oltre il ragionevole. Di Pio IX e di Giovanni XXIII già tutto era noto e valutato, prima che fossero avviate le cause e così di Paolo VI e di ogni altro. Su Giovanni Paolo II al momento tutti sappiamo tutto, o quasi.
Non sarebbe più utile la proclamazione di cristiani esemplari vissuti nel nascondimento, mai segnalati o mal segnalati? Si può immaginare che il mondo d’oggi – così diffidente verso ogni modello ufficiale – potrebbe ricevere miglior luce dalla valorizzazione di uomini e donne che hanno vissuto il Vangelo nella quotidianità, piuttosto che dall’esaltazione di figure istituzionali già pienamente fruibili nella loro ricchezza.
Tra vent’anni, quando saranno “beati” Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II e ci sarà già la causa di beatificazione per Benedetto XVI (non ci vedo rimedio: di questo passo tutti i papi verranno “proclamati”), che vantaggio avremo, dal punto di vista della segnalazione della santità, rispetto a un virtuale azzeramento della situazione, che non ne vedesse nessuno segnalato?
A mia veduta il “vantaggio” sarà solo uno e assai discutibile: d’aver rivestito di un nuovo paramento il pontificato romano, che aveva appena iniziato a liberarsi del fasto antico. Stiamo sperimentando una specie di ansia collettiva che non si placa finchè non porta sugli altari i papi che sono appena scesi dai troni.
L’abbinamento delle cause di Pacelli e Roncalli prima e l’accoppiata delle proclamazioni di Roncalli e Mastai Ferretti 35 anni più tardi rivelano la tenuta nel tempo – e anzi il rafforzamento – di un’idea strategica: usare i processi di canonizzazione come via per riaffermare la continuità del pontificato romano nella varietà – talora divergente – delle singole figure.
C’era un doloroso contrasto di giudizi su Pio X e papa Pacelli lo canonizza anche per sottrarlo alla discussione. Poi viene la grande disputa sui pontificati pacelliano e roncalliano e Paolo VI sogna di beatificarli insieme, sperando così di devitalizzare la disputa. Attenzione oggi a che cosa può significare una rapidissima beatificazione di papa Wojtyla: l’auspicio di zittire ogni questione critica nei confronti del suo governo con l’applauso alla sua santità.
Invece di affannarci a proclamare chi già tutti consideriamo santo, impiegheremmo meglio il tempo a individuare sul campo le nuove figure di santità donate alla nostra epoca. Quella dei papi è una santità che la chiesa educa e poi facilmente riconosce, ma assai più difficile è riconoscere la santità che lo Spirito suscita per vie insolite, nel crogiuolo dell’epoca e non solo intorno agli altari.
Papa Wojtyla ha fatto molto per stimolare in questa direzione, proponendo un vastissimo nuovo martirologio, sollecitando le “Chiese sorelle” a una menoria comune dei “testimoni” della fede, beatificando e canonizzando catechisti, zingari, schiavi, spazzacamini, madri e padri di famiglia, coppie di sposi. La risposta migliore alle sue provocazioni non era – io credo – di beatificare lui, ma di continuare a cercare nella direzione che aveva indicato.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 14/2005
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