Una felice puntata a Mazara del Vallo per una conferenza e l’amicizia che ne è venuta con un giovane teologo, don Vito Impellizzeri, mi aiutano a narrare una vicenda di creativo rapporto con gli immigrati musulmani, forse più significativa di quante ne avevo raccolte nel volume Islam. Storie italiane di buona convivenza (EDB 2004). Essa si annoda intorno a un trentenne di buone spalle e buono spirito che fa da mediatore naturale tra tunisini e italiani, essendo egli di sangue misto e si irradia in una varietà di iniziative per l’avvicinamento che la comunità ecclesiale sta sperimentando, calamitata dall’esempio di quel mediatore, che si chiama Paolo Ayed.
Il momento più vivo della visita a Mazara del Vallo è stato il giro nel quartiere della Kasbha, come ormai lo chiamano tutti: cioè della zona più povera del centro storico, abitata dagli arabi conquistatori nel medioevo e ripopolata lungo l’ultimo ventennio dagli immigrati tunisini, poi che i mazaresi l’avevano quasi abbandonata, dopo il terremoto del 1968 (quello del Belice). “Dovrebbe vedere la città vecchia, ma andarci da solo è pericoloso” m’avevano detto gli organizzatori dell’incontro, che infine mi hanno affidato alla guida di Paolo.
Paolo Ayed un mediatore di sangue misto
La visita è stata un’esperienza forte, sia per la conoscenza delle singolarità urbanistiche di quel quartiere – caratterizzato da vicoli a fondo cieco, archi e cortili chiusi – sia per il rapporto di Paolo con i nuovi abitanti: egli parla il loro stesso dialetto arabo, li chiama per nome, per nome viene da tutti salutato: ciò che poteva essere pericoloso diventa – grazie a lui – fruttuoso.
Paolo Ayed è figlio di Mahmoud Ayed e Vincenza Angrisano. Negli anni dell’Università ha un’esperienza di volontariato – con un gruppo di disabili – che l’avvicina al cristianesimo: chiede di essere battezzato nel 2001, poco più di un anno dopo viene cresimato. Un pomeriggio viene chiamato per caso a fare da guida turistica alla Kasbha e in Cattedrale. Scopre una forte passione per l’arte e per la inter-cultura della città di Mazara, che più non l’abbandona.
L’origine tunisina gli permette un “accesso completo” alla Kasbha. Valorizza i suoi rapporti di conoscenza permettendo con una semplicità disarmante lo scambio e l’incontro fra i turisti, alcune volte anche mazaresi!, e i tunisini-magrebini, che ormai attendono quelle visite con un atteggiamento di delicata ospitalità.
“Passeggiare con Paolo alla kasbha – racconta don Vito, che fu presente anche al mio “giro” – significa essere salutati da tutti, significare “accarezzare” i bimbi tunisini, che ancora giocano lungo la strada, può significare bere un thè nei circoli tunisini e chiacchierare in italo-arabo con gli uomini, assistere alla lavorazione dei tappeti presso l’unica cooperativa femminile tunisina della città. Paolo è un passpartout inter-culturale”.
Ad affiancare Paolo in questa attività di pontiere tra tunisini e mazaresi c’è un volontario internazionale con esperienza in Kosovo (2001-2003), Vincenzo Bellomo, mazarese di nascita, 25 anni, oggi attivo nella Comunità vocazionale diocesana e nell’équipe del dialogo.
Rientrato a Mazara dal Kossovo, lavora per l’integrazione delle “seconde generazioni” degli immigrati tunisini, figli di pescatori tunisini di Mazara. Nasce così il centro di aggregazione giovanile Voci del Meditteraneo, che diventa un punto di riferimento per i giovani non solo immigrati – sono 150 iscritti – della città e che ha come obiettivo non solo quello di garantire uno spazio ricreativo alternativo ai vicoli abbandonati del centro storico, ma anche quello di animazione culturale.
Feste per l’incontro a base di cibi e musica
Per valorizzare la città vecchia, ma anche per mostrare il portato culturale delle famiglie immigrate che la abitano, il Centro ha già organizzato due feste ben riuscite, in particolare per gli scambi culinari e musicali. “Sorprendeva – dice don Vito – vedere l’impegno delle famiglie immigrate, a partire dai ragazzi, per mettere tutto in ordine dopo la festa”.
Nel 2003 – con il progetto della Caritas Italiana Itaca sud. Itinerari di sperimentazione dell’integrazione di famiglie immigrate – Vincenzo estende la sua attività all’intera Sicilia e alla Calabria. Ora si prepara a ripartire, con un accordo fra CEI (ufficio missionario) – Mazara (diocesi) Tunisi (diocesi) Gerusalemme (sacerdote di Verona), andrà in Terra Santa e in Tunisia per lo studio della lingua e della cultura araba, per poter dare domani, a Mazara, un apporto competente al dialogo e all’integrazione. Il 21 ottobre riceverà dal vescovo il “mandato missionario” per questa andata in avanscoperta.
Le esperienze di Paolo e Vincenzo ne stanno animando altre, a raggio sempre più vasto. Il 22 ottobre si terrà la prima “festa del ciao” di Acr alla Khasba con i bimbi tunisini: “il ciao parola di dialogo interculturale e interreligioso”. Sono in programma per l’autunno piccoli percorsi di amicizia e di scambio tra famiglie mazaresi e tunisine, chiamati “operazione terrazza”. E’ allo studio – tra il Centro Voci del Meditteraneo e le scuole superiori di Mazara – uno spettacolo interculturale, dove la musica e l’arte siano esperienze di integrazione. Si pensa – come modello – al Gobbo di Notre Dame.
Forse domani una cattedra del dialogo
Ma don Vito sogna la realizzazione di una Cattedra del dialogo a Mazara: “Siamo al II anno di una scuola di formazione al pluralismo interculturale e interreligioso, con collaboratori che vengono dalla Gregoriana, dall’Università di Palermo, dal Centro Arrupe”.
Vito ha studiato a Roma e insegna allo studio teologico di Palermo, ma viene da Pantelleria e sa attendere che i semi crescano: “Sono nato in una piccola isola, che ti insegna la pazienza, il limite, l’imprevisto. Chi viene dalla Sicilia (che per me è già quasi il continente) si arrabbia se non può lasciare l’isola per un improvviso temporale: adesso che faccio? e i miei impegni”?
Trovo in don Vito, in Paolo, in Vincenzo e nei loro amici – conosciuti troppo in fretta ma subito amati – l’umiltà di chi sperimenta la penuria e l’audacia di chi guarda lontano. Ascoltandoli immagino che Mazara (pare sia la città italiana con la più alta presenza araba: uno su cinque) potrebbe essere domani un faro nel processo di integrazione.
La mia passeggiata per la Kasbha di Mazara era avvenuto un luminoso pomeriggio dello scorso maggio, ma è stato in agosto che ho potuto perfezionare l’informazione su quanto stanno covando gli amici mazaresi ed è stato durante un giro della Sicilia a metà tra la vacanza e lo stage aziendale, mirato alla ricerca di segni antichi e nuovi della presenza islamica. Durante quel giro ho scoperto un segno antico che più di altri mi ha emozionato, soprattutto per la sorpresa di trovarlo a Segesta, nella parte alta della zona archeologica: dico “scoperto” perché quel segno non c’era nel 1992, l’ultima volta che ero stato su quella collina. Si tratta della segnalazione, sul monte Barbaro, dei resti di una moschea e di un cimitero islamico.
Una moschea a Segestapoco sopra il teatro greco
Non credevo a quello che leggevo sul pannello in vetro e alluminio! Insomma a Segesta non abbiamo da esultare soltanto per il teatro che dà verso il mare e per l’incantevole tempio con colonne senza scanalature, ma anche per il ritrovamento, maturato lungo l’ultimo decennio, di un insediamento musulmano databile al XII secolo e cioè in piena epoca normanna, qualche decennio dopo la cacciata militare degli arabi, quando lassù si rifugiarono i contadini decisi a resistere alla forzosa riconversione al cristianesimo, come forzosa era stata – due secoli prima – la loro conversione all’Islam. Si rifugiarono in un luogo da tempo abbandonato, dopo che era stato sicano, greco, romano e bizantino. Infine i vandali l’avevano devastato e dopo secoli di abbandono risorse come Qual’at Barbari, Calatabarbaro in siciliano.
Questo nome non aveva una chiara interpretazione fino a che gli archeologi, l’altro ieri, non hanno rimesso in luce le mura perimetrali di una moschea, identificata come tale per la presenza della qiblà, cioè la nicchia che indica la direzione della Mecca. Accanto un cimitero dove i sepolti erano posti in “posizione laterale con il volto verso la Mecca”. Com’è pensabile che una comunità musulmana a dominante indigena abbia la forza di costruire una moschea forse mezzo secolo dopo la cacciata degli arabi (la caduta di Noto, ultima piazzaforte, è del 1091)?
Sappiamo che la presenza musulmana in Sicilia cessa soltanto con Federico II (egli muore nel 1250), quando infine tutti i musulmani superstiti alla riconversione vengono trasferiti a Lucera di Puglia. Può essere che su un monte desolato, alcuni “giapponesi” dell’Islam abbiano trovato – magari per cent’anni – un loro habitat relativamente indisturbato? I dotti ricostruttori delle stratificazioni di civiltà messe in luce dagli archeologi dicono di sì e a me piace crederlo. Chi volesse verificare vada ai capitoli La moschea e Il cimitero islamico del volume Segesta de La Medusa editore (Marsala 2005).
Meticciato architettonico per culture separate
Io trovo avvincente quella successione, tra le pietre di Segesta, delle genti indigene, greche, paleocristiane, arabe e normanne. Qualcosa che richiama il palinsesto di civiltà attestato dalle colonne e dalle mura della cattedrale di Siracusa, che furono tempio di Athena e chiesa e moschea e di nuovo chiesa. Meraviglie del meticciato architettonico e urbanistico siciliano, che nella Kasbha di Mazara fa da sfondo a una vivente avventura di uomini d’Africa e di Sicilia che tornano a convivere in una città che già abitarono in grande conflitto e paiono timorosi all’incontro, ma ad esso sono chiamati.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 16/2006