Eccomi alla seconda riflessione sulle veglie di preghiera degli omosessuali. La prima aveva al centro la domanda di uno di loro: “Secondo te, io che figlio sono?” Questa gira intorno a un’altra sua interrogazione: “Tu che sai di me?” Ho chiesto in privato e attraverso il blog a persone omosessuali di raccontarsi e qui riporto abbreviate cinque narrazioni.
Concluderò con un accenno a due testi, nati da loro e dal contatto con loro: il primo si intitola Proposte per il Sinodo dei vescovi ed è a cura del “Comitato organizzatore del terzo Forum italiano cristiani LGBT [lesbian, gay, bisexual and transgender]” e ha la data del 15 settembre 2014; il secondo, Accompagnare spiritualmente persone omosessuali credenti è stato redatto a uso interno dai partecipanti al Corso di formazione per operatori pastorali che si è concluso il 17-19 aprile 2015 a Galloro, nell’ambito della ricerca esperienziale sulle “frontiere esistenziali” promossa da un gruppo di gesuiti. Il primo lo trovi nel portale dei Cristiani LGBT, il secondo è inedito.
Il Signore non può non essere
nell’amore che provo
La prima storia è di una donna che nel mio blog si firma Dialogica: “Sono lesbica e cattolica e da alcuni anni sono tra gli organizzatori delle Veglie per le vittime dell’omofobia nella mia città. Negli ultimi tempi ho scoperto che la posizione intransigente, grazie a Dio, non è l’unica nella Chiesa. Il Signore non può non essere nell’amore che posso provare per un’altra donna né può essere assente quando lo invoco.
“Occorre un ripensamento sereno su cosa sia l’omosessualità: non si può continuare a dire che l’omosessualità non esiste, o ‘il tuo non è amore’, o escludere dal volontariato in parrocchia. Io ho smesso di fare volontariato di mia volontà. Volevo cercare un luogo più accogliente e l’ho trovato in un gruppo di omosessuali credenti. Il gruppo dà la possibilità di entrare in contatto con persone anche consacrate che possono aiutare la persona a migliorare il proprio rapporto con Dio e talvolta a sentirsi di nuovo chiesa in cammino”.
Simile è il percorso di un altro visitatore del blog che si firma Simone83: “Ricordo un intervento di un prete qualche tempo fa che sul tema dell’omosessualità disse: il loro non è amore. Rabbrividii davanti a quelle parole. Certo è sempre facile ricondurre gli omosessuali alle macchiette edonistiche che la televisione ci propina, ma la realtà è fatta di persone che nella quotidianità della vita cercano, come tutti, di essere felici. Inquadriamo questo sentimento nel matrimonio? Non è necessario: il matrimonio come sacramento è un istituto ben definito e quindi è impossibile modificarlo. Ma questo non toglie che si possa/debba dare a quelle persone un riconoscimento del loro amore e, perché no, benedirlo.
“Non basta dire che la Chiesa chiede agli omosessuali l’astinenza come la chiede a tutte le persone non sposate, perché le persone eterosessuali se s’innamorano possono sposarsi. La Chiesa sta finalmente capendo e riconoscendo che anche gli omosessuali possono amare. E’ mai possibile che il Signore non dimori in un amore puro e vero come quello che io so provare? Io so cosa c’è nel mio cuore e cosa Dio in esso vedrà e questo mi basta”.
Segni inequivocabili
che il Padre si cura di me
Cinzia ha risposto in privato alla mia domanda. “Mi barcameno tra lavoro, cura della mamma, varie faccende pratiche della vita e la fidanzata o compagna o come cavolo la si voglia denominare: la donna che amo insomma. Siamo due signorine non più giovani, viaggiamo tra i 40 e i 50, non siamo mai state al Pride. A volte c’è tempo per fare l’amore ed è un momento di grande comunione che ti fa superare la solitudine a cui siamo spesso confinate. Noi, quelli denominati gay e lesbiche, siamo talmente abituati a sopravvivere cambiando maschera in base agli ambiti in cui ci muoviamo che non sappiamo neppure di farlo.
“Io ho speso 40 anni della mia vita per arrivare a dirmi che la relazione in cui potevo gioire era con una donna: metà della vita trascorsa per sfuggire all’autoannientamento. Ora che l’età inizia a declinare, certo posso dire di aver raggiunto una qualche serenità. Un po’ nervosa sì, ma mi do da fare, sono lavoratrice, vivo con semplicità. Per tanti anni ho avuto paura della condanna di Dio tanto da arrivare a non dormire la notte pensando all’inadeguatezza dei miei istinti rispetto alla sua volontà. Poi sono guarita: ho semplicemente capito che non era quella la sua volontà. Oggi scorgo segni inequivocabili che il Padre si prende cura di me”.
Angela nel blog e in privato racconta che si è sempre sentita “diversa” da quelli che aveva intorno: “Mi azzuffavo con gli altri bambini e avevo la meglio grazie al mio fisico mascolino. Le bambine le trovavo noiose ma mi affascinavano per la loro dolcezza. Non capivo quello che provavo ma temevo a parlarne con gli altri. Finché una volta, in un film, sentii quella parola: lesbica. Che cosa vuol dire? chiesi a mia mamma, che rispose: è una brutta malattia. E se io lo fossi? La risposta mi gelò: mi daresti un dolore grandissimo.
Navigando nella Rete
ho scoperto Gionata
“Tenni il mio terribile segreto finché a 20 anni ho conosciuto una lesbica e siamo state insieme due anni. A quel punto fui costretta a dirlo. Per mia madre fu uno shock, tanto che andò in menopausa a 40 anni. Ma quella ragazza abusava di alcool e droghe e si comportava come una puttana e quando finalmente tornai libera pensai: che diamine, essere lesbica vuol dire questo? Non voglio più saperne! Mi riavvicinai alla fede e pensai: se sono obbligata alla vita casta tanto vale prendere i voti.
“Entrai in un ordine religioso e vi stetti sei mesi. Mi sentivo come un topo in trappola e compresi che per fare quella vita ci vuole una vera vocazione, non può essere una scelta obbligata, come non può esserlo la castità. Ma anche fuori ero dilaniata: non mi riconoscevo tra le persone omosessuali a causa della fede, non mi sentivo accettata dalla Chiesa in quanto lesbica. Un giorno, presa da tristezza, digito su internet ‘fede e omosessualità’ e compare il portale di Gionata. Dunque non ero l’unica schizzata che si dibatteva tra il suo Dio e la sua natura, eravamo in tanti, in tutto il mondo, ad affrontare ogni giorno i miei stessi problemi. Ho compiuto un lavoro su me stessa e ora sono convinta che Dio ama tutto ciò che ha creato e mi ama così come sono. E anche io amo il mio Creatore con tutto il cuore e amo me stessa così come sono”.
Manuel76 si racconta sul blog e mi appare il più sereno tra i miei interlocutori: “l’argomento mi attraversa, è una parte di me” dice con schiettezza ma non ha bisogno di battagliare. Argomenta con qualche distacco: “Se oltre a non aver paura dei legami tra persone dello stesso sesso si riuscisse a valorizzare l’unione tra due persone per rilanciare il matrimonio tra uomo e donna? Non potrebbe essere uno stimolo? Un parroco di una chiesa vicina alla mia sta promuovendo una merenda (un paio d’ore pomeridiane conviviali un sabato al mese) per fare incontrare le coppie di generazioni diverse, in modo che si conoscano e possano parlarsi e confrontare difficoltà e gioie della vita di ogni giorno.
Ho lottato per essere normale
ma non lo sono
“Se la presenza di Dio passasse anche attraverso la richiesta di una unione tra persone dello stesso sesso che si vogliono impegnare l’uno per l’altro? La carica emotiva e i ragionamenti che stanno alla base di persone che chiedono di potere avere una unione e di potere vivere uno per l’altro non possono essere uno stimolo per chi questa possibilità ce l’ha già e non ne capisce la ricchezza? La presenza di persone omosessuali che di figli non ne hanno (e di conseguenza hanno meno impegno familiare) non può essere una ricchezza per una parrocchia che, forse, si sta buttando via?
“Ho lottato per anni nella mia vita per essere ‘normale’ ma non lo sono. Non ho storie strazianti, ma solo in cuore la cicatrice di chi non è come gli altri. Non penso che il mondo debba venirci incontro, non abbiamo problemi di deambulazione. Ma l’abbattimento di alcune barriere culturali non toglie nulla alla famiglia e men che meno alla fertilità”.
I miei interlocutori non vanno al Gay Pride, non rivendicano il matrimonio. Argomentano sulla chiamata coatta al celibato e sull’interpretazione dei passi biblici che nominano l’omosessualità. È lo stesso atteggiamento di interlocuzione con la comunità ecclesiale che ho trovato nelle citate “proposte” per il Sinodo e nel foglio di Galloro.
Ecco un brano di quest’ultimo: “L’accompagnamento in questa specifica situazione di frontiera deve muoversi in due direzioni: verso la persona omosessuale nel suo cammino spirituale ed ecclesiale, verso la comunità ecclesiale perché possa diventare più accogliente e inclusiva”. Qui a parlare sono uomini e donne di Chiesa che hanno intrecciato un rapporto di accoglienza con persone e gruppi omosessuali.
L’età m’aiuta
a guardarli come figli
Il primo dei due documenti è invece espressione diretta di “persone omosessuali e transessuali cristiane che per la prima volta hanno lavorato insieme con la volontà di passare dall’attesa alla partecipazione”. Eccone un brano: “Speriamo in una comunità ecclesiale che insegni alle famiglie a essere luogo di accoglienza e di sostegno ai figli omosessuali e che esplicitamente rigetti approcci tesi a cambiare l’orientamento sessuale”.
Trovo un significato nella ricerca di Dio da parte di questi amici e sono felice di trovarlo. Un significato per me che potrebbe valere per la comunità. Non tutto comprendo ma sempre ascolto. L’età m’aiuta a guardarli come figli. Tornerò sull’argomento per dire quello che ho imparato dai colloqui. Invito a intrecciarli senza immaginare che spettino ad altri.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 7/2015, pp. 503-504