Questa è la storia di Amina, che non si presenta all’esame di quinta elementare e di due maestre che la vanno a cercare in motorino: una storia che dice qualcosa di quel luogo di umanità che è la scuola e di quante persone ci mettono il cuore.
Una quinta elementare di Roma, il 16 giugno mattina. I 24 alunni sono pronti, il foglio protocollo davanti, con su il timbro della segreteria. “Non vi fate impressionare dal timbro, è un compito come un altro” stanno dicendo le maestre, quando si accorgono che gli alunni sono solo 23 e che è avanzato un foglio e che manca Amina.
Amina ogni tanto non viene a scuola e le maestre chiudono un occhio, perché vive sola con la mamma, che è una donna di strada e qualche volta a casa non c’è neanche la mamma e nessuno le vede per un giorno o due.
Chiedono notizie alle donne di strada
Ma oggi non possono chiudere un occhio: se Amina non fa l’esame, perderà l’anno. Le maestre fanno suonare il telefonino della mamma, ma non arriva nessuna risposta. Magari l’hanno lasciato in casa e sono uscite tutte e due, dicono i bambini.
La maestra di religione – che è cicciottella – dice: la vado a cercare. La maestra di inglese – che è piccolina – le fa: ti porto io con il motorino. Prendono il casco e via. Sembravano la ‘i’ attaccata alla ‘o’ – dirà la vicepreside, che autorizza l’impresa e le vede partire.
Bussano a casa, ma non risponde nessuno. Una signora dalla finestra dice: “Sono uscite presto, con una valigia, come se andassero al treno”.
Le due maestre cercano le altre donne di strada, che in quella via ce ne sono tante. Ma nessuna vuole parlare e una, più decisa, quasi le minaccia: qui è pericoloso fare domande, andate via prima che vi vedano gli uomini.
Le maestre ora ricordano che c’era un’altra mamma della loro scuola che faceva quel mestiere alla stazione Termini ed era tunisina e aveva due bimbe con gli occhi nerissimi, che venivano nella loro scuola, finchè il padre non le aveva rapite alla moglie e portate in Tunisia.
La tunisina riconosce le maestre, sa e racconta. Seguendo le sue indicazioni, quelle ripartono con il motorino e vanno alla stazione delle Ferrovie Laziali. La maestra di inglese resta seduta sul motorino, chè lì non lo puoi lasciare se no te lo rubano, mentre l’altra corre al binario e vede Amina affacciata al finestrino di un treno che sta per partire.
– Amina, devi venire a fare l’esame! – grida la maestra arrivando di corsa.
– Ma la mamma dice che dobbiamo partire – risponde la bambina.
– Scendi dal treno, che intanto io parlo alla mamma – dice la maestra. Parlano e si capiscono, mentre la maestra cammina accanto al treno che parte, tenendo Amina per mano. Si accordano sull’ora in cui la mamma deve andare a riprenderla a scuola e corrono verso l’uscita, dove le aspetta l’altra maestra, sempre sul motorino.
Amina mette il casco della maestra di religione e la maestra di inglese la porta a scuola, in tempo per fare l’esame.
Tra le prove di italiano, Amina sceglie “Io racconto…”. E lì, nello svolgimento del tema di esame, le maestre scoprono che cosa precisamente era successo alle due fuggiasche, la notte precedente. Perché dalle parole della tunisina avevano capito soltanto che due uomini – albanesi come loro – le avevano derubate per spaventarle e costringerle a lasciare l’alloggio.
Nel tema Amina racconta che dorme nel letto quando sente un rumore, apre un occhio e vede due uomini entrare dalla finestra, facendosi luce con una pila piccola come una matita. Uno va verso la mamma e la spruzza con una bomboletta, mentre l’altro prende il telefonino e i soldi che sono sul tavolo. Ed ecco l’altro che viene verso di lei con la bomboletta. Amina chiude quell’occhio, sente lo spruzzo e si addormenta. I due dunque le avevano narcotizzate.
La solidarietà abbonda ma non è riconosciuta
Quando la mamma di Amina va a ritirare la scheda con la promozione della bambina, le maestre le chiedono se possono aiutarla a lasciare la strada. Lei dice che quello è il suo lavoro e là vuole restare, ma è contenta che Amina abbia la quinta elementare, perché “deve andare alla medie, in modo che da grande possa fare un altro lavoro”.
Un fatto che vale una parabola: quella della pecora smarrita. Una solidarietà inventiva, vissuta con semplicità, in un contesto difficile.
Non è rara la solidarietà nel mondo d’oggi. Non sarà sempre proposta con la spontaneità di quelle giovani maestre, ma essa è una costante della nostra vita, che tendiamo stoltamente a non avvertire.
Ecco altri due esempi che prendo dal mio ambiente di vita, uno più ordinario e uno più straordinario rispetto a quello mediano delle maestre con il motorino.
La storia di ordinaria solidarietà fiorisce intorno a un incidente con il motorino, capitato ultimamente a Beniamino, 23 anni, terzo dei miei figli. Va a sbattere contro un’automobile all’incrocio di via Panisperna con via dei Serpenti. E’ colpa sua, ma per fortuna ha il casco in testa e all’automobile che investe provoca soltanto l’ammaccatura di una portiera. Il motorino è assicurato. Lui se la cava con sei punti al gomito destro.
Soccorso di quartiere a un ragazzo caduto
Ma che cosa non è successo, intorno al Beniamino frastornato!
Il giornalaio che ha visto la scena l’aiuta ad alzarsi e a sedersi sul gradino di una porta.
Una ragazza dell’erboristeria poco lontana gli dà a bere una tisana di fiori di bach: “Aiuta a riprendersi!”
Le ragazze dell’auto investita chiamano l’ambulanza e gli prestano il telefonino per chiamare a casa.
Il fruttivendolo che ha il negozio all’angolo raccoglie da terra il motorino e lo sistema accanto alle casse della sua merce.
Ed ora il fatto straordinario. Ne è protagonista una donna semplice, che si meraviglierebbe a sapere che qualcuno l’ha nominata su un giornale. Si chiama Rina, è casalinga, vive nella cittadina di Nerviano, nel milanese, in un caseggiato popolare, lo stesso dei parenti della mia sposa.
Ha avuto per anni il marito sperduto nell’Alzeimer e ha tuttora un figlio adulto che non basta a se stesso. Nell’accompagnamento del marito aveva rivelato una genialità meritevole di attenzione: riempiva la casa di biglietti, che aggiornava e adattava alle situazioni: “NON ACCENDERE IL GAS”, “NON APRIRE QUESTA PORTA”.
Qualche anno addietro si ammalò gravemente una sua sorella, che viveva sola a Vicenza e Rina non ci pensò due volte su come aiutarla: riempì le valigie per i due e per sé, partì con loro e restò là due mesi. Sepolta la sorella, tornò a casa con i due e le valigie. Visse quella malattia terminale nel modo con cui altri fanno una vacanza.
Un viaggio di misericordia
Ecco tre parabole della solidarietà, che ho raccontato al fine di segnalarne la frequenza tra noi e per invitare il lettore a esercitarsi nella sua scoperta. Vedere il bene richiede il cuore puro, ma l’aiuta un’attitudine conoscitiva che può essere migliorata nel suo funzionamento, a somiglianza di quanto si può fare per la memoria.
Le tre storie appartengono al genere dei fatti non notiziabili, come si dice nel gergo giornalistico e perciò destinati a restare nel giro dei testimoni immediati.
L’uscita delle maestre alla ricerca dell’alunna smarrita si scontra con il mestiere della mamma di Amina: ma Gesù non temeva di mettere le prostitute nelle sue parabole.
Il soccorso al ragazzo caduto verrà giudicato banale, mentre farà notizia che qualcuno cada e nessuno lo aiuti. Ma se è scandaloso che nessuno soccorra, dovrà essere significativo che tutti soccorrano! Una tisana è poca cosa, ma non sfigura accanto all’evangelico bicchiere d’acqua.
Infine la storia di Rina si scontra con lo zelo per la privacy e il pudore per le malattie e la morte. Ma va invocato – anche nel bene – il diritto di cronaca. Se Amina avesse subito violenza, i giornalisti avrebbero assediato la sua casa e la scuola, narrando non solo il mestiere della mamma, ma anche quanto prendeva a cliente. Se Rina invece di quel viaggio di misericordia, ne avesse compiuto uno di malaffare, di certo tutte le malattie dei suoi sarebbero state squadernate.
Abbozzo qualche passaggio di questa esercitazione a conferire dignità di notizia ai segni della solidarietà.
Primo: avere chiaro che la nostra cultura comunicativa quei segni li ignora.
Secondo: superare la tentazione di considerarli banali.
Terzo: investire nella loro indagine lo stesso impegno che mettiamo per la conoscenza di fatti che riguardano – poniamo – il denaro.
Quarto: diffonderne la conoscenza, come un dono agli amici.
Suggerisco di tenere d’occhio – in questa esercitazione – la similitudine con l’atteggiamento di Gesù che si appassiona al comportamento del samaritano soccorrevole, o del padre che riaccoglie il figlio. Emblematico è soprattutto l’episodio della vedova che fa l’offerta al tempio, nel capitolo 12 di Marco. Quante volte l’abbiamo guardata quella vedova, senza vederla.
Gesù che osserva la povera vedova
Egli invece la vede perché si impegna a vedere: “Sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro”. Trovo straordinario questo Gesù che osserva i comportamenti umani, per scoprirvi i segni del Regno.
Guarda e non giudica banale quello che vede, perché rovescia il metro quantitativo della veduta nostra, non più lunga di una spanna: “Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino”.
Realizzata la misura segreta di quel gesto, lo comunica ai discepoli, per educarli a scoprire la grazia che può esservi in ogni atto umano: “Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: ‘In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri'”.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 14/2004