Don Andrea Gallo e la sua tumultuosa messa di addio mi sono parsi da subito – e sempre più nei giorni – una parabola vivente della “Chiesa incidentata” di cui ci sta parlando Papa Bergoglio. Pensare con affetto a don Andrea – che un poco avevo conosciuto nella sua provocatoria spigolosità – mi era risultato impegnativo al momento della morte (22 maggio) già di suo ma l’impegno si è almeno raddoppiato con le scene e le grida di quella celebrazione.
“Non scrivi nulla su don Gallo? Hai scritto persino di Andreotti” mi ha detto con mite rimprovero una che amo. Ed ecco che ci provo, guardando a don Andrea come all’uomo di Chiesa che esce per le strade e i marciapiedi e inciampa e si ammacca.
Un affetto tribolato in vita e in morte
Il mio per don Gallo fu un affetto tribolato in vita, perché lui non aiutava in nulla quelli che gli volevano bene da lontano, com’era il mio caso; ed è risultato un affetto strattonato in morte perché si è litigato sulla sua bara e poi sulla sua tomba, come sempre per questione di eredità. Era un’eredità buona la sua, o cattiva? Andava custodita o bandita? Siccome la guerra era divampata anche nel mio blog, sul momento ho taciuto come per Franca Rame. Poi di Franca ho parlato con riconoscenza cinque giorni dopo: riconoscenza per la sua interpretazione del lamento di Maria sotto la Croce, in Mistero buffo, che considero la più viva che abbiamo avuto ai nostri giorni.
Per don Gallo invece ho aspettato un mese perché la sua figura era più coinvolgente per me. Ma infine gli ho mandato a dire che gli voglio bene, che gli ho sempre voluto bene non condividendolo granchè ma apprezzando la sua capacità di stare con “i morti di fame” e i morenti di Aids, i clandestini, i tossici, le prostitute. Animatore nato di ogni chiesuola disastrata.
Ho incontrato don Gallo una sola volta, a un dibattito di “Torino spiritualità” più di dieci anni addietro e non fu un incontro facile. Non litigammo solo perché lui non mi prese sul serio e io non litigo con nessuno. Ma ci fu burrasca. Il tema era “Dio nella vita pubblica italiana”, c’eravamo un ebreo, un valdese, un agnostico, don Gallo e io a coordinare. Come prevedevo, le spine più lunghe le ebbi da lui. “Guardi don Gallo che quello che dice lei del suo Dio, il cardinale Ruini non lo condivide mica” lo rimproverava il valdese. E lui: “Non conosco il cardinale Ruini”. Gli applausi furono tanti quanti i fischi quando Bagnasco ha nominato Siri durante l’omelia per il funerale di don Gallo. “Quello che dice lei a me va bene ma non lo condivide neanche il suo arcivescovo Tettamanzi” insisteva l’agnostico. E don Andrea più Gallo che mai: “Non conosco neanche Tettamanzi”.
Fischi al cardinale che lui non conosceva
Io invece che conosco tutti mi trovai a sudare su quel palco tutte le sette camicie che non avevo. Il discorso su Dio diventava impervio – come non lo fosse già di suo – quando c’era don Gallo nei dintorni. Diciamo che da impervio si faceva impossibile, come forse è giusto che sia. Ma poi uno cerca di tracciare un sentiero e lui lo devastava come farebbe un incursore in terra nemica, incurante delle conseguenze. Se fosse stato presente al suo funerale – “Vedi don Andrea che parole arrivo a scrivere per amor tuo” – non gli sarebbe dispiaciuta quella confusione, i pugni chiusi, la bandiera della pace, i fischi al cardinale che lui non conosceva: egli amava provocare ed era convinto che il Dio di Gesù Cristo sia di casa nell’autenticità e nella confusione dell’umano più che in qualsiasi altro luogo.
Segno di contraddizione lo è stato fin nella morte. C’era conflitto in quel funerale perché lì erano presenti nelle persone e venivano dette verità che si scontravano e che tutte gli appartenevano, un poco o un tanto. Erano a loro modo vere le parole di Bagnasco, come erano a loro modo veri i fischi di protesta per esse, ed era vera la protesta della signora Lilli (sua prima collaboratrice da trent’anni) per quei fischi. Era vera infine la confusione dei cuori dopo quella delle lingue. Quel funerale era lo specchio di quella vita.
A chi ne è restato sconcertato domando – allo sconcertato che è dentro di me domando: era meglio che non ci fosse quella confusione al funerale, d’accordo, ma era anche meglio che non ci fosse stata quella vita?
“Preferisco mille volte una Chiesa incidentata”
E’ bene che ci sia stata – non c’è dubbio. E dunque per amore di quel bene accetterò la pena di quei fischi, delle dichiarazioni di Luxuria, dei pugni chiusi; e quella delle vesti stracciate dei dirimpettai ideologici che nella Rete hanno rinfacciato al cardinale di aver celebrato la messa di addio per un suo prete.
«Dobbiamo far uscire Cristo. C’è il rischio di incidenti, ma preferisco mille volte una Chiesa incidentata, piuttosto che chiusa e malata»: don Gallo è stato l’incarnazione di questo motto guida di Papa Francesco, che così l’ha formulato durante la veglia della vigilia di Pentecoste . Proprio il giorno dei fischi a Bagnasco il Papa delle periferie pregava al Santa Marta perché “tutti quelli che si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte” e aggiungeva parole severe per i “controllori della fede” che ai sette sacramenti aggiungono come ottavo “quello della dogana pastorale”.
Una Chiesa che non teme ammaccature e scontri: per l’appunto quella che dà spazio ai pugni chiusi e alla comunione di Vladimir Luxuria. Così Luxuria nel suo sito ha ricordato don Andrea: “La scomparsa di Don Gallo è molto di più della perdita di una persona cara. E’ qualcosa di più vasto, più profondo. Il primo ad aver definito le persone transessuali come figli di Dio: ci accarezzava il viso, ci stringeva la mano. Ha aperto la sua chiesa a tutti e tutte. Don Gallo, grazie per averci fatto sentire amati da Dio”.
Sono solidale con Bagnasco. E’ stato bravo ad andare. Forse poteva stare più cauto su Siri. Ma sono sicuro che se ci fossi stato io e avessi detto “due parole due” gli amici di don Gallo avrebbero fischiato pure me.
Tutti i fischi dei quali sono stato cronista
Quei fischi mi hanno ricordato quelli degli studenti della Sapienza a Giovanni Paolo II il 21 aprile 1991. Quelli dei sandinisti allo stesso Papa a Managua il 6 marzo 1983: e anche là c’era di mezzo – ma vivo – un “don Gallo” che si chiamava Ernesto Cardenal. I fischi al cardinale Ruini durante una manifestazione pubblica a Siena nel settembre del 2005. L’opposizione alla visita di Benedetto alla Sapienza nell’inverno 2008. Le scritte sui muri contro il cardinale Bagnasco e il Papa in diverse occasioni lungo il 2007e il 2008.
Fischi tutti dei quali sono stato cronista e che mi sono dispiaciuti come rivolti a me; ma per i quali, avendoli indagati dopo averli pianti, sento di poter dire che è meglio una Chiesa nella mischia che una Chiesa da museo. Meglio contestati che ininfluenti direbbe Ruini. Meglio fischiati che assenti direbbe forse Bergoglio. Che da Papa più volte ha detto: meglio incidentati in una piazza che intatti in un museo. Semplicemente sono d’accordo.
E dunque ha fatto bene don Gallo – “Hai fatto bene don Andrea” – ad andare a cercare le pecore smarrite nei territori del loro smarrimento. In essi incontravi Fabrizio De André, genovese e malalingua tuo pari, e gli dicevi: “Anch’io come prete «verso il vino e spezzo il pane per chi dice ho sete ho fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione. Tu svegli il dubbio che Dio esista”. Sono le parole che don Gallo dedica nel suo ultimo libro (In cammino con Francesco, Chiarelettere 2013) all’amico cantautore.
Nello stesso volume c’è un altro testo per una ragazza di nome Francesca, che faceva parte della Comunità di San Benedetto al Porto, morta di Aids – testo dal quale riporto le righe che mi sono parse di maggior pregio, somiglianti alle parole che il prete degli incidentati aveva avuto per il cantore degli esclusi: “Francesca ha chiuso gli occhi ma lo ha fatto con grande speranza. Dinanzi alla sua salma, ecco il grande insegnamento, ci sentiamo finalmente poveri che gemono, che hanno gli occhi spalancati davanti alla morte, alla scomparsa di chi amiamo: non ho detto di chi abbiamo amato (…). La parola del Signore è per noi il punto di incontro con il mistero di Dio ed è il punto in cui la sapienza di Dio scivola dentro lo spessore della nostra miseria e la riscatta. È in questa parola che noi osiamo affermare che il nostro corpo sarà conformato al glorioso corpo di Gesù Cristo, fratello nostro, compagno morto nell’andare verso la morte e tuttavia liberato dalla morte stessa (…). Questa morte, con la morte di Cristo, ci fa entrare nello spessore della Passione. Cerchiamo Dio, non scavalcando gli uomini, ma dentro il dramma umano. È un modo di vivere questa passione, addossandosi le speranze degli uomini perché si realizzino”.
Cercare Dio dentro il dramma umano
Cercare Dio “dentro il dramma umano” è il lascito di don Gallo che ha dedicato la vita a “svegliare il dubbio che Dio esista” e a reclutare uditori del Vangelo per le strade e dietro le siepi. Quelli di casa – non tutti, ma quanti erano e sono contrari alle uscite non autorizzate – hanno temuto che le sue sortite rischiassero piuttosto di suscitare il dubbio che Dio non esista. Ciò è avvenuto innanzitutto – io credo – per la nativa passione con cui don Andrea ha esercitato l’arte della provocazione.
Un’arte che ha esposto magistralmente con i volumi Ancora in strada. Un prete da marciapiede (De Ferrari, 2011) e Come un cane in Chiesa. Il Vangelo respira solo nelle strade (Piemme, 2012). Questo secondo volume, illustrato da Vauro, resta come il testamento di chi non ha smesso mai di cercare uditori della Parola nei quartieri malfamati combattendo contro ogni dogana.
Luigi Accattoli
Il Regno attualità 14/13