Stavolta parto basso: dai racconti delle telefonate di Francesco alle persone tribolate. Ma spero di arrivare in alto: a farmi un’idea di che cosa intenda quando dice nell’intervista alle riviste dei Gesuiti: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo”. Si possono “curare le ferite” anche al telefono? Provo ad andare oltre la curiosità del cronista sulle telefonate a chi e come, voglioso di capire qualcosa di quell’intervento di cura.
Nella lista delle telefonate bergogliane – in tutto simili a quelle che faceva da cardinale – due su tre hanno per destinatari i feriti della vita. Lascio da parte le chiamate ai bambini che gli mandano disegni, ai ragazzi che gli scrivono dopo Rio, agli sposi che festeggiano i quarant’anni di nozze. Scelgo dieci tra lettere e chiamate con forte intenzione.
Puoi contare su di me
per qualunque cosa
Il 17 luglio scrive a una detenuta di Buenos Aires che gli aveva mandato ostie fatte da lei e gli aveva raccontato la sua storia di perdizione e riscatto: «Cara Gabriela, ringrazio per la fiducia e anche per le ostie. Da domani celebrerò la messa con queste ostie e posso assicurarle che è una cosa che mi emoziona. La sua lettera mi ha fatto riflettere e pregherò per lei. Mi rallegra e mi dà sicurezza sapere che anche lei prega per me”.
Il 7 agosto chiama Michele Ferri, 40 anni, di Pesaro, da tempo costretto alla carrozzella e fratello di Andrea, il titolare di alcuni impianti di benzina ucciso due mesi prima da un dipendente e da un suo complice. “Ciao Michele, sono papa Francesco” racconta d’aver sentito nella cornetta, incredulo che fosse lui ma subito convinto dai riferimenti alla lettera con cui gli aveva narrato la propria difficoltà a “credere ancora in Dio”: «Mi ha detto che ha pianto quando ha letto la lettera che gli avevo scritto. Mi ha aiutato a vedere una luce nel mio tunnel». Michele dice al Papa che anche la mamma avrebbe aiuto a sentirlo e Francesco il 25 agosto richiama per parlare con la mamma Rosalba.
L’8 agosto chiama una connazionale, Josefina, colpita da grave malattia, che vive a Gualeguaychú e gli aveva scritto chiedendo d’essere accompagnata nell’invocazione della guarigione: “Continuerò a pregare per te e già sai che puoi contare su di me per qualunque cosa di cui avrai bisogno”.
“Quando ho sentito la voce del papa al telefono mi è sembrato di essere toccata dalla mano di Dio”: così un’altra argentina, Alejandra Pereyra, di 44 anni, vittima di uno stupro da parte di un poliziotto, chiamata il 25 agosto. “Il Papa mi ha detto che non sono sola e mi ha chiesto di avere fiducia nella giustizia. Mi ha raccontato che riceve migliaia di lettere ogni giorno e che la mia gli aveva colpito il cuore”.
«Sono una ragazza madre con un divorzio alle spalle, poi mi sono fidanzata con un uomo. Quando a giugno ho scoperto di essere incinta ho saputo la verità: era sposato, aveva un figlio e voleva che abortissi»: Anna Romano, 35 anni, di Arezzo, scrive al Papa la sua disperazione. Il 3 settembre Francesco la chiama: «Non avrei mai immaginato che un giorno il pontefice potesse azzerare ogni distanza chiamandomi al cellulare come fosse un amico. Mi ha rassicurata dicendomi che il bimbo era un dono di Dio, un segno della Provvidenza e che ero stata coraggiosa e forte. Gli ho detto che intendevo battezzarlo ma che avevo paura che non fosse possibile perché sono una ragazza madre, già divorziata e lui mi ha rassicurata: “Sono convinto che non avrai problemi a battezzarlo, ma se ci fossero lo battezzo io” ».
Io prego per te
tu prega per me
Lucia Uva sorella di Giuseppe, morto in carcere dopo un arresto per ubriachezza, da cinque anni si batte per avere la verità su quella morte sospetta e fa avere al Papa un dossier su 57 casi di malagiustizia. Il Papa la riceve il 12 settembre con i familiari di altri cinque deceduti in carcere: “Mi ha posato le mani sulla testa e mi ha accarezzato il viso mentre parlavo. Ci ha chiesto di pregare per lui e ci ha assicurato di pregare per noi”.
Il 14 settembre chiama Michael Di Marco, un ragazzo distrofico di 15 anni, di Pinerolo, che gli aveva scritto sperando di poterlo incontrare: “Stavo cucinando, a momenti svenivo; ha chiesto di Michael, gliel’ho passato”, racconta la mamma Antonella. Michael: “Non era uno scherzo, l’ho riconosciuto dall’accento argentino. Gli ho risposto che se anche sono sulla carrozzina sto bene. Non mi sono emozionato molto. Il Papa mi ha messo subito a mio agio. Mi ha detto: io prego per te, tu prega per me”.
“Sono Monica, la mamma di Chiara Massi, la mia unica figlia di diciannove anni che, due mesi fa, al termine di una giornata di mare trascorsa con me e con il padre mi è stata portata via mentre, a bordo di un motociclo, tornava a casa con Marco, il suo ragazzo”. Così Monica Ciccalè, di Sant’Elpidio a Mare, aveva scritto a Francesco all’inizio di settembre, ricevendo poco dopo una risposta per lettera in cui il papa le prometteva di pregare per lei e per la famiglia, “affinché possa avere consolazione”. La notizia arriva ai giornali il 1° ottobre.
Il 28 settembre Francesco chiama Gianna Chierotto, madre di Tiziano, l’alpino di Arma di Taggia (Imperia) ucciso in Afghanistan 11 mesi fa: «Siamo stati al telefono 10 minuti e abbiamo parlato tanto di Tiziano. All’udienza generale gli avevo lasciato l’album con le foto e le frasi che Tiziano ci scriveva e sabato ne abbiamo parlato. Ho avuto la sensazione di non avere un papa dall’altra parte del telefono ma un papà ».
Un matrimonio fallito
nel quale ha pure abortito
Leggendo di seguito queste notizie che troviamo sui giornali ogni settimana, intravvediamo l’intenzione terapeutica di chi le fa. Tre familiari di persone morte tragicamente, un disabile, una malata grave, una detenuta con chissà quale storia, persone convinte di aver subito un torto mortale nella carne di un congiunto, una donna violentata, una ragazza madre.
Una prima idea possiamo cavarla dal caso della ragazza madre con divorzio alle spalle, decisa a far nascere il bambino e intenzionata a battezzarlo: oltre a consolarla, che ci dice il papa? Forse lo stesso che aveva detto, sempre nell’intervista alle riviste dei Gesuiti, con questa interpellanza ai confessori: “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”
Non credo che Francesco voglia dirci soltanto che i confessori dovranno cercare di guidare quella donna e le sue sorelle sui sentieri della misericordia. Ci dice di più: forse ci vuole indicare come in mezzo a simili situazioni di peccato e di grazia si possano rintracciare elementi di esemplarità evangelica, vie e segni di santità.
Predicando e curando
ogni malattia e ogni ferita
Ha usato la parola “santità” raccontando egli stesso – senza che ci fossero cronache dei giornali – una telefonata di cura: l’ha fatto nell’incontro del 16 settembre con i parroci di Roma, quando – argomentando che “la Chiesa non crolla perché oggi, come sempre, c’è tanta santità quotidiana” – ha accennato al dialogo telefonico che aveva avuto il giorno prima, domenica 15 settembre, con una donna di Buenos Aires che gli aveva inviato una lettera scritta su un tovagliolo di carta: “La donna, che fa le pulizie nell’aeroporto della capitale argentina, ha un figlio tossicodipendente e disoccupato. E lavora per lui, sperando nel futuro del ragazzo. Questa è santità” (il racconto è nella cronaca dell’OR del 17 settembre). Non sembra di stare in una pagina del Vangelo di Luca?
La cura dei feriti va insieme alla predicazione, nella veduta di papa Bergoglio. Lo dice alle riviste dei Gesuiti: «Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo […]. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta». Lì parlava ai confessori, ma lo Spirito soffia dove vuole.
Sceglie le più impegnative
per le sue risposte
La cura è dunque – per papa Francesco – un momento dell’annuncio. E l’annuncio un momento della cura. Ambedue dovrebbero svolgersi nell’incontro, nel colloquio, nel contatto anche fisico. «Io vedo con chiarezza – dice ancora alle riviste dei Gesuiti – che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità […]. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso». Non tanto con i piani pastorali, dico io, o con encicliche, o con organismi specializzati, o su vasta scala, ma fermandoci quando scendiamo da Gerusalemme a casa nostra, avendo compassione di chi incontriamo mezzo morto all’uscita dalla metro, non scappando dopo aver fatto cadere una moneta su una mano tesa.
Non c’è chi non riceva richieste d’aiuto dal pianeta della disperazione e uno dice: sono troppe, come faccio a tenere conto di tutte. Il Papa con le sue telefonate segnala un metodo di risposta: riceve migliaia di lettere e sceglie le più impegnative per le risposte. Non fa rispondere d’ufficio ma lo fa di persona, esponendosi con promesse, cercando parole di Vangelo, mettendo l’anima per chi l’ha cercato. Vedo questo in quelle telefonate e non mi pare poco.
Luigi Accattoli
Il Regno attualità 18/13