Stavolta parlo dell’accanimento dei medici: non in chiave medica o giuridica, che non sono miei campi, ma narrando storie come si addice a un giornalista e la storia di partenza è quella di un amico pediatra di Reggio Calabria che è morto di tumore a 70 anni nel gennaio del 2008, lasciando un caro ricordo in un vasto ambiente del volontariato e della Chiesa reggina. Il ricordo di Lucio ravviva in me quello di altre tre storie che alla sua si legano e che riguardano il patriarca Athenagoras, il cardinale Benelli, la terziaria domenicana Leletta. Storie che invitano a guardare con cautela ai “protocolli” medici ma prima ancora a ciò che da essi noi ci attendiamo.
Parto da una parola detta a me da Lucio più di vent’anni addietro, dovendo egli fare accertamenti per un’ipotetica cirrosi epatica: “In questi casi noi medici siamo più disarmati degli altri. Come chiunque teme un secondo ricovero più del primo, così il medico teme per sé anche a motivo dei ricoveri degli altri che magari è stato lui a decidere. Il medico somatizza i mali di tutti”.
Non voleva essere intubato
né collegato a macchine
In quella stessa occasione svolse all’incirca questa critica dell’arte medica: “Io penso che debba ancora imparare a trattare la persona umana. Per ora si è impegnata a trattare i casi clinici. Una cura che miri alla persona dovrebbe avere a cuore di evitarle, per quanto possibile, trattamenti chimici, radiologici e chirurgici ma ancor prima gli accertamenti strumentali non necessari”.
Dell’opportunità di questo o quel trattamento avevamo parlato spesso – Lucio ed io – nei tre anni della malattia tumorale di Michela Ceccon, la mia prima moglie, che il giorno della scoperta del male mi aveva detto, con riferimento ai figli, la più piccola dei quali aveva cinque mesi: “Fosse per me non mi curerei, lo faccio per voi”. Più volte Lucio ebbe a sconsigliarci di partire per Milano o per Parigi in cerca di consulti e di cure sperimentali.
Quando venne il suo momento – dopo che al Gemelli, nel dicembre del 2007, gli avevano diagnosticato un tumore al colon con metastasi al fegato e ai polmoni – Lucio disse alla moglie Anna di non farlo intubare né collegare a macchine se fosse andato in coma. Era contrario anche a sottoporsi a ogni forma di alimentazione artificiale, compresa quella di tipo integrativo che si può realizzare con la flebo.
La sua situazione clinica non permetteva interventi chirurgici, ma avrebbe potuto affrontare trattamenti chemioterapici che forse gli avrebbero procurato qualche mese di vita: preferì non averli. Nella scelta di questo atteggiamento ebbe un ruolo – secondo il racconto di Anna – l’esempio che gli era venuto da Leletta (Aurelia Oreglia d’Isola, detta Leletta, terziaria domenicana,1926-1993), che era stata molto decisa nel rifiuto dei farmaci e della chirurgia nel trattamento della sua malattia tumorale. Lucio e Anna avevano in grande stima quella maestra di spirito alla quale una volta avevano fatto visita nel priorato di Saint Pierre (Aosta). Leletta così aveva commentato nel diario (Il diario di Leletta, Franco Angeli, Milano 1993) la scelta di sottrarsi a tagli e chemioterapia: “Che gioia anche umana aver fatto marameo agli accanimenti diagnostici e terapeutici di questi medici padreterni”. C’era un lampo di questa ironia nello sguardo che mi rivolse Lucio al Gemelli dicendomi che sarebbe restato ancora qualche giorno “perché vogliono vedere questo e quello anche se non servirà: i medici sono fatti così”.
Aveva chiesto a Dio il dono
di morire con dignità
Molti negli anni si sono rivolti a Lucio – che era pediatra ma tendeva a porsi come medico globale e amico – per l’accompagnamento di malati terminali e tutti sono restati ammirati dall’impegno che poneva a risparmiare sofferenze con una saggia conduzione della terapia del dolore, sempre a basso dosaggio farmacologico, accompagnata da una generosa attivazione di sostegni parentali e amicali. Qualcuno lo ricorda che gioca a carte con anziani in fase terminale.
Del modo in cui Lucio ha affrontato la malattia ha parlato così la moglie Anna in una lettera agli amici: “Non avevamo chiesto a Dio la guarigione dal male, ma l’aiuto ad accettare la sua volontà qualunque essa fosse e per Lucio la possibilità di morire con dignità, senza accanimenti terapeutici, pregando e partecipando coscientemente ai Sacramenti e all’Unzione degli infermi, così come è avvenuto. Lucio ha offerto le sue sofferenze e il dolore del distacco per amore della nostra Chiesa locale ed è spirato mentre io invocavo il suo angelo custode affinchè lo aiutasse a superare quella soglia che doveva attraversare senza di me”.
Lucio che evita – con la piena avvertenza di un medico – le cure antitumorali che avrebbero potuto procurargli qualche mese di vita mi richiama la scelta di preferire la morte all’invalidità compiuta dal cardinale Giovanni Benelli (1921-1982) arcivescovo di Firenze. Colpito da infarto, Benelli rifiuta l’ospedale e si chiude nella sua camera dove muore in solitudine dopo la vita più attiva, finalmente solo con il suo Dio. Muore il 26 ottobre 1982, a una settimana da un secondo e maggiore infarto, dopo il quale impone ai collaboratori e ai medici il silenzio assoluto sulle sue condizioni di salute e si fa promettere con giuramento che lo lasceranno morire nel suo letto.
Resta così tre giorni, vigile e solo, protetto dalle due suore irlandesi che l’avevano seguito da Roma, dal medico personale e dal segretario che ogni mattina gli porta l’Eucarestia. Ma non conosce – il segretario – la gravità della situazione, gli hanno detto di non parlare al cardinale per non affaticarlo e il cardinale non gli parla. Dopo i tre giorni, lo portano in ospedale che è già in coma. Lo riporteranno a casa – dopo un tentativo tardivo di rianimazione – perché possa morire nel suo letto, come aveva chiesto.
Meno accaniti a vivere
e più preparati a morire
Ci fu polemica sul medico che accettò quella decisione di non curarsi: forse un ricovero immediato lo poteva salvare. Segnalo quella sua scelta di lasciarsi morire ai moralisti, per il capitolo sui trattamenti di fine vita, oggi così attuale: ci dice che è possibile una scelta cristiana della morte di fronte alla prospettiva di una sopravvivenza assistita. Una minore preoccupazione di prolungare la vita può aiutare ad affrontare la morte. Ci avvediamo anche – considerando quella scelta – come vi fosse fino ad anni recenti maggiore libertà almeno psicologica di autodeterminazione in materia di alimentazione, di cure e di ricoveri, prima che le posizioni non risultassero irrigidite dalla disputa sull’eutanasia.
“Nessuno ha mai colto un lamento sulle sue labbra”, dirà di Benelli il cardinale Silvano Piovanelli, suo successore come arcivescovo di Firenze: “Lo rivedo nel letto, il volto sereno e disteso come quello di un bambino contento di essere nelle braccia del Padre”. I medici insistono per il ricovero e davanti al suo rifiuto il cardiologo Antonini esclama: “Non dà evidentemente grande importanza alla vita, come accade per questi uomini di fede”.
“Negli ultimi mesi si andava preparando a morire, allora non lo capimmo ma la cosa ci fu chiara dopo”, racconterà Aimo Petracchi, allora segretario del cardinale: “Di quella preparazione lei può trovare traccia nelle ultime omelie e nel testamento”.
Mi devo preparare
per un altro viaggio
Il 16 agosto, sentendo – dopo un primo infarto sornione – che la salute se ne andava, aveva scritto – in partenza per il Brasile – il testamento che termina con queste intense parole: “A tutti voi, carissimi figli e figlie di Firenze, lascio una sola parola: fidatevi sempre di Gesù Cristo! Che Dio mi prenda nella sua misericordia!”
Sono tanti i modi di vivere la morte e tanti quelli di celebrare la propria morte nella Chiesa: tra essi c’è anche la singolare testimonianza del cardinale Benelli. Che dieci anni prima era stata di un altro grande cristiano: Athenagoras (1886-1972), patriarca di Costantinopoli.
A 86 anni il patriarca cade dalle scale, tornando dalla liturgia e si rompe il femore. Comprende che quella caduta è il preannuncio della morte e rifiuta la proposta del metropolita Melitone che lo vorrebbe portare a Vienna per affidarlo ai migliori specialisti: “No, io non andrò a Vienna. Ormai mi devo preparare per un altro viaggio”. Ricoverato in una stanza piccola e spoglia dell’ospedale greco-ortodosso di Balukli, si confessa, recita lentamente le preghiere penitenziali, riceve con molta pace e con viso trasfigurato la comunione, “domanda che gli si lasci accanto il Pane eucaristico e il Calice della salvezza e, rifiutando ogni altro cibo, chiede di essere lasciato solo”. Resta solo per morire “solo con il solo” e così muore nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 1972.
Tornare monaco
all’atto della morte
Il sentimento di essere vicino alla morte, il rifiuto dell’ospedale, la solitudine e l’Eucarestia: ci sono tutti gli elementi della morte di Benelli. Athenagoras, che aveva lasciato il monastero accettando nel 1948 l’elezione a patriarca ecumenico di Costantinopoli, volle tornare monaco all’atto della morte. L’attivissimo Benelli volle morire da monaco.
Sono dunque cinque i “santi” con i quali discuto gli accanimenti che avverto intorno a me: il patriarca Athenagoras, il cardinale Benelli, Leletta (nel 2007 è stata avviata la causa di canonizzazione dalla diocesi di Aosta), Michela e Lucio. Il ricordo di Lucio Raffa è in una mia conferenza inedita tenuta a Reggio Calabria il 27 maggio 2011. Le storie di Benelli, di Athenagoras e di Leletta sono nel mio volume Cerco fatti di Vangelo, SEI, Torino 1995. Sia la conferenza sia le tre storie sono rintracciabili nel mio blog: l’indirizzo è qui, sotto la mia firma.
Luigi Accattoli
Il Regno attualità 14/2011