Il 31 marzo 2005, a un anno dalla morte, si doveva tenere a Osio Sotto (Bergamo) un incontro in memoria del “vescovo salesiano” Vincenzo Savio (1944-2004). Ero tra i relatori, insieme a Umberto Folena, don Agostino Paganesi e padre Egidio Monzani. L’aggravarsi della condizione di Giovanni Paolo – che sarebbe morto di lì a due giorni – mi ha impedito di essere presente. Metto qui la traccia della conversazione che avevo preparato e che avevo già utilizzato in un analogo incontro “in memoria” a Canale d’Agordo (Belluno) e in un altro a Firenze, nella chiesa di cui era stato parroco.
Lo descriverò come amico, il caro don Vincenzo. E dirò che nella nostra amicizia egli ha avuto la prima e l’ultima parola. La prima mi arrivò nell’estate del 1975 e diede l’avvio alla nostra conoscenza. L’ultima è stata una parola postuma, arrivata a me attraverso l’esecutore testamentario – don Diego Bardin – che in data 30 maggio mi ha inviato un pacchetto contenente una bella stilografica, accompagnata da questo biglietto: “A nome di monsignor Vincenzo, le invio questo suo ricordo, segno della gratitudine e della stima che lui mi ha incaricato di manifestare agli amici che più gli sono stati vicini”.
La prima parola mi era arrivata per lettera quando avevo trent’anni e non sapevo della sua esistenza: mi invitava a un incontro con il gruppo di giovani di cui era animatore a Savona. E’ stata per me la prima chiamata a tenere una conferenza.
1. A sorpresa volle che parlassimo di Pier Paolo Pasolini
Non ricordo per quale argomento mi avesse chiamato. Ma non è importante, perché sempre, negli anni, mi ha interpellato su vari temi, ma su un solo argomento: sull’essere cristiani oggi. Aveva visto come ne parlavo sulla rivista Il Regno e mi aveva chiamato. Venendomi a prendere alla stazione di Savona, mi disse: dovremo parlare di Pasolini, della sua passione per la figura di Gesù, del suo tormento religioso e della sua difficoltà a essere cristiano.
Era il 5 novembre 1975 e Pasolini era morto, sulla spiaggia di Ostia, tre giorni prima, in quel modo “maledetto”. “Che giorno ha scelto per morire, il giorno dei morti!”, diceva don Vincenzo. Quel tema Vincenzo e io abbiamo continuato a trattarlo nei trent’anni della nostra amicizia: se sia possibile essere cristiani oggi, la necessità di capire il modo in cui lo sono i lontani e come aiutarli facendoci a loro vicini. Ma anche l’arte di “chiedere collaborazione ai non credenti”: che poi sperimentò – e così definì – durante la preparazione del Sinodo fiorentino.
Un’eco di quell’arte è risuonata nei suoi ultimi scritti. “La Chiesa ha bisogno del mondo. Noi oggi avvertiamo un grande bisogno degli altri, anche dei lontani; anche dei nemici, se ce ne fossero!” si legge nella lettera pastorale del 2003. E nella nota sinodale dello stesso anno, Quale Chiesa per la nostra terra, che ha la data del 15 dicembre 2003, invita a presentare l’idea del Sinodo anche a “quanti in questo momento non frequentano la vita ecclesiale, ma guardano a essa con interesse, con amicizia o anche con spirito critico”.
2. La magnifica ospitalità di Livorno
Farò memoria delle tappe della nostra amicizia, raccontando un episodio per ognuno dei periodi della sua vita di prete e di vescovo.
Ho detto del periodo di Savona, dove fu – come responsabile di un oratorio e animatore di gruppi giovanili – dal 1972 al 1976.
Fu poi a Livorno, parroco dal 1977 al 1985 e di nuovo – come vescovo ausiliare – dal 1993 al 2000. Nell’insieme, quelli di Livorno sono 17 anni, durante i quali io fui suo ospite una decina di volte e altrettante lui da me, a Roma.
Due furono gli appuntamenti livornesi più significativi: nel marzo del 1983, in occasione della visita del Papa e nel 1985, per la celebrazione del Sinodo diocesano.
In ambedue i casi era incaricato dei rapporti con la stampa e volle che l’aiutassi a organizzare una cena di lavoro con i giornalisti. Ma lo stile della cena di lavoro l’avevano anche gli incontri di animazione ai quali mi invitava a partecipare, in particolare destinati ai giovani.
Era quell’atteggiamento di premura per ognuno che incontrava, a colpire. Un atteggiamento espresso dalle due citazioni di Gesù e di Paolo che più amava:
– “Vi ho chiamato amici” (Giovanni 15, 15);
– “Non padrone della vostra fede, ma collaboratore della vostra gioia” (2 Corinti 1, 24).
Con quella bellissima citazione di Paolo si è presentato durante la prima celebrazione in cattedrale, a Belluno: “Nel cuore del mistero eucaristico non mi è difficile riconoscervi come fratelli e sorelle affidatimi da Dio, a cui donarmi senza riserve e non per far da padrone della vostra fede, ma per servire la vostra gioia”.
3. Segretario del Sinodo fiorentino: i problemi della grande Chiesa
Dal 1986 al 1990 è a Firenze. Ancora animatore dei giovani, ancora impegnato nella preparazione di un Sinodo diocesano.
Il Sinodo di Livorno, il Sinodo di Firenze, quel singolare esperimento che fu il Sinodo dei giovani (che ebbe a definire: con i giovani, sui giovani, per i giovani) del suo secondo periodo livornese (1996), il Sinodo di Belluno: una scuola sinodale d’alto livello, che l’avrebbe forse portato a realizzare a Belluno, se fosse vissuto, un capolavoro di coinvolgimento, avendone appresa l’arte negli anni in cui collaborò con il vescovo livornese Abbondi e con il cardinale di Firenze Piovanelli.
Chi volesse studiare la figura di vescovo impersonata da don Vincenzo, dovrebbe concentrare l’attenzione sui sinodi per i quali lavorò e il testo chiave potrebbe essere una relazione che tenne all’Assemblea diocesana di Spoleto del 24-25 settembre 1999, intitolata Sinodo è camminare insieme: è in essa che è contenuto l’invito a “chiedere collaborazione ai non credenti”, quando si riflette sull’immagine che la Chiesa dà di sé e sull’attualità del Vangelo, che ho citato sopra, al paragrafo 2.
Del periodo fiorentino riferisco l’incontro che avemmo ad Arezzo nel 1987, durante un convegno delle comunità di base. Ciò che ricordo meglio non è la conversazione sulle polarizzazioni all’interno della Chiesa, che avemmo a tavola, ma la visita a una chiesa, Santa Maria delle Grazie, che voleva mostrarmi: “E’ così bella, che voglio che tu ne porti l’immagine con te”. Era felice di mostrarmela e mi diceva che quelle eleganti colonne di Benedetto da Maiano – nel loggiato di ingresso – erano come “ragazze che danzano”. Ricordo questa battuta lieta, di un uomo che mi pare abbia sempre guardato al celibato con serenità.
Amava l’arte e la natura. Per l’arte questa sua attitudine si è manifestata in maniera forte con la scelta dell’icona del Volto del Cristo del Beato Angelico come messaggio finale ai bellunesi. In occasione del mio ultimo incontro con lui, nell’agosto del 2003, mi regalò una pubblicazione – che aveva patrocinato – sulle chiese di Vigo di Cadore, dedicata in particolare agli affreschi medievali, appena restaurati, del ciclo di Sant’Orsola, dicendomi che era sua intenzione “ridare luce” all’intero patrimonio artistico della diocesi.
Per la natura, in un incontro ad Alleghe dell’anno precedente (agosto 2002), mi aveva raccontato con entusiasmo il giro delle dolomiti bellunesi che aveva voluto fare in incognito, appena nominato vescovo, come per “prenderne possesso con il cuore” e lo “stupore dell’occhio” che ne aveva riportato – per esempio – al Passo Giau.
4. Quando corse a Roma per piangere con me
Fu poi ad Alassio – in Liguria – per quattro anni, dal 1990 al 1993. E da lì – anzi dall’estero, dove lo trovò la notizia – si precipitò a Roma, quando io ebbi un lutto importante, nel novembre del 1990. Gli dissi al telefono: non ti preoccupare, partecipa da lontano, ci vedremo appena capiterai a Roma. Ma volle venire. Potè prendere posto tra i trenta concelebranti, arrivando di corsa dall’aeroporto. Mi abbracciò e mi disse: “Potevo pregare da lontano, ma volevo anche piangere con te”.
5. La libertà di parola nella malattia
Riassumo con questo titoletto i tre anni bellunesi. Come sempre, anche in questo periodo mi ha chiamato a tenere incontri ed è venuto due volte – nell’agosto del 2002 e nell’agosto del 2003 – a Canale d’Agordo, dove mi trovavo in vacanza, per cenare con me e con la mia famiglia, come tante volte avevamo fatto a Roma e a Livorno.
Di questo periodo voglio ricordare:
– la decisione di parlare in pubblico della sua malattia e di ricevere l’unzione degli infermi a Lourdes, insieme ai partecipanti al pellegrinaggio bellunese, il 16 settembre 2003;
– la libertà di parola che ha avuto sul tema della guerra, affermando anche nel momento delle ami “il sogno” di ritenere possibile che “ogni uomo si senta fratello di ogni altro uomo” e criticando la scelta della “guerra preventiva” anche quando essa risultò irreversibile e coinvolse l’Italia; unico tra i vescovi italiani riuniti in assemblea ad Assisi, riaffermò quella critica anche dopo la strage di Nassirija.
Quanto alla libertà di parola sulla guerra, credo che non avrebbe osato parlare fuori dal coro in un contesto tanto difficile senza il rafforzamento – anche temperamentale – che egli aveva ricevuto dalla prova della malattia.
Il frutto migliore della maturazione vissuta da don Vincenzo con la malattia l’abbiamo avuto con le straordinarie parole del testamento, scritto una settimana prima della morte: “Io sono senza misura contento di Dio. Una meraviglia. Una sorpresa continua, tale da poter dire a me, con convinzione, che in ogni istante la sua misura era piena e pigiata”.
Luigi Accattoli
Da Il Regno 8/2005
Una miniera di informazioni su Vincenzo Savio è la biografia scritta dal confratello salesiano Antonio Miscio, Vincenzo Savio. La meravigliosa avventura di un vescovo sorridente, Elledici 2009, 437 pagine – con testi di presentazione dei cardinali Tarcisio Bertone e Silvano Piovanelli, dei vescovi Alberto Ablondi e Giuseppe Andric, del sacerdote Luigi Del Favero. Dal volume di Miscio ho cavato una “parabola” intitolata Vincenzo Savio e il vagabondo ubriaco che si può leggere nel capitolo 21 di questa pagina del blog, intitolato PARABOLE.