«Ogni giorno è servito, perché in ogni giorno ho affidato alla Madonna tutti i miei cari. Il tempo è prezioso. Non ho paura, sono contenta»: parole dette da Francesca Pedrazzini a un’amica pochi giorni prima di morire, il 23 agosto 2012. Lucida fino all’ultimo, desiderosa che gli antidolorifici non le impedissero di comunicare, indica dove vuole essere sepolta, dà le ultime raccomandazioni al marito, parla con i tre figli, con i parenti e assicura tutti: “Io sono serena”.
Aveva 38 anni, Francesca Pedrazzini. Uno in meno di Vincenzo, il marito. Ambedue di Cl. Lei insegnante (di diritto), lui avvocato, si sono conosciuti in Università Cattolica («lei mi aiutava a studiare»), fidanzati nel 1995, sposati nel 2000. Tre figli: alla morte della mamma Cecilia ha 10 anni, Carlo 7, Sofia 3. Tornando da una vacanza in Grecia, nel gennaio 2010, scopre un nodulo al seno. «Era stata dura, da subito», racconta Vincenzo: «Abbiamo avuto paura. Ma l’aveva affrontata a testa alta. Dopo l’intervento eravamo ripartiti, più ricchi. Io per la prima volta avevo iniziato a vivere non pensando anzitutto a me stesso, non mettendomi più al primo posto». Nella primavera del 2011 sembra guarita ma a settembre, al rientro da un’altra vacanza in Grecia, un forte mal di schiena preannuncia il passaggio del tumore alle ossa e al fegato. Dopo gli accertamenti spedisce un messaggio alle amiche: «Sono in pace perché Gesù mantiene la promessa di renderci felici. Fai con me questa strada e lo vedremo. Ne sono certa. Ti abbraccio».
«Francesca è passata da tutti gli stati d’animo», racconta la sorella Sara: «La ribellione, l’ansia, l’angoscia. Ma il primo istante è stato un sì. Ha detto: va bene così. Non piangeva. Me lo ricordo bene, perché io ero disperata, ma avevo davanti una che non lo era. Una delle frasi che ripeteva più spesso era: sono sopraffatta. Intendeva dire sopraffatta dalla gratuità, dall’accoglienza. Abbiamo avuto una compagnia costante: amici in ospedale e a casa, mail, messaggi, gente che pregava per lei in ogni angolo del mondo. Era certa che quello che le stava capitando era per tutti. Riguardando a questi mesi, mi dico: eravamo noi che avevamo più bisogno di fare questa strada. Lei l’intuizione che Gesù è fedele ce l’aveva già. C’è stato un periodo in cui esageravano con gli antidolorifici e lei ha chiesto di ridurli: “Preferisco avere mal di schiena, ma capire mio figlio quando mi parla”…». Un po’ di sollievo arriva a primavera del 2012. La malattia avanza, ma Francesca si sente meglio. «Ed era strafelice», dice Vincenzo: «Ripeteva: il tempo che il Signore mi dà voglio viverlo facendo cose belle con i miei figli».
Una mail spedita da Francesca agli amici un mese prima della morte attesta come fosse consapevole della situazione: «Appena gli esami vanno male mi assale un’angoscia tremenda, per me ma più che altro per mio marito i miei figli e la mia famiglia ed è una cosa che non riesco a vincere. Il futuro mi terrorizza, mi si spezza il cuore a pensare ai miei figli crescere senza mamma (la Sofia ha solo tre anni!!) e mio marito invecchiare da solo. Sono scenari tragici ma c’è poco da ridere e io ci penso tanto. Tutto sommato la più fortunata sarei io, che ho finito la mia prova. Lo so che la paura non è contraria alla fede, anche Gesù ha avuto paura sulla croce, ma è brutta e io non voglio vivere quello che mi resta con questa paura nel cuore, determinata dalle circostanze, come se l’abbraccio di Cristo per me e i miei non potesse sconfiggerla». Un’altra mail dello stesso periodo: «Mi tremano un po’ i polsi, ma veramente questa occasione non la voglio perdere!!».
“Vince, vieni qui” dice al marito uno degli ultimi giorni: “Devi stare tranquillo. Io sono contenta. Sono in pace. Sono certa di Gesù. Non ho paura, va bene così. Anzi, sono curiosa di quello che mi sta preparando il Signore. Sono tranquilla. Mi spiace solo per te, perché la tua prova è più pesante della mia, sarebbe stato meglio il contrario. Voglio essere sepolta a Chiaravalle, mi raccomando! E poi ricordati che bisogna iscrivere la Ceci alle medie. Devo assolutamente segnare tutte le cose organizzative che si devono fare”. Chiede di parlare con la dottoressa. Si fa spiegare tutto. E il giorno dopo domanda di vedere i bambini, uno per uno. “Guardate, io vado in Paradiso. È un posto bellissimo, non vi dovete preoccupare. Avrete nostalgia, lo so. Ma io vi vedrò e vi curerò sempre. E mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una grande festa”.
Lo stesso con i parenti, uno ad uno. «Io sono entrato in lacrime», racconta Giuseppe, il padre: «E lei: “Piangi pure, perché è il momento di piangere. Però sappi che io sono serena”. Ma continuavano a succedere cose mai viste. Due sere prima che morisse, in ospedale, avevamo ordinato le pizze. Sembrava di essere all’osteria di fuoriporta. Poi il rosario sottovoce. Guardavo ’sta gente e dicevo: ma siamo tutti matti?». «Io ho 63 anni, ho incontrato il movimento da giovane e ho avuto la grazia di vedere mia figlia andare in Paradiso», dice la mamma Mariachiara: «Non ho più paura di nulla. Mia figlia mi ha fatto vedere nella carne che cosa produce una sequela semplice e vera nella vita. Produce il centuplo quaggiù. Francesca negli ultimi tempi era radiosa. Non te la puoi dare da sola, questa cosa».
«Vorrei sapere perché la gente deve convertirsi sul mio cancro», aveva chiesto Francesca un giorno a un sacerdote amico. E lui: «È il mistero della croce».
Mia libera riduzione da un articolo di Davide Perillo pubblicato dalla rivista di Comunione e liberazione “Tracce”, nel numero 9 ottobre 2012 con il titolo “Guardate, io vado in Paradiso”.
[Ottobre 2012]