Il cardinale Giovanni Benelli, colpito da infarto, rifiuta l’ospedale e si chiude nella sua camera dove forse trova finalmente “il deserto della decisione e del combattimento” che aveva sempre cercato. E muore da monaco dopo la vita più attiva, solo con il suo Dio.
Benelli muore il 26 ottobre 1982, a una settimana dal primo infarto: dopo il quale impose ai suoi collaboratori e ai medici il silenzio assoluto sulle sue condizioni di salute e rifiutò il ricovero in ospedale e si fece promettere che l’avrebbero lasciato morire nel suo letto.
Resta così tre giorni, vigile e solo, protetto dalle due suore irlandesi che l’avevano seguito da Roma, dal medico personale e dal segretario che ogni mattina gli porta l’Eucarestia. Ma non conosce – il segretario – la gravità della situazione, gli hanno detto di non parlare al cardinale per non affaticarlo e il cardinale non gli parla. Dopo i tre giorni, lo portano in ospedale che è già in coma. Lo riporteranno a casa – dopo un tentativo tardivo di rianimazione – perché possa morire nel suo letto, come aveva chiesto.
Ci fu polemica sull’atteggiamento del medico che accettò quella decisione di non curarsi: forse un ricovero immediato lo poteva salvare. Segnalo quella sua decisione di lasciarsi morire ai moralisti, per il capitolo sull’eutanasia: c’è analogia tra chi sceglie la morte per l’insostenibilità del dolore e chi la sceglie per il rifiuto di una sopravvivenza assistita. Ma qui ci interessano i tre giorni del suo faccia a faccia con la morte.
“Nessuno ha mai colto un lamento sulle sue labbra”, racconterà il successore Piovanelli: “Lo rivedo nel letto, prima di essere portato all’ospedale in rianimazione: il volto sereno e disteso come quello di un bambino contento di essere nelle braccia del Padre”. I medici insistono per il ricovero e davanti al suo reiterato rifiuto il cardiologo Antonini esclama: Non dà evidentemente grande importanza alla vita, come accade per questi uomini di fede.
“Negli ultimi mesi si andava preparando a morire, allora non lo capimmo ma la cosa ci fu chiara dopo”, mi racconta Aimo Petracchi, oggi vicario generale dell’arcidiocesi e allora segretario del cardinale Benelli. “Di quella preparazione lei può trovare traccia nelle ultime omelie e nel testamento”.
Il 16 agosto, sentendo che la salute se ne andava, aveva scritto – in partenza per il Brasile – il testamento che termina con queste intense parole, che riassumono efficacemente la sua conversione pastorale e valgano più delle omelie di una vita: “A tutti voi, carissimi figli e figlie di Firenze, lascio una sola parola: fidatevi sempre di Gesù Cristo! Grazie, con particolare commozione a tutti quelli che mi hanno aiutato a ripetere questa parola nella faticosa ma meravigliosa visita pastorale. Che Dio mi prenda nella sua misericordia!”
Nelle omelie degli ultimi due mesi – tanto dura la sua preparazione al trapasso – è frequente l’accenno indiretto alla morte, o alla solitudine che a essa conduce. Introducendo la messa del Venerdì – che si teneva in arcivescovado, aperta a sacerdoti, religiosi e laici – dice il 10 settembre: “Mai come in questo momento ho esperimentato la necessità di pregare, di avere dei fratelli intorno”. Nell’ultima di quelle messe, il 15 ottobre, alla preghiera dei fedeli parla così:
“Quello che ci paralizza è la paura: paura anche di salvarci, paura di non farcela a seguire Gesù fino in fondo; paura del male che ci circonda, paura delle critiche, paura di non resistere alle persecuzioni; paura anche di non essere considerati per quello che siamo, non solo dagli uomini – anche questa è una paura che ci rode all’interno – ma qualche volta neppure da Dio, cioè paura di essere dimenticati da Dio. La malattia, la morte, nei momenti più bui: Dio mi ha abbandonato. E’ la più grande bestemmia!”
Qui il cristiano Benelli parla di sé: “Paura di essere dimenticati da Dio”. E di sé già aveva parlato – già con le parole del testamento spirituale – nella omelia del 9 luglio, sempre alla messa del venerdì: “Non puoi fidarti delle tue forze, devi fidarti solo del Signore che non ti abbandona”.
Le persone del dramma sono dunque queste: le forze che ti abbandonano, la fiducia in Gesù, la paura d’essere dimenticati, l’invocazione perché non avvenga. Questo è il dramma vissuto dal battezzato Benelli gli ultimi tre giorni della sua vita cosciente. Egli che aveva sempre predicato la necessità di non fermarsi mai, in quella “corsa sola, che è quella della nostra vita”! Ora si ferma, ora sceglie il deserto.
Questa scelta del deserto egli l’aveva spiegata nell’omelia del 1° ottobre, ma nessuno sapeva che egli si sentiva la morte addosso, la capiamo adesso che fu la scelta della sua vita: “Noi siamo veramente immersi nel frastuono della vita, ma possiamo e dobbiamo fare silenzio anche in questo frastuono, perché senza il silenzio, senza il deserto, senza rimanere nel deserto, non possiamo trovare la via della conversione nostra, di questo cambio che deve condurci a diventare piccoli davanti a Dio. E’ il deserto il luogo veramente privilegiato, il luogo adatto, più adatto di qualsiasi altro luogo, per il combattimento e per la decisione. Lì non si può indietreggiare, siamo posti chiaramente di fronte a Dio: noi e lui soli nel deserto”.
In nessun momento della sua molteplice vita l’arcivescovo Giovanni ci risulta fratello come nei tre giorni finali di deserto, da lui voluti come il luogo del combattimento e della decisione.
Ecco come interpreta questa scelta di “entrare nella morte a occhi aperti” – il biografo Gianfranco Rolfi: “Si è polemizzato molto sul suo rifiuto di andare in ospedale. Bisogna rileggere oggi le sue omelie, i suoi discorsi per comprendere cosa significasse per lui vivere e morire. (…) Accettò sorella morte non perché fosse carico di anni o di problemi, o perché la vita non gli avrebbe più riservato gioia e progetti: era la pienezza del proprio ministero pastorale che si concludeva in un trapasso sereno e tranquillo. Benelli non era uomo da pensione e del silenzio; solo consumandosi totalmente per un ideale avrebbe pienamente realizzato la sua esperienza terrena: farsi tutto a tutti a lode di Dio e a servizio dei fratelli”.
Sono tanti i modi di vivere la morte e tanti quelli di celebrare la propria morte nella Chiesa: tra essi c’è anche la singolare testimonianza del cardinale Benelli. Che dieci anni prima era stata di un altro grande cristiano e arcivescovo: Athenagoras (1886-1972), patriarca di Costantinopoli.
A 86 anni il patriarca cade dalle scale, tornando dalla liturgia e si rompe il femore. Comprende che quella caduta è il preannuncio della morte e rifiuta la proposta del metropolita Melitone che lo vorrebbe portare a Vienna per affidarlo ai migliori specialisti: “No, io non andrò a Vienna. Ormai mi devo preparare per un altro viaggio”. Ricoverato in una stanza piccola e spoglia dell’ospedale greco-ortodosso di Balukli, si confessa, recita lentamente le preghiere penitenziali, riceve con molta pace e con viso trasfigurato la comunione, “domanda che gli si lasci accanto il pane eucaristico e il calice della salvezza e, rifiutando ogni altro cibo, chiede di essere lasciato solo”. Resta solo per morire “solo con il solo” e così muore nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 1972.
Il sentimento di essere vicino alla morte, il rifiuto dell’ospedale, la solitudine e l’Eucarestia: ci sono tutti gli elementi della morte di Benelli. Athenagoras, che aveva lasciato il monastero accettando nel 1948 l’elezione a Patriarca ecumenico di Costantinopoli, volle tornare monaco all’atto della morte. Benelli, che aveva sempre fatto la vita più attiva, volle morire da monaco.
Il testamento di Giovanni Benelli e le altre notizie qui utilizzate sono nel volume AAVV, Il cardinale Giovanni Benelli, Studium, Roma 1992. La testimonianza di Aimo Petracchi l’ho raccolta di persona. Il racconto della morte di Athenagoras vedilo in Enzo Bianchi, Vivere la morte, Gribaudi, Torino 1992, p. 284.
Dal volume, Cerco fatti di Vangelo, SEI, Torino 1995, pp. 148-152 e 291-292.