«Ringrazio il papa per l’aiuto a credere»
Qui faccio memoria di Domenico del Rio, che se ne è andato a 76 anni, il 26 gennaio 2003. Era un cristiano serio. Ha attraversato una varietà di stagioni, ma è restato davanti al mistero per tutta la vita ed è riuscito a darne conto, con novità di linguaggio, in partibus infidelium.
Non sono risultati da poco. Forse nessuno l’ha conosciuto quanto me, se mettiamo insieme la faccia pubblica e quella privata, che lui teneva separate. Tocca dunque a me tentarne un profilo.
Chi lo conosceva solo per gli scritti non smetta di leggermi, perché non sa che uomo raro egli era davanti a Dio. Chi non lo conosceva affatto, approfitti di queste due pagine per scoprire una vita che ne ha interpretate molte.
Conobbi Domenico nel dicembre del 1975, nei locali in allestimento del quotidiano La Repubblica, che veniva sperimentando i suoi «numero zero», in vista dell’approdo nelle edicole fissato per il gennaio del 1976. Aveva 17 anni più di me, ma come vaticanista era il mio vice, perché era un «precario» del giornalismo. Da appena un anno aveva ottenuto la riduzione allo stato laicale e si era sposato con Janja.
Quando si chiamava «padre Evangelista»
Domenico aveva quasi cinquant’anni e ne aveva passati una ventina nell’ordine dei frati minori, dove si era occupato – sulle testate della famiglia francescana – del Concilio e delle missioni. C’è ancora chi conserva nella sua biblioteca un bel volume intitolato San Bonaventura da Bagnoregio, pubblicato nel 1973 dalle edizioni Antonianum, in vista del centenario bonaventuriano e del quale il «padre Evangelista Del Rio» aveva curato «il piano dell’opera e il progetto grafico». L’amico rogazionista Vito Magno racconta d’averlo avuto come docente di giornalismo all’Antoniano, dove tenne l’ultimo corso nel 1972-73.
Divenimmo subito amici: lui sapeva di più, io mi muovevo con maggiore libertà e mettevamo in comune quello che trovavamo. L’amicizia si estese alle famiglie. Era padrino di uno dei miei figli.
L’arrivo del papa polacco ci spiazzò e innescò – tra noi due – un conflitto interpretativo che durò dieci anni e sboccò in un volume scritto a quattro mani: Wojtyla il nuovo Mosè (Mondadori, Milano 1988). Un conflitto fecondo, dunque, e che credo sia stato utile, nel suo esito in volume, anche per lo sviluppo della letteratura sul pontificato.
Nel 1981 io passai al Corriere della sera e lui continuò a La Repubblica fino al 1993, quando andò in pensione. Lungo l’ultimo decennio ha collaborato a La Stampa, ad Avvenire e a Famiglia cristiana. Tra i volumi che ha dedicato al papa, due sono pubblicati dalle EDB: Wojtyla. Un pontificato itinerante (1994), I fioretti di papa Wojtyla (1999).
Da uomo libero qual era, curioso di tutto e francescano dentro, il suo giornalismo è stato sempre sanamente provocatorio. Una volta gli provocò l’esclusione da un volo papale, in occasione del viaggio in Venezuela, Ecuador e Perù, del gennaio-febbraio del 1985, per aver riportato un giudizio di «trionfalismo» sui viaggi papali, dato dal teologo spagnolo Diez Alegria. Ma non fu una cosa seria: fu piuttosto un incidente dovuto all’impuntatura dell’ambiente vaticano. Posso attestare che il suo lavoro sulla figura del papa era vastamente apprezzato, in Vaticano e da uomini tra loro diversissimi: dai cardinali Angelini, Etchegaray e Tucci, ai vescovi Marchiano e Pastore, al portavoce Navarro-Valls, che a lungo si dolse d’aver dovuto prendere quella decisione nel 1985.
L’ultima fatica: «Karol il Grande»
Chi è interessato ad approfondire questo aspetto, si procuri l’ultimo libro scritto da Domenico, che sta per apparire presso le Paoline, con il titolo Karol il Grande: ne ho scritto la prefazione, ricostruendo l’itinerario della sua interpretazione del pontificato. Qui voglio concentrarmi sulla lotta di Domenico per mantenere la fede.
Mi ha raccontato il card. Tonini d’essere stato lui ad accogliere Domenico nel seminario di Piacenza, dove restò fino al ginnasio, passando poi – dopo un’interruzione di qualche anno – ai frati minori, tramite la conoscenza di padre Gemelli. Sarà di nuovo Tonini – negli anni settanta – ad aiutarlo a ottenere la riduzione allo stato laicale, chiesta per sposare Janja Raguz, croata dell’Erzegovina, che ha amato più di se stesso.
La sua prima prova fu l’isolamento dopo l’uscita dalla famiglia francescana. Ebbe anche difficoltà ad andare avanti. Lo ricordo che diceva a Scalfari, quand’era ancora un collaboratore «precario»: «Questo sarà un Natale triste per me e per Jania».
Quell’isolamento lo vinse solo – e mai del tutto – con il successo professionale e con l’intelligente valorizzazione ottenuta negli ultimi anni presso Avvenire e Famiglia cristiana.
Infine la prova delle prove: la morte di Janja. Lei se ne andò quando Domenico stava scrivendo Roveto ardente (Studium, Roma 2000), che porta questa dedica: «Nella tenera attesa / di rivedere Janja / approdata in Dio».
La messa di commiato per Jania si tenne il 1° settembre 2000 nella chiesa dei Santi Gioacchino e Anna al Tuscolano. Alla fine della celebrazione, il parroco lesse una preghiera scritta da Domenico. Eccola:
«Signore, ora tocca a te amarla»
Muore una persona cara (la persona più cara che si ha) e un vento di dolore ti invade dentro. Anche il cuore ha la sua morte. Oh, certo, nel mondo ci sono dolori anche più grandi, sofferenze più atroci, solitudini più strazianti. Ecco, allora, diciamo che il lungo dolore della sua sofferenza fisica è stato uno della immensa moltitudine dei dolori del mondo. E in quella moltitudine adesso c’è anche il dolore di chi, teneramente accanto, l’ha contemplata a lungo mentre lentamente, dolcemente, serenamente, andava scivolando in Dio.
«Si muore sempre come un fanciullo», dice il profeta Isaia. E il sorriso del fanciullo è fiorito per tutti sul suo volto di dolore fino al momento estremo, e la tenerezza e la mansuetudine dell’agnello.
Anche per questo, ora, io posso parlarti, Signore? Tu hai visto la sua paziente agonia (lei ha sofferto più a lungo di te sulla croce). Ti abbiamo pregato, Signore, e tu non hai voluto ascoltarci. Anche noi ti chiedevamo di tenere lontano questo calice.
Non ci hai esaudito, Signore. Pazienza, pazienza!
Forse perché anche per lei, in una partecipazione di redenzione, avvenisse quello che è accaduto per te qui sulla terra, senza che il Padre ascoltasse: agonia nel Getsemani e morte sulla croce. Ma io, lo so, ora non oso, non sono degno di gridare: «Dio mio, Dio mio, perché ci hai abbandonato?»
Ma posso farti una raccomandazione, Signore? Lei era la persona che più amavo. Ora, lei è da te. Ora tocca a te amarla. Io sono triste, Signore, ma ho fiducia perché so che tu puoi amarla anche più di me.
La preghiera mi parve bella, davvero cristiana e – dopo la messa – andando ad abbracciare Domenico gliene chiesi una copia. Mi disse: la trovi su La Stampa di oggi. Ricordo questo particolare per lodare il semplice coraggio che aveva avuto di pubblicare una preghiera su un giornale laico.
Si direbbe che dopo la morte di Janja, che aveva patito così a fondo, Domenico abbia trovato facile la propria morte, o come facilitata dall’attesa di lei. Colpito da tumore allo stomaco, non aveva fatto avvertire nessuno del suo ultimo ricovero. L’ho visto sei giorni prima della morte.
«Sul papa non voglio dare giudizi»
Mi ha chiesto dei miei figli, a uno a uno. Abbiamo ricordato le gite familiari, le olive e i funghi dell’Abruzzo, dove aveva una casa di vacanza. Poi ha condotto lui questa conversazione più impegnativa.
«Gigi! Siamo alla fine. Sono quattro giorni che non mangio. Mi alimentano con la flebo».
«Vuoi che avvisi qualcuno?».
«Ieri è venuto don Andrea e mi ha dato l’unzione. Sono a posto. Saluta tutti».
«Vuoi dire qualcosa a qualcuno?».
«Al papa! Vorrei far sapere al papa che lo ringrazio, vedi tu se puoi farglielo sapere. Che lo ringrazio, con umiltà, per l’aiuto che mi ha dato a credere. Io avevo tanti dubbi e tanta difficoltà a credere. Mi è stata di aiuto la forza della sua fede. Vedendo che credeva con tanta forza, allora anch’io un poco mi facevo forza».
«È legato a qualche episodio o parola del papa, questo aiuto?».
«L’avevo a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto. Ho scritto un libretto sulla fede del papa, quello intitolato Roveto ardente. Lì è spiegato che cosa intendo per “mettersi in Dio”. Ho cercato di fare come lui».
«E così quei dubbi li hai superati?».
«Non li ho superati, ma non li ho più considerati. È come se li avessi messi in un sacco e li avessi lasciati mettendomi in Dio, come ho imparato a fare dal papa. Di questo lo ringrazio. Da nessuno mi è venuto tanto aiuto come dalla sua fede».
«Vuoi dire al papa anche qualcosa che riguardi il pontificato?».
«No, non voglio dare giudizi».
«Però di giudizi ne abbiamo dati, tu e io, in tanti articoli e libri: abbiamo fatto cinque libri a testa su questo papa!».
«Io sei! Quando mi sono ricoverato, avevo appena consegnato alle Paoline un volume intitolato Karol il Grande. Apparirà dopo… dopo qualunque cosa! Speriamo che mantengano il titolo, perché a volte lo cambiano».
«Se si intitola Karol il Grande dei giudizi ci saranno!».
«I giudizi ci sono. Ma vengono dopo Roveto ardente e sono ispirati a quella riflessione sulla fede del papa».
«Questo era l’ultimo saluto»
In tutta questa conversazione, durata tre ore, Mimmo era sereno e spesso sorridente. Gli ho detto: «Posso tornare». Mi ha risposto: «Questo era l’ultimo saluto». «Allora dammi la tua benedizione», gli ho detto e l’ha fatto con un gesto della mano.
Sulla porta mi sono fermato a salutarlo con la mano e gli ho detto: «Addio Mimmo». Ha ricambiato, visibilmente contento e ha ripetuto: «Saluta tutti».
Luigi Accattoli
Da Il Regno 4/2003