Tra i doni della vita c’è stato per me l’incontro con don Paolo Serra Zanetti (1932-2004), don Paolino per quanti l’amavano. Ed è capitato che io sia stato chiamato a Bologna per la presentazione del volumetto L’urgenza di amare. Lettere a suor Emanuela e altre meditazioni, a cura di Paola Dalli e Giancarla Matteuzzi (EDB 2011), che si è fatta nella Cappella Farnese di Palazzo d’Accursio il venerdì 16 marzo 2012 alle 17,30. Ho atteso quell’ora in Piazza Maggiore, seduto sui gradini del Palazzo di Re Enzo dove si sedeva con gli amici Lucio Dalla che quella piazza aveva “salutato” 12 giorni prima.
Per la presentazione avevo scelto di leggere una delle sette lettere inviate da Paolino a suor Emanuela: l’ultima in cui narra della morte della mamma e che ha la data dell’11 dicembre 1989.
Una notte difficile
ma segnata dalla grazia
Cara Emanuela, è passato tantissimo tempo, ma ormai non vengo neppure a scusarmi.
Sempre nelle lettere Paolino si scusa del ritardo, suo “vizio capitale”. Ma qui scrive: “non vengo neppure a scusarmi”. Ora è capitato un caso serio.
All’inizio di settembre mia madre ebbe uno scompenso cardiaco abbastanza grave; non fu ricoverata, ma rimase in casa, ferma nella sua stanza, per lo più in poltrona quando non era a letto; una mia cugina veniva ogni pomeriggio e preparava qualcosa anche per il giorno dopo, io (…) tornando verso le 13, cuocevo la minestra, scaldavo la pietanza, e si mangiava assieme.
“Cuocevo la minestra”: la porteremo con noi questa santa minestra di Paolino e della sua mamma.
Ma nel pomeriggio dello stesso giorno 20, dopo aver messo in ordine la cucina e aver anche fatto un po’ di lavoro su traduzioni di un passo biblico…
Il caso serio arriva mentre il nostro scriba attende alla Scrittura. Era scritto che così dovesse accadere. Egli infatti non lasciava mai quello studio. E se lamentava una sua “situazione generale di ritardo” era a motivo di quella continuata precedenza.
Ti dirò che già la notte precedente il ricovero (…) io mi ero ormai convinto che si fosse alle ultime ore: il respiro era difficile, una specie di rantolo; per due volte la svegliai col timore che non si svegliasse…
Paolino si fa mamma della sua mamma e la scuote per vedere come sta, proprio come fa una mamma quando vede che il bimbo non si riprende dal sonno.
Fu una notte per me difficile e insieme, son convinto, segnata da qualche grazia profonda; dovetti percorrere, in tempi che mi parevano brevi, l’itinerario d’una accettazione in cui non prevalesse nessuna angoscia (del non detto, del non fatto; e poi proprio della separazione – ma diciamo pure: della separazione sensibile, ritenuta molto ravvicinata) e invece prevalesse la parola di pace che è stata detta sul nostro vivere e sul nostro morire (viviamo per il Signore … moriamo per il Signore…; tutti vivono per lui…).
Accettare la morte
senza nessuna angoscia
Qui è la ragione della mia scelta di questa lettera che considero un testo capitale per intendere la santità di Paolino. Qui la parola chiave è “grazia profonda” che rimanda a Efesini 3: “Vi conceda [il Padre] di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito e il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” dell’amore di Cristo. Una grazia dunque che viene da quella “profondità”. In quella notte difficile e segnata dalla grazia, Paolino è stato “potentemente rafforzato nell’uomo interiore” e questo rafforzamento gli ha permesso di “percorrere in tempi brevi” un grande “itinerario”, nientemeno che quello dell’accettazione della morte. L’accettazione della morte altrui che nel profondo coincide con l’accettazione della propria morte. Con la mitezza di parola che gli conosciamo, Paolino dice solo “accettazione”, ma è questo che intende.
Sull’accettazione: “I santi sono coloro che da vivi hanno realmente acconsentito alla morte” dice Simone Weil. Qui abbiamo Paolino che attesta come in quella notte la grazia del Signore gli abbia permesso un’accettazione senza “nessuna angoscia”. In Romani 8 Paolo chiede se la tribolazione, l’angoscia, la nudità, la spada ci possano separare dall’amore di Cristo: ed ecco che qui Paolino – il ruminatore della Parola – ci assicura che la sua accettazione non fu turbata dall’angoscia. E potremmo ricordare ancora Matteo e Luca che nei capitoli 26 e 22 ci dicono dell’angoscia sperimentata da Gesù nell’orto, cioè nell’itinerario suo di accettazione della morte.
“In tempi brevi l’itinerario” di questa grande accettazione: qui è un’eco del linguaggio liturgico, dove per esempio si dice di un santo giovane che “brevi aetate explevit tempora multa” (compì in pochi anni una grande età).
Preghiera del cuore
che non ha bisogno delle parole
Infine le parole tra parentesi: “tutti vivono per lui”. Cioè tutti gli uomini, anche i non cristiani: Paolino sempre interroga la Parola a nome di tutti.
Poi, credo di aver avuto molti aiuti; credo anche aiuti proporzionati alla mia debolezza. Mi riferisco alle settimane che sono seguite; penso al fatto che mia madre non ha perso del tutto la parola, ma ha continuato a conoscere le persone, a capire, a dire parole e brevi frasi (…); è sempre riuscita a pregare distintamente (due o tre volte, quando stava peggio, muoveva almeno le labbra; anche l’ultimo giorno).
Questi “molti aiuti” vanno visti nell’ordine di quella “grazia profonda”. La mamma che muove le labbra nella preghiera ci appare come un’ultima preghiera del cuore che non ha più bisogno delle parole.
Ha conservato conoscenza fino a due ore prima della morte (quando è entrata in coma); qualche ora prima aveva di nuovo ricevuto l’unzione dei malati e la comunione; un po’ più tardi le ho letto – e sono certo che ha «partecipato» – il salmo 120 (121); il salmo 130 (131) e Luca 23, 44-49.
Luca 23 dove Gesù muore gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. E dove si squarcia il velo del tempio e il centurione dà gloria a Dio e la folla torna in Gerusalemme battendosi il petto e ci sono le donne che guardano da lontano. Vivere ogni morte nella memoria della morte di Gesù e nella lettura dei testi evangelici che la narrano: questo è un insegnamento di Dossetti fatto proprio con totale adesione dal nostro Paolino.
Vedo un segno nelle donne
che l’hanno compreso più degli uomini
Mi è rimasta dentro gratitudine, una sorta di dolcezza ferma e chiara, con qualche ritorno di commozione.
In altra occasione – Lettera a Giancarla dopo l’arresto cardiaco del 1998: nel volume La speranza resistente. Scritti di don Paolo Serra Zanetti, Lo Scarabeo, Bologna 2005 – parlerà, in riferimento alla separazione dalla mamma, di “intenso e quieto e commosso e grato ricordo”.
A casa sono solo, anche se bisogna dire subito che una mia cugina, col marito, abitano al piano di sopra; così, se non sono da altra parte, mi invitano sempre a mangiare, e si dan da fare anche per l’andamento della casa.
Questa cugina era già nominata prima ed erano segnalate “una ragazza” che andava in casa quattro o cinque volte la settimana e una dottoressa. Queste presenze femminili sono da lui nominate con una sorta di sobrietà evangelica: “C’erano anche delle donne che lo seguivano”. Abbiamo avuto questo libretto con testi di Paolino – e altri più corposi in precedenza – per opera di altre donne che l’hanno amato e servito, in vita e dopo. Vedo un segno nelle donne che l’hanno compreso più degli uomini: un segno di autenticità nell’umiltà.
Mi fermo qui. Abbiamo letto metà di quella lettera che a mio parere è un testo di straordinaria bellezza. Una lectio narrativa sui doni che possono venire dal morire cristiano (salto acrobatico: “I doni della morte” è il titolo ad alta provocazione fantastica del settimo dei romanzi della serie di Harry Potter della scrittrice inglese J. K. Rowling, pubblicato nel 2007). Paragonabile alla lectio fattuale della carità che Paolino ci ha lasciato con la lettera al giornale Piazza Grande del maggio 1996: è nel volume La speranza resistente, citato sopra. Sono questi i suoi due testi migliori tra quelli extrabiblici.
Una radicalità senza paragoni
che va onorata e studiata
In quella lettera abbiamo riascoltato la sua voce così dimessa eppure così vera, di un uomo che fu tra noi come l’umiltà fatta persona e che – proprio in forza di quell’umiltà, io credo – ebbe il dono di un affidamento tale alla guida dello Spirito che lo fece infine sicuro di Dio. Questo in sostanza ci ha detto narrandoci i “molti aiuti” e la “grazia profonda” che sperimentò con la morte della mamma. In quell’umiltà e quell’affidamento egli ha realizzato perfettamente la condizione inerme dell’autentico discepolo di Cristo sulla terra: inerme con ogni interlocutore e prima di tutto con i poveri. Discepolo e amico di don Giuseppe Dossetti egli ha pienamente sperimentato quella condizione del credente di oggi che il suo maestro aveva tante volte indicato come affidata alla “fede pura” (per esempio nell’omelia a Montesole per la professione di Giovanni Lenzi, 1994; ma vedi anche La Parola e il Silenzio, Il Mulino, Bologna 1997, p. 361). Egli è stato tra noi come un Dossetti ricondotto alla sola Parola e alla sola Carità.
In Dossetti c’era molto altro, sebbene tutto in regolato subordine: l’interprete del Vaticano II, il riformatore del monachesimo, il monaco che torna in città nelle emergenze. Prendi per buono tutto questo ma silenzialo nel cuore e avrai don Paolino. Questa sua radicalità senza paragoni va onorata e studiata. Lo studio potrebbe partire dalla dottrina biblica della “grazia” che don Paolino svolge assiduamente e di cui abbiamo visto un esempio nella lettera che qui ho provato a interpretare.
Da Il Regno 8/2012